PENSARE IL SISMA: UNA LETTURA PSICOANALITICA
Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una linea guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile.
Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa.
Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della mente che accoglie i sogni.
Redazione-Il sisma, nell’inconscio, viene sempre dal cielo, un cielo che è abisso, un cielo che cade. E’ la notte che fu, prima della vita.E la città nasce sempre dai campi, come forma di pensiero della terra, o come un suo sogno. Si nutre di acque sotterranee e d’arte.
E’ dunque il nostro caro oggetto estetico, che sorge attorno ad un centro psichico condiviso, e ci riflette intimamente.E’ il nostro puro oggetto estetico, che chiede di essere pensato per vivere, ed è fonte del nostro sentire più profondo (estetico, infatti, proviene etimologicamente dal greco aisthesis, sentimento ed aisthetikòs, sensibile, capace di sentire).
La città non dimentica la terra: in alcuni dei suoi angoli le vie parlano ancora il linguaggio dei campi.E la nostra è una città che “si ascolta come un verso”, ci sussurra L. Borges.Mille città invisibili, inoltre, nei sogni di I. Calvino, vivono in un unico villaggio. Si svelano, a volte, solo a chi sa riannodare i ricordi inconsci.La città dunque è, nello spazio, un antico oggetto d’amore ritrovato e creato nelle forme d’arte.
E pure nei nostri sogni più profondi ogni città proviene dal cielo, ha un suo doppio celeste da cui nasce. Si genera quindi da una leggenda del cielo, il suo volto e le sue forme riflettono il volere dei venti e del sole.Nella rêverie (o pensiero sognante) di chi vi dimora il suo destino è nel cielo. Per il soggetto che sogna essa è sempre in contatto con il cielo, le sue forme sono rispecchiamento di un’architettura di stelle.Ogni città onirica, inoltre, narrano i sognatori di simboli, ha al suo interno una forma quadrangolare, simbolo di stabilità, in opposizione alle forme rotonde, circolari, proprie delle tende di chi è nomade.
La stabilità dunque è la sostanza di ogni sogno di città…La stabilità che culla e permette il sonno e il sostare, dove si fonda il pensiero e l’andare, già nell’etimologia rimanda ai temi dell’essere eretto, quindi saldo, stabile, in piedi ( dalla radice sscr. stha col senso originario di essere o render fermo, saldo) e ai temi dalla risonanza affettiva dell’appoggio e del sostegno che fortifica e rende saldi (dal lit. sthâ- va- ràs).
Il senso di esistere, inoltre, di essere in vita, viene dal legame interno che inconsciamente tracciamo tra le rappresentazioni della realtà e le emozioni che essa ci suscita, ciò ci permette di essere sensibili al mondo. Noi, infatti, pensiamo raffigurandoci le cose del mondo e legandole ad un nostro affetto: esse così significano per noi. E’ dall’intreccio poi di questi legami interni che nel corso della vita si sviluppa un sentimento profondo di continuità di esistere nel paesaggio e di coerenza del Sé nel tempo.
Tale continuità trova forma in un dialogo che fluisce con l’ambiente esterno, che ci accoglie in un abbraccio immaginale e comprende il nostro discorso vivente. La vita psichica, dunque, si fonda sul ritmo con cui svolgiamo la nostra continuità con l’ambiente, con il paesaggio in cui i nostri viaggi solitari ogni giorno hanno inizio. Profondamente lacerante, dunque, in un evento tale, è il rivelarsi della fine della città come fine dell’abbraccio strutturale che rende saldi, ovvero dell’inconsistenza della sua promessa di stabilità.
Noi scoprimmo così la nostra impermanenza e ci percepimmo come non-più-in-vita. Il trauma del sisma è il rivelamento (o il non poter più negare) dell’impermanenza di sé e di ciò che sognavamo come eterno e saldo. E’ la caduta, cioè, della promessa inconscia di immortalità in cui ha avuto radici la nostra infanzia.
E’ dunque l’impermanenza che apre la via al soggetto ad essere “cosa”. Cessa il sentimento di essere vivi perché il legame tra emozioni e pensiero, tra mondo e sentire cadde. La nostra mente, difensivamente, rinunciò al sentire e divenne “cosa” tra le “cose”, avvolta da un’indifferenza esistenziale, rispecchiamento dell’indifferenza della natura, di fronte al dolore che questa creò.
Restò, in noi, unica, una percezione antica di natura crudele e indifferente, che fiorisce mentre si muore. Madre di pietra e non di carne.
Percepire la natura non-viva è il crollo dell’illusione animistica di essere amati dal mondo, che ci abbandonò ad una desertificazione del naturale, 21come silenzio inumano.
Ma la violenza del sisma è altresì svelamento che la culla, l’abbraccio ( che la casa significa), non era che mattoni assemblati.
L’impulso di morte, non più lenito da eros, diviene cielo che acceca e caduta infinita, notte non più abitata, notte che non dialoga, silenzio che ci colloca in un infinito “prima” di ogni evento.
Le zone della città, prima del sisma, erano luoghi esterni che rimandavano in noi a zone e possibilità di elaborazione psichica. Il crollo del paesaggio si configura quindi come impensabile, perché fa cadere, in noi, ogni elaborabilità. In tal senso la perdita, in ogni terremoto, è perdita senza oggetto, riconduce ad un tempo prima del tempo, che precede l’oggetto ed il pensiero. Perdita pura. Perdita del limite, del confine e quindi dello spazio. Ciò si riflette nella fissità dei movimenti, che avevamo quella notte e in quei giorni, senza più spazio per andare. Ciò nasce anche dalla perdita definitiva dell’illusione che fa vivere, del genitore onnipotente che salva, sempre e ovunque.
Rimangono ombre che vagano,(così divenimmo), oggetti extra-vaganti (come ricorda S. Resnik in altri ambiti): perduta la viabilità è perduta la meta ed il tempo.
Rimase un lento muoversi circolare, espressione di un’immobilità interna, lento movimento che non lascia impronte, solo esterno, che parlava di un’improvvisa assenza emotiva (e-mòtus) interna, espressione del non-essere del-tutto-esistenti, sotto un sole anch’esso immobile sulla città. Un’andatura quasi ferma avevamo, intorno a un centro perduto ed illusoriamente ricreato da ciò che restava del movimento, movimento senza significato perché non più teso ad unirci ad una meta, ma che si costituiva, quella notte, come ultima forma del rimanere in vita, frange di una vita che tutti ci comprendeva.
Il sisma infrange il tempo e, poiché è la morte, non è contenibile in un pensiero vivente. Non pensabile, resta un evento, che non si fa esperienza. Inter-rompe il sogno che tiene in vita e la capacità di pensare le percezioni sensoriali ed emozionali e trasformarle in esperienza. Ciò fa sì che il terremoto, in quanto insignificabile (come evento a cui non poter dare senso), non possa essere “pensato” se non scindendo il fatto concreto, legato a leggi fisiche, dall’angoscia del cadere in pezzi. Pertanto, l’esperienza del sisma non trova una vera elaborabilità: una parte di essa rimarrà scissa, nella psiche, come luogo di accoglimento di altri antichi “terremoti” affettivi patiti o non vivibili nel soggetto.
Non essendo pensabile, né internalizzabile, se non come zona vuota, di assenza di simbolizzazione, si configura come buio psichico, cecità psichica, luogo di “slegamento”, dove la rappresentazione, sciogliendosi dall’affetto, può perdere il senso e tradursi in mera percezione. In quanto area “vuota”, zona di “slegamento”, nell’elaborazione dei “terremoti” emotivi rimossi e lì riuniti, si configura cionondimeno come apertura psichica all’ignoto, disponibilità ad una nuova nascita.
Non internalizzabile, dunque, il sisma è sempre un evento e mai un’esperienza, e come evento è sempre un evento esterno al soggetto. In quanto tale interrompe spazio e tempo, non può essere oggetto di rimozione, non lo possiamo coprire di oblio, è sempre presente e sempre in arrivo.
Rimane un “al di là” che proviene dal remoto, sede del destino. Proviene dal remoto e ad esso riconduce.
Può essere scisso, ma non rimosso. (Lo possiamo allontanare, ma non dimenticare).
Se la città è la madre, il suo crollo è la morte di lei. Nella sua scomparsa, e al suo posto, danza notturna la morte ad attendere il soggetto-bambino.
Fasi primitive della mente sono attivate in difesa della psiche, nell’ultimo crollo, in attesa di un tempo di elaborazione, dove toccare il dolore è il primo sole della rinascita.
Per una comprensione più profonda di ciò che avvenne, possiamo pensare che se l’Io di ognuno nasce dalle identificazioni inconsce con i suoi primi oggetti, cioè con le prime cose del mondo che giunge a conoscere il legame con le forme ed il senso di ciò che esiste al di fuori di sé forma il suo mondo interno e quando le cose del mondo si cancellano, l’Io sente di cancellarsi insieme ad esse. Viene meno quella continuità con il paesaggio che faceva sì che il soggetto divenisse ogni giorno se stesso.
L’insieme delle angosce primitive rinasce intatto dal crollo del mondo esterno che le tratteneva e del legame con esso che le elaborava.
Quando gli scenari del mondo si infrangono, il pensiero non ha più il suo oggetto.
Viene meno l’esperienza di essere pensati dal mondo. Non resta che uno sguardo che ci attraversa senza più raffigurarci.
Si è smarrita nel crollo la preghiera di chi desiderò che noi fossimo vivi.
Ma la cura dei sogni dei luoghi amati fa nascere nel nostro Io una città interna in cui riposare, che diviene via via l’orma per un paesaggio che ritrova il suo antico volto.
Un’esperienza impossibile da pensare-sognare, come il sisma, diviene, infatti, perdita antica di senso. Lo si può ritrovare solo tornando a sognare.
E’ così che una città perduta diviene città sognante, in attesa che un senso più profondo ci torni a trovare.
E’ una mente bambina, in noi, che si assopisce nel dolore che, se non abbandonato, può riposare ed attendere il cielo.
Se il sisma slegò i gesti con cui ci cerchiamo, con cui ci scambiamo il nostro modo di essere vivi, dal loro motivo profondo, dal sentimento che in noi li genera, il sisma stesso sciolse il senso di ciò che appare, ciò che si mostra al nostro sguardo, dalla vera essenza delle cose. Forma e sostanza furono scisse. E’ così, dunque, che esso slegò il significante dal significato, la notte dal sogno.
Con il sisma un’intera città divenne un ricordo. E l’intero spazio bianco che si aprì al suo posto sembra il paesaggio originario che precedette l’inizio della vita.
Esso ricondusse il nostro sentire all’esperienza inconscia di essere pur vivi senza l’esistere.
Solo l’ambiente vivo, infatti, nutre i pensieri e il linguaggio intimo del soggetto. Quando esso svanisce, il pensiero stesso sembra lasciare la mente da cui nacque, sembra seguire l’improvvisa notte del vivere senza inconscio, ovvero in un luogo che cessa di esistere.Perchè possiamo dire questo? Che vivemmo da allora senza l’inconscio? Perchè il paesaggio è il nostro inconscio, è lo spazio dove i sogni prendono forma, dove nascono le nostre fantasie più profonde. E’ fra i suoni del villaggio umano, infatti, immerso nelle cose del mondo, che nasce il nostro sentire, dove l’Io si nutre.
Quando la realtà esterna si cancella, dunque, si cancella anche il Sé.
Una linea sottile nella psiche, tuttavia, separa l’Io dal perdere il sentimento di essere vivo e lo fa rispondere ad un sogno di nascere ancora.
L’antica promessa inconscia fatta a se stessi di vivere eternamente, infatti, torna ad essere l’unico segno che ha permesso al nostro Io di tornare a pensare, e protegge il desiderio di essere vivi.
Nel tempo sono le fantasie inconsce, ritrovate nel desiderio di vita, che permettono di pensare parte dell’esperienza del crollo, per essere, così, psichicamente salvi.
Quando crollò il paesaggio, infatti, venne meno in noi ciò che lo rispecchiava: il luogo psichico, inconscio, in cui riporre i buoni oggetti interni, in cui pensarli, si distrusse così ogni legame, ogni accordo vivente, ignorando la preghiera di chi ci amò.
Il sisma ricorda che la follia giunge sempre dall’esterno, come disimpasto pulsionale e trionfo di ogni istinto di morte. E’ chiusura ad ogni fantasma di senso, riproduzione di una fine preannunciata internamente nei meriggi di altri tempi.
Come trovare chi ruppe il ritmo regolare dei giorni che univa l’alba alle stelle e respirava con noi?
Quello che è sempre stato in noi paesaggio di desiderio si cancellò nei luoghi del solo bisogno, dove pulsioni indistinte negano al simbolo la sua antica esistenza. Nella fragilità di pareti disgiunte, infatti, l’Io, dimora dei simboli, si rispecchia e può cadere, al giungere del sisma. Poiché il sisma slegò l’abbraccio interno con il paesaggio fino a non sentirci più parte di esso, la perdita di senso che ne derivò fu perdita senza fine. Chi riunirà di nuovo le nostre rappresentazioni disperse?
Perdita di senso che si avvolse alla nostra stessa vita fino, a volte, a non essere più da noi internamente amata. Oggetto di un processo di designificazione, la vita stessa perse il suo senso più profondo.
Chi, dunque, riunirà le nostre rappresentazioni disperse?
Il sisma ci ricondusse d’un tratto dove ha origine il mondo, senza più cieli che proteggano il senso.
E se ogni casa, con G. Bachelard, è un sogno di capanna, dove si perse la nostra più antica madre che ci avvolgeva in ogni angolo di vita?
E se anche il grano da allora, da quell’aprile, fiorisce sotto il cielo di un altro secolo, con i fiumi di G. Bachelard, come ritrovare il nostro Sé smarrito?
Quando il sisma interruppe il nostro senso di esistere, un pensiero bianco come neve fu il nostro rifugio. Inconsciamente rinunciammo così al sentire.
Fu quando la nostra terra rinunciò al suo esistere, infatti, che svanimmo con lei, e ci fu chi tornò a vivere nei luoghi inconsci in cui nascono i sogni.
E se è vero, come ricorda sempre G. Bachelard, che gli uccelli dei sogni non muoiono, fu così che il nostro vivere sensibile ebbe riparo.
E’ anche vero che un pensiero che non tollera il crollo è troppo duro per non cadere.
Il trauma esterno del sisma, infatti, risveglia e rivela in noi antiche ferite interiori. In ognuno di noi, per così dire, vive un sentimento di infanzia senza fine, di infanzia immobile, dove dorme, a volte, un trauma affettivo muto, conosciuto come sentimento dolente, ma non ancora pensato, come un “sogno non sognato”, diremmo con T. H. Ogden.
Ne resta, a ricordo, solo una sua rappresentazione immobile dove tace l’emozione. Ne ricordiamo il fatto, ma non l’emozione o il dolore che esso ci diede. Trauma affettivo taciuto a se stessi. Realtà troppo dura per essere pensata da una sola mente, quando l’Altro e i suoi doni si fecero assenza.
Se non può essere pensato, è un dolore che giace nel corpo, forse, dove trova rifugio, negli organi assopiti cui non dà più tregua. Diviene dunque dolore d’organo,ritorno al somatico. Ogni somatizzazione, infatti, è memoria carnale di un dolore psichico un giorno vissuto, ma non ancora narrato.
Ciò che nel passato fu trauma bianco, cioè impensabile perché inumano per una mente sensibile, unendosi e confondendosi al sisma, diviene oggi sentimento di allarme, che segue l’ombra dell’Io e non dà pace.
“Paura di un crollo”psichico che fu (con D.D. Winnicott) e che, non riconosciuto allora, diviene nelle immagini inconsce, ora, imminente aprirsi della terra. Attesa di una fine il cui sapore è già conosciuto.
Il sisma è ferita carnale, e riproduce così quel trauma affettivo e personale, lo assorbe e lo proietta nell’universo, lo rende ora, davvero irrappresentabile al soggetto, perché separato dalle sue origini e travolto da un mare sconvolto.
Il dolore diviene cosa. Il doppio sisma, quello personale e quello esterno, è notte che non si può sublimare e cioè elaborare, far passare dalla realtà sensibile a quella rappresentabile, senza un’Altro che lo pensi e lo senta con noi.
Quando dei due, l’antico trauma affettivo diverrà narrabile, attraverso l’esperienza che cura, anche il sentimento del sisma si scioglierà in pianto.Troverà un luogo psichico dove generare immagini e nutrire il giorno.
Con il tempo nuove trame mentali più leggere nasceranno in una comunità che sogna. Dalla polvere che un giorno fu strada un nuovo pensiero raggiungerà civiltà perdute dove hanno origine i pensieri. Nella capacità di raccogliere utopie per farne un tessuto mentale si giunge a dar luogo all’esperienza di essere nuovamente vivi. Ed è così che torneremo a darci del tu.
Quale il significato inconscio della città, ovvero del paesaggio da noi perduto?
I luoghi amati hanno l’essenza dei veri oggetti trasformativi, di cui parla, altrove,C. Bollas, poiché riuniscono le frammentazioni del Sé che li percorre.
Il paesaggio è, dunque, promessa di trasformazione del Sé, ma anche ricordo inconscio dei primi rapporti con la terra in cui il soggetto e il mondo, come il Sé e il primo oggetto d’amore, “sentono di accrescersi e darsi forma a vicenda”, con C. Bollas.
I luoghi amati rendono, infatti, immortale la mente che li pensa.
Favoriscono un processo d’integrazione interna tra emozioni e rappresentazioni, ridando vita a quella parte di sé, di noi, che vive nel viaggio.
Il paesaggio, per il viaggiatore che lo abita, è come disegnato dal destino.
Ogni aspetto della città è, inoltre, eco del nostro mondo interiore che trova in essa respiro per vivere. La sua memoria, dunque, è ricordo di un nostro vivere antico, quando la mente non rappresentava ancora il mondo, ma lo conosceva profondamente nei sensi, è atmosfera interna di essere-con-la-madre, fra cortili e corolle…
Ogni sguardo sul villaggio umano è uno sguardo su sé, è una forma di déjà vu, dove le immagini non muoiono, ma si legano in nuovi giochi con gli oggetti della vita, dove si raccoglie il disegno antico scritto nell’ontogenesi. La realtà psichica di ogni singola città è nei suoni, nella luce che in lei abita e nei gusci che raccolgono il suo Sé.
L’estetica del villaggio umano è, dunque, un sogno architettonico di chi visse per donarci luoghi da amare e dove il nostro Sé può riconoscersi e sostare.
E’ trasmissione grafica di un senso, di un modo di essere vivi in altri secoli, che dialoga con il nostro essere più profondo.
Vivere con il paesaggio è un’esperienza onirica, poiché esso è il teatro in cui il Sé incontra inconsciamente l’antica madre, dona alle strutture dell’Io un senso profondo, lo riannoda all’esistere ancestrale.
Ma è l’essere profondamente con il paesaggio, è l’incontro con l’Altro, che offre continuità all’esistere, così come seguire con lo sguardo, in rêveries solitarie, i passaggi di luce sulle mura.
Sognare il paesaggio arricchisce di senso i giorni e ci protegge dall’ignoto e dalle forze che dissolvono il legame tra i pensieri inconsci. Noi sappiamo bene che la costanza di ogni legame con il mondo dà continuità al nostro sentire. Essendo se stesso, dunque, il paesaggio ci riunisce intimamente.
L’apertura al discorso inconscio dei luoghi più cari rivela nel nostro mondo interno nicchie di esistenza impensate, e trasforma ogni strada in itinerari di senso. Ed ogni strada è l’inscrizione inconscia del tempo nello spazio, perché disegna un percorso, ci congiunge ad una meta.
Tracciare una strada, infatti, è davvero inserire il tempo nello spazio, tracciare un ponte percorribile su una distanza tra due punti prima indistinti, include una meta e dunque il desiderio di congiungerci ad essa. La strada nasce dal sentimento del tempo, si genera da un desiderio, ed è dunque l’incisione, nella terra, di una nostra profonda emozione.
E’ la strada, infatti, che ci rende possibile pensare il cielo.
Ed è per questo che possiamo dire con C. Castaneda che “le strade hanno un cuore.”
Nelle piazze, colme di cielo, anche la luce ci è cara.
Ogni fontana, poi, è rêverie di acque nascenti, ogni incontro con l’Altro un primo, antico incontro.
E i parchi, i giardini di città, sono i luoghi che nascono dalla nostalgia degli dei e attendono il loro ritorno, nei sogni di Duccio Demetrio.
La città ha, nell’inconscio, l’essenza di un vero oggetto evocativo, ricordo di “una ricorrente esperienza di essere”, pensando con C. Bollas, nella quiete psichica di essere con l’Altro.
Il paesaggio, inoltre, suggerisce il pensiero, favorisce con i suoi disegni una tessitura di legami nella mente che integra sensazioni ed emozioni in un ramage che trattiene il senso del vivere.
Evoca nel mondo interiore l’incontro con parti impensate, aree di sogno si intrecciano in mappe di sentieri che, divenuti pensabili, possono incontrare il mondo.
La città antica è il luogo dei sogni della sosta e del riparo. Una città che riposa, infatti, addolcisce il dolore.
La sua estetica notturna, altresì, sollecita in noi il desiderio di viaggi più profondi, di incontri inconsci con aree inesplorate e sotterranee, celate al giorno. Una città sotterranea, ogni notte, ci guida al centro della terra.
Ci sono parole, infatti, che prendono vita solo nella notte e tornano ad attenderci in quegli antichi luoghi.
Gli stati d’animo che dimorano nel nostro Sé notturno si arricchiscono in una città che da sempre nasce nelle stelle.
Ed è solo per chi è intimo della notte, come R. Frost, che si rinviene, con stupore, l’oggetto amato la cui ombra vive sempre nell’archetipo della notte.
Possiamo infine aggiungere che il villaggio umano è una pausa nel mondo naturale, luogo quindi di incontro tra conscio e inconscio, è il simbolo di un legame profondo con la terra, dell’umano con il naturale.
Il sisma, dunque, è follia cosmica di un inconscio che ha perduto l’Io che lo conteneva.
E se la natura è madre, è anche inconscio, generoso mondo di pulsioni che l’Io coltiva e discerne articolandole e trasformandole in viali di pensiero. L’uomo è quindi, in questo dialogo immaginale con la natura, rappresentante dell’Io cosciente che raccoglie, dà forma e senso agli oggetti inconsci naturali, trasformandoli in architettura di sogno.
E’ in questo senso che il paesaggio urbano è l’incontro ed il legame profondo fra Conscio e Inconscio, tra l’Io e la Madre Archetipo che rende salda la vita rendendo sensibile la materia ( lat. Mater- madre).
Ritroviamo nelle linee costruttive di ogni città vivente il primo paesaggio che scorgemmo alle origini sul volto della madre e che ci donò la terra.
Ed è per tutto questo che in noi sappiamo bene che una città che rinasce è una madre che torna.
Dott.ssa Maria Rita Ferri
Psicoterapeuta Psicoanalitico
Formazione Psicoanalica Post Lauream
Spec. Psicoterapia Familiare