” NOTE DI TRADUTTOLOGIA ” – DOTT. MARCO CALZOLI
Redazione- Toury si colloca nella branca degli studi descrittivi e il metodo che propone è: prima di tutto bisogna capire in quale posizione il testo di partenza si colloca nella cultura di arrivo. Questa considerazione deriva dalla teoria polisistemica.
La teoria polisistemica guarda alla letteratura come un insieme di sistemi. I vari sistemi, in realtà, sono le varie tipologie testuali (dalla letteratura epica al romanzo, alla letteratura per l’infanzia e così via). All’interno di questo polisistema, secondo Toury e Even-Zohar, la letteratura tradotta ha un suo ruolo in quanto è anch’essa un corpus di testi ben preciso. Il suo ruolo può essere di innovazione, che significa portare dei modelli esterni all’interno letteratura di arrivo, oppure il suo ruolo può essere di conservazione dei modelli esistenti all’interno della letteratura di arrivo, un po’ come se la traduzione si adeguasse a dei canoni dominanti all’interno della letteratura di arrivo.
Quando Toury si riferisce all’aspetto di posizionare il testo all’interno della cultura d’arrivo significa che bisogna capire se il testo tradotto porta innovazione o è attinente alla conservazione; quindi, se ha un ruolo primario nella letteratura tradotta o un ruolo secondario (quello di conservazione).
La branca dei translation studies, nei quali è inserito Toury, si interessa anche allo studio del mondo dell’editoria. In effetti, il traduttore non sempre ha il potere di decidere quali autori portare all’interno di una cultura ma sono gli editori, oppure, in casi estremi è il potere politico (come nei totalitarismi) a decidere cosa fare entrare e cosa non fare entrare. Ad esempio, durante il fascismo la letteratura anglosassone non era vista di buon occhio, quindi spesso era oggetto di una forte manipolazione. Ciò che Toury vede, lo analizza dal punto teorico ponendosi delle domande: La traduzione può portare dei modelli nuovi, di per sé, oppure no? È più conservatrice e non si adegua al testo di arrivo?
In secondo luogo i teorici della traduzione paragonano il testo di partenza al testo di arrivo per capire se ci sono delle differenze, degli spostamenti e, soprattutto, analizzano la traduzione rispetto al testo di partenza a coppie associate di segmenti TP e TA, per arrivare a delle generalizzazioni su come ha operato il traduttore. Tutto ciò per analizzare le traduzioni e dare vita anche a un profilo di esse, in modo tale da stabilire le preferenze dei traduttori rispetto a un determinato genere testuale. Partendo dalle traduzioni, in effetti, si riesce a capire quali sono le tendenze, le scelte che determinati traduttori fanno rispetto ad un determinato periodo, autore o genere letterario. Passiamo dalla mera traduzione a un discorso più ampio, quello della letteratura. È un approccio fortemente target-oriented, orientato alla letteratura, al contesto di arrivo.
Come diceva anche Levy, il traduttore dà vita ad un processo di comunicazione: egli comunica il contenuto di un testo di partenza in funzione di un destinatario che non conosce quella lingua. Si traduce principalmente nell’interesse della cultura della lingua in cui si sta traducendo, e non in ragione del testo di partenza.
Un concetto che Toury elabora è quello della norma di traduzione. Cerchiamo di chiarire. La regola ha principalmente una funzione prescrittiva, la norma può assumere questa funzione prescrittiva ma in realtà discende da una constatazione che viene fatta rispetto a quelle che sono le regole di condotta applicate da un traduttore, regole che vengono adottate più frequentemente rispetto a un compito di traduzione. Successivamente, ci sono le convenzioni che rappresentano il modo di pensare e comportarsi di una società, di una comunità e generalmente osservata dai singoli, quindi è una consuetudine. Secondo Toury la traduzione è governata da norme che determinano l’equivalenza manifestata nelle traduzioni vere e proprie. In effetti, queste norme per Toury sono delle limitazioni imposte al traduttore in un determinato periodo, le quali possono essere delle convenzioni riconducibili ad aspetti culturali/sociali e sono norme acquisite dagli individui tramite l’istruzione, la socializzazione e così via.
In effetti il concetto di norma è ambiguo, in quanto da un lato sembra derivare da uno studio sulle regolarità di comportamento rispetto alle versioni che i traduttori adottano e rispetto ad un determinato contesto; mentre dall’altro sembra assumere un ruolo prescrittivo. È in questo dualismo che risiede l’ambiguità. Essendo il suo un approccio descrittivo, queste norme possono essere desunte dalle traduzioni stesse; quindi, attraverso l’analisi di quelle che sono le scelte adoperate dai traduttori, oppure dalle esplicite dichiarazioni dei traduttori, case editrici e così via.
Molto spesso nelle prefazioni e nelle postfazioni i traduttori dichiarano quali sono i principi che hanno guidato le loro traduzioni, ma spesso questi principi non sono stabiliti solo dai traduttori ma anche dall’editore e da tutti coloro i quali hanno preso parte ad una traduzione.
Toury individua quelle che sono le due norme iniziali: adeguatezza e accettabilità. L’adeguatezza si realizza quando si ha l’equivalenza funzionale tra testo di partenza e testo di arrivo; quindi, quando la traduzione è maggiormente orientata verso il testo di partenza. L’accettabilità, invece, si realizza quando la traduzione è maggiormente orientata alle norme dominanti nel sistema di arrivo, quindi è più target-oriented. Quindi, potremmo dire che l’adeguatezza è più source-oriented, mentre l’accettabilità è più target-oriented.
Una traduzione adeguata è quella che si sottomette alle norme del sistema di partenza, mentre quella accettabile è quella che si sottomette alle norme della cultura di arrivo. La prima cosa che fa il traduttore è quella di orientarsi o più verso una traduzione adeguata o verso una traduzione accettabile.
Oltre alle norme iniziali, ci sono quelle che Toury definisce preliminari. Le norme preliminari sono quelle che lui denomina: politica traduttiva e immediatezza della traduzione. Politica traduttiva: i fattori che determinano la scelta del testo da tradurre in una lingua, cultura o periodo specifici. L’immediatezza della traduzione si ha quando, ad esempio, vogliamo tradurre un testo finlandese in italiano, però per tradurlo passiamo dapprima per la sua traduzione inglese.
Poi c’è un altro gruppo di norme, che sono quelle operative che egli classifica in norme di matrice e norme linguistico-testuali. La norma di matrice riguarda la completezza o meno del testo di arrivo rispetto al testo di partenza, ad esempio se sono state aggiunte o rimosse delle parti, oppure se ci sono stati degli spostamenti. Le norme linguistico-testuali, infine, riguardano tutto ciò che ha a che fare con la selezione degli aspetti linguistici (elementi lessicali, espressioni e caratteristiche stilistiche).
Leggi della traduzione (leggi probabilistiche e universali della traduzione) sono:
- Legge della maggior standardizzazione: in traduzione le relazioni testuali che sono in vigore nell’originale sono spesso modificate talvolta fino al punto di essere completamente ignorate a favore di opzioni più abituali offerte dal repertorio di arrivo. In cio si manifesta la perdita di variazione stilistica del TA rispetto al TP. Traduzione con posizione debole e periferica nel sistema della cultura di arrivo
- Legge dell’interferenza: Interferenza dal TP al TA. Le caratteristiche linguistiche del TP vengono copiate nel TA “negativamente”(schemi anomali) o “positivamente” (schemi non anomali nella LA che vengono utilizzati con un’alta probabilità da parte del traduttore).
- Tolleranza all’interferenza: Tolleranza alta se si traduce da una lingua-cultura prestigiosa in una lingua di arrivo con minor prestigio.
Se traduciamo dal coreano all’italiano i problemi della traduzione si accrescono maggiormente rispetto alla traduzione dall’inglese all’italiano. Questo perché il coreano è una lingua molto distante rispetto all’italiano, invece l’inglese condivide con l’italiano l’appartenenza alla famiglia indoeuropea. I problemi si accrescono vertiginosamente se cerchiamo di tradurre dal coreano antico.
Oggi gli orientalisti dedicano maggiore spazio alla cultura coreana. Il mondo sta scoprendo le bellezze di questa terra così lontana, anche quelle linguistiche e letterarie.
Secondo una teoria molto accettata il coreano appartiene, assieme al mancese, al mongolo, alle lingue turche e al giapponese, alla famiglia delle lingue altaiche. Ha in comune con queste lingue tali caratteristiche:
- È una lingua agglutinante (a delle radici invariabili si aggiungono dei suffissi o delle posposizioni enclitiche per formare le categorie morfologiche);
- Nell’ordine della frase il verbo si trova per ultimo ed è preceduto dai complementi diretti e indiretti, mentre i modificanti (aggettivi, avverbi, forme relative) anticipano i termini ai quali si riferiscono;
- Non prevede distinzioni di numero e genere né gli articoli, mentre abbonda di espressioni onomatopeiche.
Il coreano moderno ha anche queste caratteristiche:
• Ha un alfabeto (detto hangul)
• Ordine delle parole nella frase: SOV (Soggetto-Oggetto-Verbo)
• Caratteristica principale: particelle e desinenze verbali
• Sillaba in tre posizioni (iniziale, mediana, finale)
- Non ha i toni.
Le antiche fonti cinesi riportavano una spiccata propensione per la danza, il canto e la musica del popolo coreano. Si può intuire che le prime composizioni venivano per lo più eseguite con accompagnamento musicale ed erano legate a eventi precisi. Abbiamo tre canzoni antiche della Corea, le prime opere letterarie a noi giunte di questa nazione.
KONG MU TOHA-GA. Componimento collocato sul filo del passaggio dal mito alla storia, dalla suggestione al realismo, è una testimonianza della primissima letteratura coreana. Nel regno di Ko Choson viveva un barcaiolo, di nome Kwangni Chago; all’alba di un giorno in cui stava riparando la sua barca, vide un uomo dai capelli canuti, abbastanza anziano, evidentemente ebro e barcollante, che con una bottiglia di liquore in mano tentava di attraversare il fiume. In quest’incosciente follia, da lontano, la moglie, pregava di non attraversare quelle acque. L’uomo, tuttavia, finì per annegare, e lei, disperata, intonò uno straziante, continuo lamento: “Signore, non attraversare il fiume”. Finché, senza più marito e ragioni di vivere, si buttò anche lei. Il barcaiolo, tornato a casa, sconcertato e rattristato dalla visione, racconta tutto alla moglie Yo Ok, e questa, imbracciata una cetra, la konghu, intona una canzone sulla vicenda:
Signore, non attraversare il fiume.
No mio Signore, non attraversarlo.
Ma tu attraversasti e peristi nell’acqua
e adesso Signore cosa sarà di me?
Se ci fermiamo all’evidenza del contenuto, il primo autore della canzone è la moglie dell’uomo insano però, colei che consegna ai posteri, colei che tramanda l’evento, è la moglie del barcaiolo: possiamo dire che la canzone ha un autore (=la moglie dell’anziano) ed un esecutore (=la moglie del barcaiolo). Perché un uomo dovrebbe ubriacarsi e cercare la morte nell’acqua? Il motivo è particolare ed è legato al periodo storico (ed è per questo che abbiamo definito tale canzone tra lo storico e il favolistico): per quello che riguarda l’uomo insano, c’è chi l’ha identificato come una divinità del vino, ma più accreditata è la teoria che rappresentasse uno sciamano, il quale, attraverso il rito di sfidare le impervie acque, sconfiggerebbe la morte e si vestirebbe di nuovi poteri, come una rinascita (=il fiume risulterebbe simbolicamente, in questo senso, il filo sottile fra vita e morte). Tuttavia fallisce nell’impresa.
Se si vuole dare una spiegazione storico-sociale a questo fallimento, è probabilmente che lo sciamano era una figura che iniziava a perdere di importanza: questo declino è definitivo nel periodo Koguryo, ma come ci suggerisce la canzone, forse già negli ultimi anni di Ko Choson è in atto questa mutazione; come abbiamo detto, è un periodo di transizione: accade che la formazione di un più sofisticato apparato statale porta alla crescita di nuove città a discapito dei precedenti villaggi di campagna, e ciò comporta l’aumento del gap fra i due, l’allontanamento e il distacco dall’ambiente rurale e la natura, e di conseguenza da tutte quelle leggende e quei rituali tipicamente legati ad esso. E’ proprio in questa cornice che si comincia a distinguere la collettività dall’individualità: il singolo, nella città, non avendo più la natura da cui trarre conforto, capisce che al fine di risolvere i propri problemi, non può contare sulle divinità, ma solo su sé stesso.
Un’altra antica canzone è HWANGJO-GA. Narra degli avvenimenti successivi alla morte della regina Song, nel terzo anno del regno di Yuri (17 dc). Re Yuri, secondo sovrano di Koguryo, decide di riposarsi, dopo la morte della regina, con due donne: una coreana (Hwaui) e una cinese (Ch’ihui). Queste erano particolarmente gelose l’una dell’altra, al punto di portare il re a separarle mettendole in alloggi differenti. Tuttavia, quando questi lascia la residenza per una battuta di caccia, scoppia fra le due un’accesissima lite che porta Ch’ihui, ormai satura, a prendere la decisione di allontanarsi da palazzo. Ritornato ed appreso il fatto, re Yuri cerca di far tornare la donna; fallendo miseramente, e sconsolato, si siede a riposare all’ombra di un albero contemplando dei rigogoli in volo ed intonando questa canzone:
Rigogoli che a coppie svolazzante festosi,
rincorrendovi a vicenda,
considerate me che sono solo,
insieme a chi farò il mio cammino?
Non si sa chi fosse l’autore della canzone, poiché, anche se nel racconto la canta re Yuri, non è detto l’abbia composta. Sicuramente possiamo dire si tratti di una canzone della sua epoca e d’amore. Con questa canzone, viene presentato un sovrano nuovo, umano, non più dalle capacità divine; egli, anche se figlio dell’eroe Chumong, che si narrava avesse poteri soprannaturali, è un uomo investito dell’autorità regale e nient’altro. Il suo titolo regale, infatti, non può nulla in questa situazione, ed egli non può che avvilirsi e rassegnarsi come ogni uomo comune farebbe. Il conflitto tra le due regine simboleggia quello politico tra due paesi Cina e Corea: il re Yuri, senza legittimazione divina, pare essere sprovvisto di capacità e come non è in grado di gestire la questione amorosa, non riesce neanche a gestire quella politica. La Hwangjo Ga è il passaggio alla lirica individuale, descrittiva. Quest’ultima illustra la solitudine dell’uomo nelle difficoltà: la leggerezza del loro volo degli uccelli è contrapposta alla pesantezza che è nel suo cuore, e il modo di isolarsi, sedersi da solo a pensare ed invidiare quasi gli uccelli che volano in compagnia, ci dimostra quello che abbiamo detto prima sul singolo che ormai ha perso il collettivo.
La terza poesia è KUJI-GA. I nove capi tribù insieme a tutto il popolo danzano e cantano sul Kuji: è un rito collettivo e il tono di minaccia è necessario e tipico delle formule esorcistiche, infatti, se il desiderio del popolo non si fosse avverato, ogni cosa sarebbe andata in rovina.
Non possiamo datare con esattezza questi antichi componimenti né stabilire un ordine cronologico tra di loro. Pare comunque che siano inquadrabili attorno al XVII secolo a.C.
L’uomo compare in Corea tra il 600.000 e il 400.000 (così sono da datare i primi strumenti litici). Quindi abbiamo un grande vuoto fino al Neolitico (ci riferiamo al VI millennio), quando compaiono le cosiddette ceramiche con decorazione a pettine. Questo omogeneo Neolitico coreano si interrompe nel II millennio quando compaiono ceramiche non decorate: si tratta dell’insediamento di una nuova cultura, forse nomadi provenienti dalla Manciuria o dalla Cina nord-orientale.
Invece, per quanto riguarda la prosa, il Samguk Sagi ci parla di una storia ascoltata da Son Tohae, simile a un racconto indiano su una lepre e una tartaruga.
La perdita delle prime opere letterarie coreane è attribuita alla damnatio memoriae voluta da Li Zhi dell’armata Silla-Tang.
Come tutti gli altri paesi del mondo, sia occidentali che orientali, la letteratura nasce dai cosiddetti miti o dalle leggende. Rispetto agli altri paesi, con la Corea non parliamo di miti cosmogonici, sulla creazione dell’universo, ma di miti di fondazione, riguardanti, appunto, la nascita dei regni attraverso i quali si arrivò pian piano alla nascita di una vera e propria nazione. I miti di fondazione si vennero a creare a scopo di legittimare il potere di uno stato, un sovrano, e la sua conquista di un popolo o una nazione, un po’ come per i cinesi fu il Tiàn: così determinate azioni, benché all’atto pratico fossero spargimenti di sangue, venivano legittimate da un potere superiore e tacitamente accettate da un popolo che davanti al divino non poteva nulla.
Poiché per molti secoli questi miti furono unicamente materia di cantori e quindi tramandati oralmente, fu logico che, come spesso capita, le versioni originali di bocca in bocca si andarono a modificare nel tempo, per dare spazio a storie di maggior rilevanza, le più vecchie si andarono a sfoltire di dettagli, vennero sintetizzate o sparirono del tutto. Di alcuni dei racconti pervenuti a noi, capita di
avere più d’una versione.
Nella letteratura di partenza, vi sarebbero in realtà stati racconti mitici anche di altro genere, eppure la più antica mitologia trasmessa per iscritto fu comunque quella della fondazione: se certi miti sopravvissero al tempo rispetto agli altri fu proprio perché, presumibilmente, vi era racchiusa la quintessenza del popolo coreano.
Quando si decise di mettere per iscritto questi miti e leggende, almeno ciò che ne rimaneva, cioè quelli di maggiore importanza, furono redatte due opere, che sono i pilastri della letteratura storiografica coreana:
- Samguk Sagi, Storia dei Tre Regni (Sagi=storia, sam=tre, guk=regni), prima storiografia coreana
- Samguk Yusa, La cronaca dei Tre Regni, miscellanea, raccolta della storia dei tre Regni.
Il teatro. Per performance teatrali si intendono forme di danza mascherata che avevano origine da cerimonie religiose o elementi mediati dalla Cina ma provenienti da Asia centrale o Oriente ellenistico. Animismo e sciamanesimo costituiscono ancora oggi il sostrato cultural-religioso della Corea, e contribuirono a balli e canti che erano strumenti di comunicazione con l’ultraterreno. Il vocabolo che indica la maschera è t’al, che significa anche malattia o disgrazia. La maschera è quindi uno strumento usato in cerimonie a scopo apotropaico e propiziatorio. Del teatro si sa poco anche a causa del confucianesimo del periodo Chosŏn. Che qualche forma di teatro danza fosse presente anche a Koguryŏ ci è data dalle fonti giapponesi, che accomunano tutta l’arte drammatica coreana con il
termine Komagaku. Le pitture murali di alcune tombe mostrano poi dei danzatori. Musica e danza sembrano essere stati comuni anche a Silla. Altresì gli albori del teatro delle marionette sono avvolti nel mistero, marionetta in coreano è kkoktuk kaksi, che etimologicamente è ancora molto discusso (legato a un vocabolo che vuol dire sommità o fantasma). Probabilmente si può collegare l’animazione di bambole alle statuette funerarie poste nelle tombe in sostituzione ai sacrifici umani. Nel periodo Koryŏ le marionette erano sacre e venivano bruciate a fino spettacolo perché sono un vero e proprio transfert di qualità positive e negative dell’uomo e caricate di pesanti tabù.
La hyang-ga. Questo genere poetico rappresenta la massima espressione letteraria, dal punto di vista poetico, del periodo di Silla e, in particolare, di Silla unificato. Il termine significa “canzone indigena” e ce ne sono giunte solo 25. Di esse 11 sono riportate nel Kyunyŏ-jŏn, le altre 14 di autori e epoche varie ci sono giunte dal Samguk Yusa. Nella storia della letteratura coreana abbracceranno generi diversi con diversi nomi. “Tosol-ga” si può interpretare come canzone popolare, i cui temi sono la lode e la riconoscenza, ma potrebbe anche avere origine da danze e canti di festa e ringraziamento per il raccolto. Ciò spiegherebbe perché il Samguk Sagi aggiunga che la tosol-ga per il re Yuri sia l’origine della ka-ak (musica con versi) e deve essere interpretata come codificazione ben precisa di regole metriche e argomenti. La “sanoe ga” potrebbe essere sinonimo di hyang-ga, dato che etimologicamente sanoe non si discosta molto da sanae/sinoe (Oriente), sanoe ga significherebbe dunque canzone della Corea/Silla, sinonimo di hyang-ga.
In breve la tosol-ga è di genere laudativo, e fa parte delle sanoe-ga, sinonimo di hyang-ga. A parte gli 11 inni religiosi, le altre 14 hyang-ga hanno temi e caratteri diversi, alcuni tratti spiccatamente popolari hanno portato a pensare che alcune abbiano origine orale e poi messe per iscritto molto dopo. Cronologicamente vanno dal VII secolo al primissimo periodo Koryŏ. L’unità di base è la quartina che a volte viene ripetuta per formare un’ottava, spesso viene poi aggiunto un distico conclusivo che comincia con l’espressione “au”. Il numero di sillabe della seconda quartina è sempre superiore alla prima (ogni verso da 3 a 10), e il distico oscilla sempre tra le 15 e 20 sillabe. Le interpretazioni sono talvolta diverse a causa degli ideogrammi usati per valore ideografico e fonetico e per le scarse conoscenze della lingua dell’epoca.
Bastano queste poche note relative alla più antica letteratura coreana della quale abbiamo notizia, per renderci conto che tra il coreano antico e l’italiano non vi sono solo parole con significati diversi ma tutta una cultura che per noi è pressoché incomprensibile, quando poi riusciamo a ricostruirla in qualche misura.
Ha quindi senso tradurre nell’italiano di oggi queste antiche testimonianze letterarie? Sarebbe un po’ come tradurre la Divina Commedia di Dante in americano. Cervantes diceva che la traduzione è come il retro di un bell’arazzo, si perde moltissimo nella lingua di arrivo. È il problema della equivalenza in traduzione. Quando il testo di arrivo serba del testo di partenza?
Certamente questi problemi se li pongono anche coloro che cercano di decifrare l’egiziano antico, forse una lingua isolata (non avrebbe paralleli con altre lingue) che risale a millenni prima della nostra cultura.
L’egiziano antico ha queste peculiarità:
- Il fonetismo presenta diversi punti di contatto con il semitico. Per esempio c’è la Aleph. Invece altri esiti del fonetismo egiziano (come il passaggio dalla velare sorda K alla corrispondente dentale T) trovano analogie con il berbero e alcune famiglie di ceppo africano;
- La flessione nominale presenta analogie con il semitico. Così come quella pronominale, pensiamo alla base del pronome assoluto e del pronome relativo egiziani che è NT come i pronomi di seconda persona dell’arabo (anta) e dell’ebraico (atta);
- Il sistema dell’azione costituisce l’aspetto più caratterizzante dell’egiziano antico: questa lingua presenta una morfologia totalmente priva di elementi che definiscano morfologicamente tempi e modi (desinenze e temi), allora la morfologia consiste nella semplice giustapposizione dell’azione con il soggetto, integrata da eventuali elementi connettivi. La mancanza di una flessione, assieme la tendenza a usare la radice dell’azione secondo uno schema simile a quello dell’aggettivo, può comprovare la sua natura nominale.
Nonostante l’egiziano antico non paia imparentato con l’italiano, tra le due lingue ci sono a volte alcuni tratti in comune. In italiano formale diciamo “il ragazzo a cui ho dato” un libro, un fiore, un panino. Il pronome relativo “a cui” esprime il complemento di termine e introduce una frase relativa. Ma in italiano neostandard, registro informale, specie nel dialetto romano, si usa il cosiddetto “che polivalente” assieme a un pronome per specificare il complemento: “il ragazzo che gli ho dato”, dove “che” è il pronome relativo e “gli” è un pronome personale che specifica il complemento. Ebbene, l’egiziano antico faceva allo stesso modo. “L’uomo a cui” ho dato il libro: era “l’uomo che gli” ho dato il libro, cioè ze nty nf, dove ze è “uomo”, nty è il pronome relativo e nf significa “a lui”.
L’egiziano antico non è imparentato nemmeno con il greco, ma ha alcuni punti di contatto, per pura coincidenza. Il verbo egiziano ha l’aspetto, mentre il tempo si deduce dal contesto. Qualcosa di analogo avviene anche con il greco antico (eccezion fatta per l’indicativo, per esempio l’aoristo indicativo esprime un passato remoto per via dell’aumento).
In egiziano antico abbiamo:
- PROGRESSIVO: Hr + inf., m + inf. (progressivo interno), che si usa con i verbi di movimento e nelle subordinate: Hr sDm, sull’udire = stare udendo: jw=j Hr sDm: io sto udendo; mA-n=f jw jw=j m Sm.t r pr=j, mi ha visto mentre stavo andando a casa mia
- ALLATIVO: r + inf. Quindi abbiamo jw=j r sDm : io sto per udire.
L’infinito egiziano si forma con la radice del verbo per tutti i verbi non deboli (cioè non di ultima debole). PER I VERBI DEBOLI, cioè di ultima debole, si fa così: MSJ, generare: cade lo j e si sostituisce con il morfo del femminile singolare: ms.t. Oppure PRJ, uscire = jw=j Hr pr.t, sto uscendo; jw=j m pr.t, mentre sto uscendo; jw=j r pr.t: sto per uscire; wn=j r pr.t: stavo per uscire; wnn=j r pr.t: starò per uscire.
A volte l’allativo egiziano si traduce in italiano con un futuro: io starò per uscire = uscirò. Ma non si tratta di un futuro in quanto l’allativo egiziano non è un tempo bensì un aspetto. Lo stesso aspetto (azione non iniziata e non finita) si può applicare anche al passato (stavo per uscire) o al presente (sto per uscire).
Anche in greco non esiste il futuro come tempo. Ciò che al ginnasio il professore per comodo diceva essere un futuro, in realtà è un allativo. In Iliade I, 29 Agamennone dice a Crise riguardo la figlia: tēn d’egō ou lusō, letteralmente “non la sto per liberare”, vale a dire “non ho intenzione di liberarla”, più che “non la libererò”.
L’egiziano antico esprimeva molte figure retoriche, come avviene in tutte le letterature del mondo. Ma a quel tempo in Egitto le figure retoriche avevano un valore magico e sacrale, evocavano attraverso la parola le potenze divine. Invece in Occidente le figure retoriche hanno perso anche in antichità il valore magico e servono di solito per abbellimento del dettato o per esaltare il significato. Pensiamo a “cred’io ch’ei credette ch’io credessi” di Dante (Inferno 13, 25). Si tratta di un poliptoto (concorsi di più casi di uno stesso nome, di più forme di uno stesso verbo; per dirla con la Rhetorica ad Herennium IV, 18: eiusdem verbi adsituitas). Un famoso esempio di poliptoto egiziano lo abbiamo all’inizio delle Lamentazioni di Ipu-Ur (II periodo intermedio, 1782-1570 a. C.): nj Dd Dd Ddty=fy: “non è stato detto (nj Dd) ciò che è destinato a essere detto (Ddy) da colui che è destinato a dirlo (Ddty=fy)”. Cosa diversa è la figura etimologica (l’impiego in vicinanza di parole corradicali, pensiamo a “e la bocca aulitosa/più rende aulente aulore” di Guido delle Colonne), la paranomasia (se le parole corradicali hanno significato contrastante: “serrando e disserrando”, Dante, Inferno 13, 60), la rima derivativa (quando le parole rimanti provengono da stessa radice, pensiamo a “riprende/aprende” di Giacomo da Lentini). C’è chi aggiunge anche la annominazione, nella quale abbiamo uno stesso lessema variato nella forma (“Amor, ch’a nullo amato amar perdona”, Dante, Inferno V, 103).
Alcune parole egiziane sono in comune con le lingue semitiche, come l’arabo e l’ebraico. In egiziano “principe” si dice sr e si scrive con il determinativo del bastone a due punte, tipico delle culture africane, usato dai pastori. In ebraico biblico abbiamo la parola sar, “principe”.
Invece l’egiziano antico si discosta moltissimo non solo dalle lingue semitiche ma anche dall’italiano per esempio nella negazione. In italiano abbiamo un sistema assai semplice: l’avverbio NON, che nega in tutte le maniere possibili, e la forma olofrastica NO, che nega una proposizione precedente, del tipo: “Sei andato a ballare? No”. Ora in egiziano antico la negazione è un sistema assai complesso.
Innanzitutto la negazione nj ha il significato base: non (c’è), non (esiste). Era in origine un verbo, come njn. Essa è la NEGAZIONE della sDm-n=f. La forma sDm-n=f esprime il passato, però la frase nj sDm-n=f non esprime la negazione del passato bensì la negazione della capacità o della possibilità. Es.: voi non potete bere la mia birra, nj zwr-n=Tn Hnq.t=j, che letteralmente sarebbe: non esiste (nj) il bere (zwr) da parte (n) vostra (Tn) nei confronti della birra mia. Gli studiosi danno questo valore di strumentale (da parte) alla n che compare. Bisogna sapere che la n è anche la preposizione strumentale oltre a indicare il passato nella forma sDm-n=f. I linguisti ipotizzano che il valore originario della n della forma sDm-n=f era strumentale. Come fanno a ipotizzarlo? L’egiziano antico geroglifico non scriveva le vocali ma solo le consonanti, le vocali sono di solito ricostruite dagli studiosi soprattutto dal confronto con il copto (la fase finale della lingua egiziana, quindi un egiziano tardo, espresso in un alfabeto che segna le vocali), ma abbiamo un caso in cui gli egiziani ci danno direttamente la vocalizzazione di una forma sDm-n=f. La forma è attestata nel Papiro del British Museum 10808: il verbo è wrD, “essere stanco”, si riferisce a un demone che è sempre in attività, la frase in questione è nj wrD-n=f, “non può essere stanco”, ed è vocalizzata n-uret-n=f, dunque molto probabilmente la vocalizzazione di questa forma era IDENTICA a quella della sDm-n=f, perché sappiamo che anche la sDm-n=f nell’egiziano tardo si pronuncia stem-n=f, in egiziano antico doveva essere saDìm-na=f. Il Papiro in questione è uno di quei rari papiri in egiziano classico ma scritti in alfabeto copto, quindi abbiamo la vocalizzazione dell’egiziano classico in quanto come abbiamo detto la scrittura copta ha le vocali. Questi papiri preziosissimi per i linguisti di oggi che cercano di ricostruire la pronuncia delle vocali dell’egiziano classico, presentano rituali antichi che dovevano essere imparati a memoria dai sacerdoti tardi che parlavano in copto, quindi presentano una vocalizzazione affinché fossero meglio memorizzabili. Comunque sia questi papiri in copto risentono della pronuncia tarda dell’egiziano classico, quindi sono presi con molta cautela dagli studiosi.
Invece in egiziano classico nj + la forma sDm=f ha valore di negazione del passato, quindi nj sDm=f significa “non ha sentito, non sentì, non sentiva”. Es. nj mwt=j, non sono morto. Nj zwr=j, non ho bevuto.
Nj + nome nega il predicato nominale (quello che ha pw). Es. nTr pw Ra significa Ra è un dio, invece nj nTr js pw Ra significa Ra non è un dio. La particella js coadiuva la negazione nj, come fosse una sorta di pas francese.
La negazione njn + sDm=f nega il futuro (non farò), nega il presente (non faccio), nega l’intenzione (non intendo fare).
La negazione njn nega anche il predicato nominale (quello con preposizione). Iw bAk n per, il servo sta in casa. La negazione sarà: njn bak n per, il servo non sta in casa.
Invece una volontà si nega con il verbo ausiliare jmj. L’imperativo di jmj è m (scritto con o senza il segno D35 come determinativo, cioè le due braccia che si aprono per negare). Es. m pr m tA = non uscire dal paese. Il verbo che segue “m” è uguale alla sDm=f, ma senza pronome enclitico (soggetto sottinteso: tu/voi), se c’è pronome enclitico: è l’oggetto (raro): di solito l’oggetto è il dipendente. Questa forma verbale si chiama verbo completivo.
Un DIVIETO GARBATO (“per favore, non…”) si esprime con la sDm=f di jmj (jm=j, jm=k/T, jm=f/s, e così via). Es. jm=k sDm pA z: per favore, non ascoltare quell’uomo.
Abbiamo anche il verbo negativo tm, “non fare l’azione”. È usato nella sDm=f subordinata (finale, completiva, consecutiva). Es. jw bAk.t Hr Dd x.t sjA.wt jx sDm sy bAk, “la serva sta dicendo cose intelligenti, cosicché il servo la ascolta”. Al negativo sarà: jw bAk.t Hr Dd x.t swx.A jx tm bAk sDm sy, “la serva sta dicendo cose stupide, cosicché il servo non l’ascolta”.
Il secondo uso del verbo negativo tm è nella negazione del participio, che si esprime con il participio del verbo tm, cioè tm(w) + forma completiva.
Grossomodo ecco la storia dell’egiziano antico:
- Antico egiziano (2600-2000 a. C.);
- Medio egiziano (2000 fino all’epoca romana, è considerato l’egiziano classico, trova impiego letterario fino all’epoca greco-romana);
- Neo-egiziano (1600-600 a. C.);
- Demotico (650 a. C. – V secolo d. C.);
- Copto (II-XI d. C.).
La scrittura monumentale egiziana è il geroglifico, formata soprattutto da una combinazione di ideogrammi e fonogrammi. Il geroglifico conosce diversi sviluppi storici e diversi stili (come il geroglifico corsivo). Una semplificazione del geroglifico, cioè una sorta di corsivo, è lo ieratico, usato nei documenti non ufficiali. Invece il demotico indica sia una evoluzione della scrittura sia una fase dell’egiziano antico. Il copto adotta un alfabeto, desunto da quello greco e da alcuni segni del demotico.
La scrittura geroglifica è costituita essenzialmente da pittogrammi (segni che indicano direttamente la cosa), ideogrammi (segni che indica una idea), fonogrammi (suoni) e determinativi (che non si pronunciano ma servono a caratterizzare una parola). Il determinativo del bambino è un bambino in fasce che porta la mano alla bocca. È usato anche per il nome Hrw-pA-Xrd, “Horus il bambino”, che gli antichi romani e greci grecizzavano in Arpocrate (in greco Harpokrates dal copto Harpikhrat). I romani e i greci pensavano fosse il dio del silenzio perché porta la mano alla bocca, in realtà lo fa per succhiarsi il pollice. Ancora la scrittura geroglifica non era stata decifrata, romani e greci non sapevano che si trattasse di un determinativo.
Nella prima fase della lingua egiziana sono scritti i Testi delle Piramidi, invece in medio egiziano i Testi dei Sarcofagi e in neo-egiziano l’Inno a Aton di Amenofi IV.
Il celebre Libro dei Morti è il documento funerario più rappresentativo del Nuovo Regno, è scritto generalmente in geroglifico corsivo e non è un libro (come può essere un libro biblico) ma una raccolta di manoscritti di diverse epoche.
Anche la ricostruzione dell’egiziano antico pone innumerevoli problemi, quindi la traduzione è in larga misura congetturale.
La lingua che si studia ordinariamente è il medio egiziano. Rispetto ad esso il neo-egiziano ha questi elementi di novità:
- Comparsa dell’articolo;
- Sostituzione del pronome dimostrativo invariabile pw con i dimostrativi nelle proposizioni non verbali con predicato sostantivato;
- Messa a punto di una categoria di pronomi personali indipendenti atti a fungere da soggetti della frase verbale con forme perifrastiche;
- Riduzione delle forme verbali con suffissi (dei quattro sDm.f del medio egiziano ne sopravvivono due con valore prospettivo e perfettivo);
- Messa a punto di un sistema temporale circostanziato e preciso capace di dare maggiore efficacia alla coniugazione perifrastica che sfrutta appositi indicatori come il verbo ausiliario iri e il convertitore passivo wn;
- Semplificazione della frase nominale a predicato nominale mediante la scomparsa della copula pw;
- Comparsa del morfema iw per marcare le frasi subordinate circostanziali a valore temporale relativo;
- Comparsa della forma verbale del congiuntivo;
- Sviluppo di ulteriori forme di negazione tese a rafforzare quelle preesistenti.
Nella formula 2 dei Testi dei Sarcofagi (cap. 1.9, par. C) è scritto nell’originale egiziano:
jw mAa (=w) xrw=k
r xft(y).w=k
r jr(w).wt r=k
r msDD(y).w Tw
jrty=sn wD-mdw xft=k
m hrw pn
Una traduzione letterale può essere: “Giusta è la tua voce/contro i tuoi nemici,/contro quelli che hanno agito contro di te,/contro quelli che odiano te,/(quelli) che stanno per fare un processo contro di te/in questo giorno”.
Ma l’espressione egiziana “giusta la tua voce” vuole dire che la persona che si presenta davanti al tribunale divino è stata assolta perché ha detto la verità. Quindi una traduzione migliore è: “Sei stato assolto nei confronti dei tuoi nemici, di quelli che hanno agito contro di te, di quelli che ti odiano, di quelli che intendono istruire un processo nei tuoi confronti quest’oggi”.
Lo stato costrutto esprime il genitivo, si fa giustapponendo semplicemente il complemento. Tecnicamente mAa xrw=k è una costruzione nefer-Her. Quando un egiziano voleva dire “dal bel volto”, diceva “bello di volto”, cioè nefer-Her. “Di volto” (Her) è un complemento di limitazione giustapposto a “bello” (nefer) con uno stato costrutto. Allo stesso modo mAa xrw=k significa letteralmente “giusto di tua voce”, cioè “dalla tua voce giusta”.
Questa strana espressione significa che il defunto ha detto la verità, in quanto la radice egiziana maat vuol dire sia “giustizia” sia “verità”. Il defunto ha detto la verità in un contesto ben specifico, quello della psicostasia, cioè il processo a lui fatto dopo la morte prima del giudizio definitivo di Osiride di assoluzione o condanna. Nei Testi delle Piramidi il defunto è sempre il faraone (perché nelle piramidi vi era solo lui), invece nei Testi dei Sarcofagi il defunto è un uomo comune, ma facoltoso, che poteva permettersi un sarcofago.
La formula 1 dei Testi dei Sarcofagi recita:
hA wsjr nt=k rw nt=k rwty nt=k Hrw
nD jt=f nt=k fd-nw n(y) fd.w jpw nTr.w Ax.w
jtp.w jnn.w mw jrr.w Hp m xpS n(y) jt.w=sn
Traduzione: “O Osiride, tu sei un leone, tu sei Ruty, tu sei Horus che ha protetto suo padre, tu sei il quarto di questi quattro Dei, spiriti Akh potenti, che portano l’acqua e che creano (= fanno) l’Inondazione tramite la forza dei loro padri”.
Il defunto è chiamato Osiride, sia nei Testi delle Piramidi sia nei Testi dei Sarcofagi. Osiride è il dio egiziano che vince il potere del male incarnato da Seth. Il defunto è chiamato anche Horus, il figlio di Osiride, che aiuta il padre nella vittoria. Il richiamo a questo mito egiziano indica che il defunto ottiene la vittoria sulla morte così come Osiride quella sul male perpetrato da Seth.
Ruty è una divinità infera, scritta tramite un duale ideografico del termine rw, “leone” (ricorrente poco prima), e probabile epiteto di Osiride stesso. Il motivo dell’uso del duale grafico è che, alla lettera, rw.ty significherebbe “due leonesse”.
Testi dei Sarcofagi 14, I.44-45:
Hrw pw pr(w) m SnT.t
Hr=tj r wsjr tn nty Hr=w r=s
m ar n=s nty ar(=w) n=s.
Traduzione: “Horus che sei uscito dalla lite, stai lontano dalla qui presente Osiride, (o tu) che sei lontano da lei, non salire a lei, (o tu) che sei salito da lei”.
Il testo vuole dire questo. Horus che sei venuto fuori dalla lite (con Seth), sta’ lontano dalla qui presente defunta (= che ella non abbia ad affrontare liti), tu che sei lontano da lei (= perché ella non ha effettivamente generato liti in vita), non salire a lei, tu che sei salito a lei (= perché ora invece deve affrontare il processo nell’Aldilà).
Hrw pw significa letteralmente “Horus questo”: come in greco, il pronome serve per fare il vocativo.
Notiamo anche che la forma nty Hr=w, “che sei uscito”, è alla terza persona. In lingue come l’inglese, il tedesco e anche l’egiziano antico, il verbo della proposizione relativa è sempre alla terza persona (anche se si riferisce ad altra persona) perché la proposizione viene sentita come una sorta di nome.
Lo stativo si traduce con il verbo essere, quando invece lo stesso verbo è all’incompiuto (sDm.f), esso esprime l’idea del diventare. Facciamo un esempio. Hr allo stativo significa “essere lontano”, se invece è all’incompiuto sarebbe in sé “diventare lontano”. È la stessa ragione per cui in greco il verbo essere, einai, non ha il perfetto, invece in greco per fare il perfetto del verbo essere si usa il paradigma di gignomai, “diventare”: einai ha valore incompiuto, invece il perfetto di gignomai è “essere diventato”, cioè “essere attualmente qualcosa”, quindi “essere”.
Testi dei Sarcofagi 9:
jnD Hr=k DHwt(y) jmy Htp nTr.w
wD=k prr=sn m-xsf.w wsjr sDm=sn Dd.t=f
nb.t nfr.t m hrw pn
Hr-nt(y).t Twt js Sw.t tw wbn.t m tA nTr.
Traduzione: “Salve, Thoth, che sei (nella) pace degli Dei, possa tu ordinare che essi escano al cospetto di Osiride, che ascoltino tutto ciò che egli dice di buono in questo giorno, poiché tu sei questa piuma che splende nella terra del Dio”.
Bibliografia
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- E. M. Ciampini, La lingua dell’antico Egitto, Milano 2018;
- A. De Benedittis, Introduzione alla cultura coreana, Milano 2018;
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- A. Gardiner, Egyptian Grammar, Oxford 1957;
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- V. E. Orel, O. V. Stolbova, Hamito-Semitic Etymological Dictionary, Leida 1994;
- M. Riotto, Storia della letteratura coreana, Milano 1996;
- G. Takács, Etymological Dictionary of Egyptian, Leida 1999.
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe 44 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.