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PRIMO ATTO DI “MR. NOONE” DI MASSIMILIANO NUCCI, ATTO 1°-SCENA I

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Oh muse m’udiste nel triste racconto,

d’un Angelo buono venuto nel sonno?

E’ facile dire…, di meno narrare,

ma questa avventura vorrei raccontare.

 

 

 

ATTO I SCENA I

 

Nel tosto brunire, che agita sera,

si specchia nel vespro la dolce chimera,

non odo, non canti, ma solo stornelli,

la bionda che passa, dai biondi capelli,

rivivo fermento, sognando uno sguardo,

mi trovo frustrato dal mesto suo sguardo,

ravvivo la fiamma, mi spengo nel cuore,

poiché donde vengo v’è mesto dolore.

Così si preannuncia, l’audacia del folle,

o forse soltanto villano più molle,

ma dentro si apre, la porta del cuore,

e vive il meriggio…, e vive l’amore.

Un nome mi diede, mio padre vetusto,

ma crudo è il destino, di chi non ha fusto,

che trova nell’acqua, non proprio la vita,

ma solo la sete di voglia infinita,

si stende il coraggio, si apre la bocca,

e via via s’affaccia la vista alla scocca,

non pare che dianzi, vi fosse coraggio,

ma il resto schiarisce la voce del paggio:

“Oh dama creatrice, dal volto che ride,

sei sol di passaggio nel mondo che arride?

O forse pretendi che il sole si specchi,

nei biondi capelli, di chi non li ha vecchi?

Silvia: Messere…, chi siete? Da quella finestra…,

non v’è più persona, che ponga la destra,

un tempo famiglia, volgeva lo sguardo,

al cielo infinito, al tempo codardo,

ma or son fuggiti, col tempo gli spassi,

vorreste voi dunque mostrare la prassi?

Max: E’ d’uopo cangiare, nel tempo e nei modi,

non è buona cosa che il tempo io lodi,

ma senza di esso, giammai vi vedrei,

tra mille persone, tra mille cortei…,

eppur non so dire, perché vince il gesto,

da poco io parlo e vedo codesto…,

ch’è grande miraggio, non so se poesia,

ma dentro v’è gioia, nell’anima mia;

mia cara la speme, si nutre col saggio,

di chi si sprigiona dall’ultimo raggio,

per te solo rima che cambia nei modi,

domani il pensiero di chi porta i nodi…,

cuciti nel cuore, velati d’azzurro,

di chi sa parlare e non è buzzurro,

ma niente a me vale la rima se spezzo,

l’onor della donna che tanto io apprezzo.

Silvia: Chi mai risultò, nel cuor si soave,

hai forse del cielo e d’onor tu la chiave?

O forse mi burli, soltanto per dire…,

che donna d’amore non deve patire?

Max: Non credo sia il modo, di fare eccezione,

bravata al modesto, sprezzante fellone,

quel cielo che chiama, s’infrange nel buio,

dell’anima mia com’arma e rabbuio.

Silvia: Allora rispondi, qual’è vero nome,

hai forse la lingua che tu usi come…,

la lama che scuce e taglia la gola,

a chi vive il giorno e lesta già vola?

Max: Mia dolce signora, io nome non ebbi,

nel mondo, com’altri, da solo io crebbi,

votai mia passione soltanto al bisogno,

d’aver della donna suo calice in sogno.

Non posso che dirle che nome può darmi,

qualsiasi le piaccia, la gioia nel farmi…,

vestir di pensiero, che forgia persona,

or dunque quel nome, che forte risuona!

Silvia: Messere, sia dolce, per me tal riguardo,

non posso chiamarla che sol con lo sguardo,

un nome non posso, donare ad un altro,

semmai esso finga di essere scaltro,

vorrei ripassare, con lei solo un nodo…,

perché giudabbasso non scende con modo?

Magari parlando quel nome potrebbe,

eriger la fiamma di chi poi la crebbe…

Max: Mia dolce signora, da voi son d’un balzo,

per render giustizia, magari anche scalzo,

le scale, una ad una, nel correr furente,

per viver la notte ed esser servente,

di anima nobile, in vista d’un chiasso,

che dentro di me, diviene dabbasso.

Silvia: Messere, sia lieto, mi porga la destra,

adesso vi trovo, non dalla finestra,

di voi non conosco, il nome taciuto,

per voi cara rima, per voi gran saluto;

se voglia s’arrende a chi non conosce,

del bene le forma e ciò ch’essa posce,

davvero il silenzio, dilegui in un cenno,

e tosto il saluto diventi gran senno…

Max: Mia dolce signora, dagl’occhi del cielo,

sul nome si stende mistero d’un velo,

peccato mi trasse, dal limbo più fondo,

che reca il dolore sì tosto e fecondo,

la vita, narrarle, non posso di certo,

ma dentro il calore è forte e più erto.

Di voi che sognate di dar confessione,

all’uomo più duro che muore in tenzone,

se perdere il senno, porgendo la mano,

fra i biondi capelli, sul capo sultano,

dirò che il sorriso, m’invade e mi prostra,

di voi la saggezza, amor ch’essa mostra.

Così desiderio, di darvi cammino,

tra passi silenti, vicino al giardino,

che sprona la mente, vivendo il ruscello,

per voi rima vera…, o dolce stornello.

Silvia: Lontano il mio cuore, si agita e mesce,

onor disapprova e poi mi rincresce,

donata la stirpe a uomo che giace,

tra lente coperte e in viso soggiace,

purtroppo domani, il vespro fa cenno,

d’aver tra le nubi, l’onore ed il senno,

lontano il dolore, due passi saranno,

se lei dal suo dire, allontana l’inganno.

Max: Ebbene mia dama, il braccio si stende,

da questo sipario leviamo le tende,

vicino il passeggio, lontana la luna,

che ride fra i rami, lasciando a nessuna…,

tra queste pie nubi, l’onor d’arrossire,

su labbra di seta che in voi posso ardire…,

d’aver rivelato parola più bella,

che come canzone diventa mia ancella;

il vostro sentire mi riempie di cura,

così oggi sono e non ho paura.

Silvia: Di botto si spegne, silenzio verace,

che come una stella, nel cielo si face,

vorrei riveder, di voi, gl’anni vostri,

perché fai favella e tosto non mostri?

Max: Inver la paura, mi sbianca al ricordo,

di molti io taccio, di altri son sordo,

per via della noia che in voi cenerebbe,

robusta e maligna che  male farebbe,

così cedo il passo,  agl’anni avanzati,

per ciò che racconto, saran ravvivati,

da dolci sembianze, che mai io toccai,

sapendo…, vivendo…, sognando oramai,

figura sì lieta, che veste il mattino,

ragiona nel giorno lasciando il cammino,

al duro lavoro, spietato e incosciente,

salvando lo sguardo, il corpo e la mente,

prorompe al meriggio e veste la sera,

mi nutre e m’ascolta com’anima vera,

la cena m’accosta, si dondola accanto,

finchè non dirompe, il lungo mio pianto…,

allor s’avvicina, mi soffia sul volto,

asciuga quei solchi e poi rende colto,

il vivo sapere che miete i pensieri,

più dolci, più acuti, ma sempre più veri…,

d’aver tra le braccia, non solo coperte,

ma mani di carne, che rendono aperte…,

le vie della pace, riverse sui seni,

a cui io m’accosto volgendo le reni.

Eppur dolce donna, ancor fa mestiere,

mi sfila le scarpe, le brache e le schiere…,

di vili bottoni, portati ad orchestra,

orchè viene notte da buia finestra.

Silvia: Chi fu questa donna, che voi tanto amate?

E’ forse essa sogno, o spettro citate?

Max: No, essa è sovrana, su gl’altri una spanna,

di gioia essa vive e’l ventre mi scanna…

Silvia: Non oltre, vi prego, tra noi nuova vista,

ragazzo robusto, che l’aria rovista.

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