QUADERNO | NOTE E APPUNTI, DIURNI E NOTTURNI DI FAUSTO MARCONE
Il Teatro alla Moda (1720) di Benedetto Marcello
Redazione- Mi ero imbattuto, da qualche parte, in una citazione di Benedetto Marcello. Esprimeva, vado a memoria, questo concetto: le ultime variazioni in teatro devono andare in diminuendo, senza spegnersi, «vibrando oltre» la chiusura del teatro. Mi era sembrato interessante e anche applicabile ad altre espressioni artistiche oltre la musica e forse non solo alle espressioni artistiche, ma addirittura nella tecnica del discorso, nel creare un eco che vada oltre la fine delle parole, un desiderio di ogni degno oratore.
Chi faceva tale citazione la situava nel piccolo libro, un pamphlet, che B. Marcello pubblica anonimo nel 1720, cui dà il titolo di Teatro alla moda. L’ho cercato e l’ho letto. Ma quale meraviglia nel trovarmi sotto gli occhi un discorso che non mi aspettavo, molto altro da ciò che la citazione mi aveva fatto pensare. Prima di ragionarci, ho cercato di documentarmi.
Dalle prime frasi del libro B. Marcello alza il suo di sipario sul teatro lirico del ‘700, che a rigore storico è il primo vero teatro lirico, quello d’impresa, cioè attività economica lucrativa, che destatosi da una protostoria seicentesca, del teatro di corte, accade ora in Venezia, la città di B. Marcello, e che forse non poteva non accadere in Venezia. Già nel ‘600, due famiglie patrizie, i Tron e i Grimani, si erano impegnate in impresa teatrale commerciale. Via via se ne aggiungeranno altri di teatri e alla metà del Settecento se ne contano, attivi, una quindicina, attivi ma non sempre redditizi: attivi comunque perché un’ordinanza della Signoria obbliga alle rappresentazioni anche il teatro in bilancio passivo, poiché le rappresentazioni sono concentrate nel periodo di Carnevale che già allora in Venezia era un richiamo turistico a forte valenza commerciale.
Questo nuovo modo di fare musica e prosa, di tipo manageriale, cominciò a comportare una complessa attività, del tutto incentrata sul profilo economico. Il budget era il perno su cui ruotava l’avvenimento teatrale e dunque l’ammortizzamento delle spese risultava cogente rispetto ai contenuti e ai significati culturali. S’era creata una macchina complessa dunque che poteva risultare anche difficile governare.
Leggevo e faticavo a non pensare alla mondanità che s’accoppiava alla modernità, primo
perché il teatro è sempre stato un’occasione mondana, anche quello greco, poi perché il Settecento, ancor più il Settecento veneto, ne fa un appetitoso contorno della vita che è alla pari, per la moltitudine, della conversazione di salotto, del Caffè, della lettura delle prime gazzette quotidiane: a teatro si va per appuntamenti, per corteggiare, per giocare e anche per stupire delle scenografie e delle macchinazioni teatrali che divennero in poco tempo famose e solo infine per prestare attenzione al senso della rappresentazione. A Venezia esisteva anche un’altra occasione musicale mondana, erano i concerti delle putte dei Conservatori pubblici, orfane, tutte donne, a Napoli erano invece tutti maschi, orfane educate a spese della Signoria e con un’educazione quasi esclusivamente musicale. Si avvicendarono in tali istituzioni i migliori maestri di allora e Vivaldi fu uno di questi. Anche i Concerti delle putte richiamavano pubblico e spesso pubblico d’eccezione per la levatura musicale delle composizioni e delle esecuzioni. Goethe ha lasciato delle note in proposito durante il suo giro in Italia. Era avvenimento musicale di grande compostezza e decoro.
Ho cominciato a leggere ma la frase che era stata il motivo della curiosità non la trovavo.
Di B. Marcello avevo ascoltato un tempo i Concerti a 5 e i Concerti grossi, ma anche qui quale scoperta quella di venire a sapere della vastissima sua opera, sacra, profana, concertistica e anche teatrale. Il tempo di un uomo di genio è sempre più lungo del tempo corto dei suoi anni. Era figlio di una storica famiglia aristocratica veneziana e insieme al fratello Alessandro fu dedito alla musica, ma diversamente dal fratello non fu solo musicista, fu impegnato anche nella vita pubblica in Venezia, dal momento che ricoprì cariche di magistratura, non primarie, ma pur sempre magistrature ed ebbe, significativo dettaglio biografico, un’indole non proprio conformista. Ora gli incarichi di giustizia lo portarono senz’altro ad avere un’esperienza di prima mano dei casi e delle vicende umane, se ne intravede la forza formativa proprio nel Teatro alla Moda, ma il suo carattere è sicuramente la cifra della sua vita, non lo fece indietreggiare di fronte ad un matrimonio ritenuto sconveniente dalla sua famiglia e dal suo rango e non lo fece indietreggiare di fronte alla tentazione luciferina di scrivere un libretto d irrisione e di biasimo, in definitiva di condanna giudiziale del teatro moderno. Dunque un personaggio che attira attenzione e ispira simpatia. E che libro, questo.
Vivacissimo, ricco di informazioni sui costumi e le strutture teatrali dell’epoca, con il suo vero essere in quella che sembra essere una satira mirata e rovente proprio su quei costumi e quelle strutture e con bersagli autorevoli e riconoscibilissimi al tempo. Ho seguito attratto e naturalmente divertito, ma intanto cercavo di mettere ordine nei pensieri e alla fine mi sono chiesto se il discorso di Marcello non era forse in linea con quell’altro Settecento, quello non celebrato ma parallelo seppure un po’ più nascosto. Nel Settecento a parlare furono non solo le magnifiche sorti della ragione, ma anche altre consapevolezze, quelle del sonno della ragione, che per esempio alcuni pittori mostrano bene, Hogarth, Guardi, Tiepolo (con i suoi Capricci) e alla fine del secolo Goya, e poi penso a certe pagine di Hume e a quasi tutta l’opera di Swift. Non solo il secolo dell’Illuminismo dell’Encyclopedie, la magnificenza dell’opera dell’uomo e la sua uscita dallo stato di minorità con le prime grandi riforme cosiddette progressiste, ma anche il secolo della scoperta acidità dell’animo umano e dell’amarezza per la fondamentale e proterva sua stupidità.
E il libro di Marcello mi pare stia proprio in questo al di qua.
Il teatro del titolo è “alla moda”, cioè il teatro contemporaneo, quello che si praticava come teatranti e si frequentava come spettatori, che ha malcelato dispregio verso la qualità e la scelta di un pubblico di bocca buona o di nessuna bocca, un teatro insomma nato per far soldi non certo per l’arte. “Moda” deve venire dal latino modo e sta per tante cose, ma è avverbio che può avere notazione temporale: al momento, adesso o di adesso, e questa notazione che le si è impressa in quel torno di secolo ha continuato poi a significarlo.
La rassegna che B. Marcello fa di questo “Teatro alla moda” è pressoché completa, e impietosa. Ogni attività e mestiere viene menzionato e “canonizzato”, ciascuno viene descritto e a ciascuno si dà suggerimento, luciferino e velenoso. Mi è venuto in mente un altro librettino, ugualmente caustico e feroce o forse di più, le Istruzioni alla servitù di Swift, seconde solo a quell’ultimo capitolo, al vetriolo, dei Viaggi di Gulliver, e al pari dei testi di Swift e di tutti i testi con irrisione e sberleffo, il “Teatro alla Moda” rivela l’orgogliosa ansia di verità di chi è stato tradito dagli avvenimenti.
È un campionario descrittivo e, nella finzione satirica, un campionario di suggerimenti, a tutti coloro che fanno il teatro, di incapacità, ignoranze, menzogne e simulazioni, ipocrisie e pretese, vanterie e millanterie, truffalderie fino a piccoli e non piccoli furti.
Già nel frontespizio se ne fa l’elenco: si parlerà di “avvenimenti utili e necessari”, cioè suggerimenti e raccomandazioni a poeti, compositori, musici e impresari, ingegneri e pittori di scena, parti buffe, paggi, comparse, suggeritori, copisti, protettori, madri di virtuose. Manca qualcuno? Persino al venditore di botteghino, i “dispensatori di biglietti”, si raccomanda di fare la cresta sul resto da dare.
I suggerimenti sono “utili e necessari” e il “necessari” è di rafforzo, non a ribadire, ma a sanzionare proprio quello che va fatto. E cosa va fatto?
Questo teatro è il regno dell’approssimazione. E approssimazioni di ogni genere vanno perpetrate, in ogni mestiere e angolo del teatro, approssimazione fino all’ignoranza completa, dei compositori, dei suonatori, dei cantanti, del poeta, dello stesso impresario, e giù dei ballerini, dei sarti, delle comparse, dei suggeritori, dei copisti e persino dei fabbri.
Ognuno deve aver modo di imbrogliare, di far credere ciò che in verità non sa e non è in grado di realizzare, millantare, simulare, usare frustre e pacchiane ipocrisie e su questa strada ognuno Marcello spinge con i suoi sarcastici ed acri suggerimenti, quasi sempre trasportati dai verbi «dirà» o «farà intendere». Ma sopra ogni cosa a ciascuna componente, raccomanda Marcello pedagogicamente, di essere del tutto ignorante sia del proprio mestiere che del fare teatrale, perché solo così può essere noncurante e tuttavia fattivo partecipe del lieto evento di quel Teatro alla Moda.
Di ognuno viene profilata la inesistente personalità artistica che dovrebbe assumere. Il poeta «chiamerà Dante, Petrarca, Ariosto, ecc., poeti oscuri, aspri e tediosi», a lui conviene «abbandonare ogni regola» e «non dovrà… professare cognizione veruna del metro e del verso italiano».
Il compositore, e Marcello parla con piena cognizione, «non dovrà possedere notizia veruna delle regole di ben comporre, toltone qualche principio universale di pratica», «lavorerà a casaccio», lavorerà a casaccio, ‘casaccio’, una sentita espressione semipopolare a dire di lavori svolti senza nessun criterio e disposizione d’ordine. Dunque le sue conoscenze non devono andare al di là di qualche principio universale di pratica, neanche un’infarinatura dell’armonia o meno ancora delle regole del contrappunto.
A ciascuno, en passant, si consiglia di usare l’orso, persino al compositore e alla virtuosa. L’orso è una presenza perfida e costante nel libretto, poiché evidentemente doveva essere piuttosto sfruttato e di grande effetto scenico, (il titolo e sottotitolo del libro avrebbe potuto essere “Teatro alla Moda o dell’orso moderno musico”). Ciascuno nel presentare il proprio lavoro dovrà schernirsi ipocritamente, mentire con la spudoratezza di chi pensa gli altri tali e quali a babbei, e intanto avere di mira e pretendere il proprio lucro.
Può essere spassoso seguirlo in tutti i suoi passaggi su tutti quegli angoli di teatro, il tono in alcune frasi è volutamente quello della farsa e tale doveva Marcello giudicare quegli spettacoli. Alla farsa si consiglia la farsa, quod abundat non vitiat. Leggevo imponendomi di non pensare ai fabbricanti delle canzonette e dei video musicali moderne. E intanto la mia frase non la trovavo.
Sempre il compositore, suggerisce Marcello, dovrà cercare lo strepito (appunto lo strepito) e non l’armonia, avrà molta piaggeria nei confronti dei cantanti, delle prime donne e dirà ch’ «egli compone cose di poco studio, e con moltissimi errori, per soddisfare all’udienza». Ancora cercavo di stornare il pensiero dai ritmi e dagli stilemi della attuale musica “alla moda”, benché il bersaglio polemico di Marcello risulta essere stato nientemeno che Vivaldi che aveva composto per quel teatro anche con successo. Marcello non si ferma davanti al nome e alla larga notorietà, ma non mi pare si possa parlare di invidia, l’intento e la spinta polemica sono altri e in strada ha poi trovato compagni, musicisti come Tartini e letterati come Muratori e Metastasio.
La riedizione che ho usato è quella del Polifilo (La Biblioteca Perduta), del 2006, curata da Carmelo Di Gennaro. Tra parentesi: c’è una frase di Muratori, riportata nella presentazione del Di Gennaro, che dice: «Il canto lo (dei musici del teatro) sempre ispira una certa mollezza e dolcezza che segretamente serve a sempre più far vile e dedito a bassi amori il popolo, bevendo esso la languidezza affettata delle voci e gustando gli affetti più vili, conditi della melodia non sana». È interessante. Forse Muratori non è il primo a fare un’osservazione del genere e altri successivamente segnalano la forza pervasiva della musica, ma è comunque ancora un tema, questo della pervasività della musica, su cui si riflette poco. E forse conviene rifletterci poco. Anzi è meglio non dir nulla, se non si vuole andare incontro a sgradevoli anatemi.
Però: quanta distrazione è insita nella lettura! È come se alcune frasi o addirittura alcune parole generassero punti di fuga obbligati, che non si può non imboccare.
Ancora qualche citazione da Marcello. Le madri, delle cantanti, delle “virtuose” e le loro malizie. Onnipresenti, onnivocianti, sono loro che rispondono all’impresario o al compositore, accorciando l’età delle figliole, dando ragguagli sulle condizioni dell’alloggio, sempre pessime, sulle virtù della ragazza, sulle altre figlie anche, prossime al matrimonio, il tutto in un dialetto che, se l’ho inteso, deve coprire tutta una zona che gira attorno a Bologna.
Infine si suggerisce anche una riffa, che con «biglietto a quattro luigi d’oro è di varie grazie» con di seguito l’elenco di queste grazie, i premi in palio, tutti oggetti teatrali inutili, spazzatura, avanzi e detriti di spettacoli, ma, in mezzo, una piccola levata della fantasia di Benedetto Marcello: «una gran cassa piena di indiscretezze, sussieghi, pretenzioni, vanità, risse» o «un borsone con molte vigilanze, accuratezze, attenzioni, vigilie, occhiate (già, occhiate)… legate con nastro color di musica (color di musica!)» o ancora «un microscopio (che nel 1720 era ancora agli inizi della sua carriera scientifica ma che) mostra le inquietudini, inesperienze, passioni, vane promesse, disperazioni, speranze deluse (sembra di vedere il rovistare di Astolfo)… teatri vuoti, plate (la plata è una barca lagunare, è la barca che si vede nel frontespizio sulla quale compare anche il sullodato orso. Malipiero una volta sciolse l’enigma di questa immagine: insieme all’orso c’è proprio Vivaldi), cariche, fallimenti, ecc.» e infine anche «la penna che scritto il Teatro alla Moda». Già, anche la penna che ha scritto il Teatro alla Moda.
La polemica sarcastica e derisoria è dichiaratamente contro un teatro musicale che va di “moda”, affermatosi appunto tra la fine del Seicento e il Settecento, e in particolare il bersaglio principale è musicale e illustre, si tratta appunto di Vivaldi. Il discorso del libretto sembra dunque leggibile all’interno di una storia critica della musica e del teatro musicale. Vero.
Vero è ancora che quella fu un’epoca in cui cambia la scena della musica, dalla corte al pubblico, dal dramma musicato e dall’idillio pastorale al melodramma, all’opera lirica come oggi la si conosce. E di sicuro dovevano gravare ancora le ombre della discussione tra Zarlino e Galilei.
In questo momento di passaggio avvengono cose interessanti musicalmente e la voce di Marcello sembra parlare al passato, con il rammarico della perdita.
Ecco una discussione da fare, intendo sulle perdite del passato, ma non certamente sulle sciocchezze che si dicono («Ma tu vorresti tornare a cucinare col camino?» o all’opposto «Dove andremo a finire»), su quanto invece, conquistato dall’intelligenza o in germe, viene spazzato via da forze e interessi vincenti, altri e disconoscenti, e debba essere riscoperto successivamente o perso definitivamente. Più volte è successo, ma la discussione sarà per un’altra volta, chiedendo aiuto a chi l’ha già affrontata.
Uso l’espressione “di passaggio”, poiché anch’io pigramente stento a vedere cadute culturali e pigramente torno invece a pensare il succedersi delle scene culturali come a un seguito di passaggi vietandomi la domanda se era possibile prendere un’altra strada. Ma questa è un’altra questione. Torno al libro.
La polemica musicale, certo. E tuttavia ho continuato a pensare e a vederci altro. C’è un discorso ben altrimenti potente alle mie orecchie. La polemica è doppia, c’è quella musicale: vedere la musica cui si era caparbiamente educato bistrattata in quella maniera dovette certamente procurargli fiero dispiacere, fiero dato quel carattere non domito, ma la polemica umana, ai miei occhi preminente, ha una valenza universale incontestabile.
Nel suo stigmatizzare presenta alcuni quadri, alcuni profili di uomini e comportamenti che non sono confinati nel Settecento. È un catalogo sempiterno di “virtù”, di logiche umane truffaldine sulle quale si può scherzare, come Plauto o Molière, ci si può indignare come i romantici o i russi dell’ Ottocento, o si può usare il sarcasmo, fiele nella mente di chi lo mette sulla pagina, come fanno Marcello e Swift (e ancora come nei Capricci di Tiepolo).
Benedetto Marcello non redarguisce il presuntuoso, che è comunque qualcuno che ha una minima cognizione di causa ciò che lo spinge ad affermazioni in eccesso, né l’inconsapevole ingenuo che appare sempre, pur nell’avventatezza, in una sua semplicità e veridicità.
Quel che invece mostra è un brutto territorio di mezzo, il parlare e l’agire della balordaggine che pensa gli altri siano tutti stupidi e a cui si può far fare e chiedere spudoratamente il proprio interesse. Vivaldi non era un presuntuoso, né un inconsapevole, ma pieno è oggi il mondo di balordaggini. Non ci sono forse millantatori dalla lingua sciolta e più di un miles gloriosus che appaiono nei nostri giorni?
Campeggia la pacchianeria, “virtù” diffusa, con i suoi vari livelli e con particolare rilievo a quella ammantata di una qualche livrea (l’art pompier dei francesi), o quel raffinato modo di mentire che consiste nel mescolare una piccolissima verità ad un gran resto di menzogna, che quando va oltre diventa cinismo, e poi il raffazzonare nella sicumera che gli altri siano creduloni e si può dunque millantare loro tranquillamente tutto il credito immaginabile, e via via la meschinità, l’animo ladruncolo, l’impudenza e sfacciatagginre, la furfanteria e il raggiro, la superficialità ed approssimazione, la noncuranza, ma nel catalogo figurano anche farfalloni, vanagloriosi, vanesi e pretenziosi con le loro stramberie, pretese e idee sgangherate, il tutto nel grande brodo dell’asinaggine. Chissà se l’indimenticato Valentin di Tingeltangel non abbia avuto tra le mani questo libretto. Ogni cosa però ha lo scopo di far denari sfruttando il pubblico largo che vuole spettacolarità, orecchiabilità, divismo, retorica anche roboante, tempo bruciato. Un tutto che tutto travolge e calpesta.
Possono arrivare a capire ciò che fanno, sembra dire Marcello, ma non a vergognarsi.
Quell’intento, le sue affermazioni, il suo sarcasmo insomma (il sarcasmo è cosa pesante, spesso passa per un tipo di ironia, ma ironia non è, è ben altro affare, è dolore, amarezza) sono altrimenti validi e oltrepassano quell’inizio del Settecento, vanno al di là, schiaffeggiano quell’agire umano comune fatto di superficialità, ignoranza, strafottenza imperterrita, spesso arroganza, il quale è lontano dall’onestà intellettuale e dal rigore morale. È un libretto che parla a noi. Non abbiamo avuto e non abbiamo movimenti “alla moda”, partiti e governanti “alla moda”, televisioni “alla moda”? Non girano attorno ai nostri giorni millantatori dalla lingua sciolta e più, più di un miles gloriosus?
Delle tre domande fondamentali, quelle dei filosofi e dei teologi e ora anche della scienza, chi siamo – chi ci ha creato – qual è il nostro futuro, il libretto di Marcello non ha da rispondere alle ultime due, ma alla prima sì, eccome. È il mondo della società che viene scrutato e dispianati ne sono certi suoi vividi comportamenti. Difficile non vedere ciò che siamo.
Non so quanto quanto legittimo possa essere un accostamento tra il fondo spinoso, sotto il fogliame sarcastico, dei discorsi di Marcello ai Capricci del Settecento, che alcuni grandi artisti (continuo a vedere quelli di Tiepolo, ma non sarebbe sbagliato accostarvi anche le Carceri di Piranesi) hanno prodotto e che mostrano la giornata scabrosa e angosciante del vivere umano.
Si potrebbe dire altezzosità, quella di Marcello, e anche fierezza, quella di appartenere non alla aristocrazia ma alla aristocraticità del sentire e dell’intelletto molto distante e forse addirittura nemica della farsa, passatempo preferito della grossolanità, che egli ravvisa come vera dominante nei teatri veneziani. Ha negli occhi Tiziano, Carpaccio, Tintoretto, sulle labbra i versi di Orazio e di Ovidio o nelle orecchie il mottetto e le sue evoluzioni, un cursus honorum di studi e di vicinanza all’arte che non è mai“alla moda” e non è il vino grossolano di coloro che vanno a teatro per fuggire la noia delle loro serate casalinghe.
Tutto questo nelle tre notti di lettura. Poi mi sono venuti i dubbi e ho riletto, frugando tra le virgole, gli aggettivi, spiando le pause del respiro nella scrittura di Marcello.
Non so. È chiara la condanna dei comportamenti, della meschinità della volontà all’inganno. C’era dell’altro? Chissà. Forse nella sua indignazione mi è parso di sentire anche la compassione verso uomini e donne che scendono i gradini della dignità. L’uomo superiore tale rimane anche nel biasimare.