” IL GIAPPONE ANTICO E LA SUA POESIA ” – DOTT.RE MARCO CALZOLI
Redazione- Alcuni studiosi ritengono che i primi resti di civiltà in Giappone possano risalire al 200.000 a.C., epoca definita Paleolitico antico. Si fanno risalire al 13.000 a.C. alcuni utensili lavorati ottenuti da diversi materiali, fra cui l’ossidiana, che testimonierebbero lo scambio tra regioni lontani, dal momento che sono stati ritrovati oggetti realizzati con materiali non presenti nella zona del ritrovamento. In questo periodo pare che gli uomini avessero già scoperto il fuoco, ma gli utensili ritrovati sono tutti realizzati con pietre tagliate e questo farebbe pensare che non venissero lavorati materiali come osso e legno. Non ci sono testimonianze scritte, ma archeologiche. I primi scavi risalgono alla fine del XIX secolo.
Il periodo Jomon è un lungo arco temporale della storia giapponese, ha un inizio (15.000/10.000 a.C. circa) ma non una fine precisa. Ha due termini: 1000 a.C. circa nel sud-ovest e intorno al 500 a.C. nel nord-est. Sono stati individuati sei sottoperiodi (Jomon incipiente, Jomon iniziale, Jomon primitivo, Jomon medio, Jomon tardo e Jomon finale). Il periodo di massima evoluzione è stato tra il 4000 e il 1300 a.C. Tra le cause della fine di questo periodo ci sono i cambiamenti climatici (crisi per produzione alimentare, disgregarsi della società) e l’ingresso di nuove tecnologie (maggiori approvvigionamenti di cibo), tracce di influenze continentali sempre più forti (tipo nella lavorazione della terracotta, monumenti funerari in pietra). L’evoluzione del periodo Jomon ha portato a numerosi insediamenti, che però sono diminuiti nel periodo Yayoi. La risicoltura, tra altre cose, segna l’inizio del periodo Yayoi.
Come è arrivato l’uomo in Asia Orientale? Ci sono state due ondate principali:
- 2 milioni di anni fa (in alcuni scavi ci sono resti di erectus)
- 125 mila/60 mila anni fa (homo sapiens).
L’uomo è arrivato in Cina e ha iniziato un graduale processo di adattamento al clima dell’Asia Orientale, dove si sono verificati periodi glaciali, interglaciali, temperati-umidi, freddi e secchi. Il fenomeno dei monsoni (correnti di aria umida) è stato favorevole allo sviluppo del genere umano. Gli uomini trovano rifugi, cacciano, usano pietre per utensili, si spingono fino a 100km di distanza dalle loro dimore. Intorno a 120.000 anni fa l’uomo è arrivato anche in Corea e in Giappone. Prima si stabilì nelle zone costiere della Cina, del Sud-Est Asiatico e poi è risalito a nord verso Kyushu e la penisola coreana. La presenza umana in Giappone risale quindi a 50-40.000 anni fa (secondo le tesi più accreditate).
Il Giappone al tempo non era un’isola, era più un’appendice attaccata al continente, c’erano terre emerse che ora non ci sono più. Era collegato con la penisola coreana, collegamento quasi diretto con la Cina meridionale, passando per le isole della moderna Okinawa.
In una stessa fascia geografica (40 parallelo nord) sono stati ritrovati oggetti simili (per la caccia), strumenti ricavati da pietre lavorate. Oggetti contundenti, per tagliare. Evidenza di tipo archeologico (40-50.000 anni fa).
Strumenti di caccia del sud-ovest, nell’estremo nord (no punte ma quasi coltelli, lame ricavate dall’ossidiana e altre pietre). Asce, strumenti più grossi. Sono tutte tracce dell’arrivo dell’uomo.
Sono stati trovati dei reperti che dicono che l’uomo non cacciava in solitaria, c’era una sorta di organizzazione a livello sociale. Tana Mukaihara ci dice che c’erano forse accampamenti, centro riparazione armi, in questo centro poteva esserci scambio con altri individui.
Nello stesso periodo nel Kyushu meridionale soprattutto vi era presenza di piante ad uso alimentare, quindi sono stati ritrovati mortai: si tratta di una ulteriore evoluzione degli strumenti necessari. Trovati oggetti rituali che probabilmente servivano già per propiziare la fertilità umana e l’agricoltura e che anticipavano l’arte statuaria di Jomon. Gli uomini del periodo iniziano ad avere tempo per produrre oggetti di “arte” con funzione probabilmente sacrale.
Negli anni Venti del Novecento il termine “jomon” cominciò ad essere usato per indicare un particolare tipo di vasellame e poi per denominare il periodo giapponese in cui questo vasellame veniva prodotto. La ceramica jomon venne riconosciuta dalla comunità scientifica grazie ad Edward Sylvester Morse, uno zoologo americano, che in un rapporto sugli scavi intitolato Shell Mound of Omori, pubblicato nel 1879, descrisse le ceramiche giapponesi, caratterizzate dalla cosiddetta decorazione a “segni di corde”.
Alcune scoperte nei siti archeologici nel nord di Kyushu e nello Shikoku occidentale testimonierebbero l’anteriorità delle prime ceramiche giapponesi rispetto a quelle cinesi.
Tutto ciò che sappiamo dell’epoca Jomon è dato dai Kaizuka. Nei kaizuka (mucchi di scarti, soprattutto conchiglie) sono stati ritrovati resti di ami e arpioni a testimonianza che già nel periodo Jomon veniva praticata la pesca, perlomeno nelle popolazioni costiere del sud, mentre le popolazioni che vivevano nelle zone più interne ricorrevano ancora alla caccia e alla raccolta. Sono stati ritrovati anche utensili, manufatti, resti di ciò che si nutrivano, tipo pesci.
A questo periodo risalirebbero anche i primi insediamenti semi-stabili (primi villaggi in piccola scala lungo l’arcipelago, soprattutto nell’Honshu). Strutture a fossato dei centri abitati, capanne con pavimento un po’ scavato, all’interno c’erano dei focolai. Esistevano poi dei luoghi adibiti all’internamento del vasellame (conservazione di alimenti): processi innovativi di produzione e conservazione. Nascita delle prime colture di cereali (miglio, orzo) e esempi di una prima agricoltura della lacca. Forse esistevano delle reti commerciali che collegavano l’arcipelago al continente e l’arcipelago ad altre zone dell’arcipelago. Spostamenti marittimi di breve distanza e più lunghi. No divisione gerarchica.
Sono anche state ritrovate delle statuine, chiamate dogu, alte tra i 20 e i 30 cm, di spetto umano o animale, con funzione rituale e propiziatoria, si ipotizza che fossero le prime divinità. Queste figure presentano seni e addomi sporgenti e ciò induce a supporre che si trattasse di donne, probabilmente in stato di gravidanza (fertilità/abbondanza?).
Per quanto riguarda l’architettura sono stati ritrovati dei raggruppamenti di pietre in posizione verticale, dette sekibora, rappresentanti simboli fallici. Il gruppo più numeroso è stato ritrovato nel 1992 a Miyagawa.
L’evento più rilevante dell’epoca Jomon è stata l’invenzione delle ceramiche decorate a corde (di terracotta morbida), che venivano realizzate con la tecnica del colombino e poi decorate con motivi a spina di pesce grazie a delle cordicelle attorcigliate attorno ad un bastoncino. Inizialmente venivano realizzate solo delle giare dal fondo piatto, ma nel corso del periodo Jomon la lavorazione della ceramica si è evoluta con la produzione di ciotole, coppe e vasi. Si evolvono anche i motivi decorativi che diventano, spesso, di stampo naturalistico o zoomorfo. Lo sviluppo della ceramica si attesta intorno a 14.000 anni fa.
Da Jomon a Yayoi: nascita prime entità statali, rapporti con penisola e continente, agricoltura sedentaria. Il periodo Yayoi porta a un cambiamento radicale: le strutture sociali sono diverse da quelle di Jomon (paritarie, senza stratificazione sociale) grazie al cambio dell’economia che ora è sedentaria. Il periodo Yayoi rappresenta la più lunga periodizzazione della storia giapponese dopo il Jomon: all’incirca dal 1000 a.C. fino a 300 d.C. (inizio protostoria).
Nello Yayoi abbiamo le prime prove di agricoltura, contribuisce alla trasformazione del terreno privo di foreste ora ad utilizzo agricolo. Ecosistema cambia e anche il territorio. Presenza di vegetazione inizia a ridursi. Biodiversità.
I Dolmen sono elementi monumentali, estremamente diffusi in Corea. Nel periodo tardo-ultimo Jomon e inizio Yayoi hanno una funzione funebre. Gli abitanti, con scambi e vicinanza al continente, iniziano ad imitare gli altri. Le immigrazioni consistenti dalla Corea portarono con sé una tecnologia nuova sia sociale sia “tecnica”, di controllo e di potere. Nella zona del Kinai nascono le prime entità statali, con la nascita dei clan (Osaka, Nara, Kobe) che emergono sul bacino del fiume Yamato.
Per quanto riguarda la evoluzione tecnica, il vasellame è conforme, con malto più raffinato. C’è una evoluzione regionale, il materiale quindi si distingue anche se ha gli stessi utilizzi, forte somiglianza con Corea. Nel Kinai (Giappone occidentale) si hanno decorazioni più raffinate ed elaborate. Nel Tohoku si hanno ancora tracce del periodo Jomon. Introduzione altri materiali: bronzo e ferro. Primi elementi in stile Han, prime dinastie cinesi risalenti al I secolo a.C.
Nel 300 d.C. avviene una crisi degli Han che porta alla conquista verso altri territori come Cina occidentale e confine con Corea. Da qui esportazione di artefatti ed elementi. Materiale come gli specchi di bronzo indica l’inizio dell’età del bronzo. Bronzo e ferro arrivano contemporaneamente in Giappone, ciò rafforza l’ipotesi di immigrazioni. Nel frattempo sappiamo che c’erano anche allevamenti di suini, bovini pochissimi (Cina centrale). I manufatti testimoniano la presenza di oggetti rituali. Venne importata una tecnica di metallurgia per la produzione locale, polvere ferrica per il ferro (estratta in Corea e portata nel Kyushu). Traccia di cultura militare in via di sviluppo, importante a causa anche di conflitti territoriali di queste proto-società. Si hanno già dei leader e dei re. Le dinastie in Cina esportano modelli statali di tipo verticistico. Gli Han dalla Cina si spingono verso la Corea, per accaparrarsi i posti per primi. Secondo una ipotesi, il Giappone dovette essere una nuova frontiera per questi territori perché priva di potenze militari. La società si evolve, case sopraelevate e normali.
Il periodo Yayoi getta le basi per l’agricoltura, modello che ha successo negli anni a venire. Emerge l’egemonia Yamato (area del Kinai). Per l’origine del termine Yayoi, nel 1884 il dottor Arizaka Shozo scoprì una giara realizzata con un tipo di ceramica differente da quella del periodo Jomon, nel quartiere Yayoi-cho a Tokyo. Da allora il termine viene usato per indicare il periodo successivo al Jomon e il tipo di ceramica prodotta in quei secoli con l’utilizzo di torni e forni a temperature maggiori. Si tratta di una ceramica di qualità superiore a quella di Jomon.
Secondo le cronache cinesi alla fine del periodo Yayoi si erano generati dei conflitti fra villaggi vicini e questo sarebbe confermato da alcuni ritrovamenti archeologici che dimostrano la presenza di fossati, palizzate e torri di guardia, che avevano lo scopo di proteggere i villaggi che non avevano il vantaggio di trovarsi su un’altura.
Secondo alcuni annuali cinesi, nel III secolo a.C., la regina Himiko sarebbe riuscita a creare il regno giapponese dello Yamatai, esercitando un potere assoluto su circa 70.000 nuclei famigliari. Ci sono diverse posizioni riguardo la collocazione del regno di Himiko: l’ipotesi più probabile è che tale regno si trovasse nell’attuale prefettura di Fukuoka; diversamente, alcuni storici lo collocano nel Kinai, nell’attuale prefettura di Nara e sarebbe quindi il nucleo della futura Corte Yamato. Questa seconda ipotesi è meno probabile perché presuppone un’unificazione politica del Giappone troppo avanzata per l’epoca. Himiko (238-250 ca) è la prima imperatrice del Giappone (chiede di essere riconosciuta a livello internazionale, si apre al commercio, viene garantita la non-aggressione).
Nasce in questo periodo il nucleo primitivo dello shintoismo (Shinto = via degli dei). L’uomo sviluppa una consapevolezza, coscienza di controllo sulla natura e anche sugli uomini (rappresentazioni di cervi, prede di caccia) Si iniziavano, infatti, a venerare delle divinità legate alla natura, dette kami, che venivano pregate, ad esempio, per ottenere un buon raccolto. Questo shintoismo primitivo è un culto della natura. Esso non concepiva l’idea del peccato come effetto di una trasgressione interna all’individuo, era piuttosto il risultato di un’azione esterna, che poteva essere trasformata con il ricorso al rito, tanto è che persino i kami più violenti (tifoni, fulmini…) potevano essere propiziati con appositi riti e resi benevoli. La linea di demarcazione tra divinità e uomo non è netta, tanto che più avanti coloro che si troveranno al vertice della società verranno identificati come discendenti degli dei.
James Scott ha studiato gli stati premoderni. Ha tracciato uno schema: gli stati nascono per ridistribuzione delle risorse (soprattutto alimentari), garantire un sostentamento a chi non produce (=ridistribuzione). Le somiglianze tra tutti i protostati sono:
- organizzazioni sociali fondate sulla coltivazione dei cereali (che sono un vegetale che produce grani visibili, divisibili, calcolabili, conservabili, trasportabili facilmente, possono essere divisi in porzioni specifiche)
- presenza di mura, confini: dietro questo confine c’è una proprietà ben definita, che necessita di protezione
- scrittura: strumento per registrare, contabilizzare e misurare regole e regolamenti (in Giappone nello stato Yamato c’è però parzialmente).
Gli stati in Cina e Corea emergono molto prima. Nel VII secolo a.C. si forma in Corea (fiume Yalu, al confine con la Cina settentrionale) un proto-stato chiamato Joseon dagli storici (massimo sviluppo nel IV secolo). In Cina c’erano già sconti tra vari stati ancora più organizzati.
Joseon è uno stato che entra a che fare con il continente, contatti pacifici e di scontro, finché non viene conquistato dalle forze militari di uno staterello cinese. Il capo di questo stato si autoproclama re di Joseon (re Wiman). Vi è una società gerarchica con al vertice un re, che dà vita a una dinastia. Iniziano a crearsi altri stati in tutta la penisola coreana. Questo regno inizia a importare tecniche e tecnologie dalla Cina (“via della seta” = reti commerciali cinesi). Essere collegati alle reti commerciali dà potere, quindi emergono tensioni con la Cina, soprattutto con l’impero Han. Intorno all’attuale Pyeongyang emergono composti militari, stati quasi a sé che commerciano con gli staterelli della penisola coreana e successivamente anche con l’arcipelago giapponese. Nel II secolo a.C. Joseon cade e viene assorbito dall’impero cinese Han. L’avamposto militare Lelang durò fino al IV secolo d.C., da lì derivano tutte le tecniche che poi ritroveremo anche in Giappone. Inizia a svilupparsi nella penisola coreana una domanda di beni di lusso e altri (ciò per i contatti ravvicinati con la Cina Han).
Nel I secolo a.C. gli staterelli coreani danno vita a tre regni: Baekje, Goguryo, Silla e Gaya (che è una confederazione di stati)
Elementi che accomunavano i 3 regni: emerge una famiglia imperiale, essi sono fondati sull’agricoltura, hanno un sistema amministrativo militare e religioso (si formerà il buddhismo, che poi passerà in Giappone), c’è anche una impronta confuciana.
Da Yayoi si passa a Kofun mediante una organizzazione sociale che fa emergere clan e famiglie il cui potere è ereditario (ciò porta a una tradizione che dura sino ai giorni d’oggi: dinastie politiche, come Shinzo Abe che deriva da una famiglia di politici).
Il periodo Kofun prende il nome dalle caratteristiche grandi tombe monumentali che si diffondono in Giappone tra il 300 d.C. e il VI secolo fino a quando con l’introduzione del Buddhismo si supererà questa pratica. Questo tipo di tombe, definite appunto kofun, aveva una sagoma rialzata circolare, quadrata o a buco di serratura, sopra alla quale solitamente erano poste le haniwa, cioè delle grandi statue di terracotta che inizialmente riproducevano una casa che avrebbe dovuto ospitare lo spirito del defunto, ma che in seguito raffigureranno anche oggetti e persone in qualche modo legati al defunto. Rappresentavano il mondo terrestre portato nel mondo dei morti (si riproduce un clima famigliare nelle sepolture).
I Kofun erano paragonabili alle piramidi d’Egitto, rappresentavano il luogo di sepoltura di un leader. Queste sepolture rispecchiano una stratificazione sociale presente nel paese, a prova di ciò i tumuli più imponenti sono stati ritrovati nella zona occupata dal clan Yamato, i cui membri occupavano i gradini più alti della scala sociale.
Testimonianze dicono che tra il I e il III secolo vi fu un periodo di lotte per il potere tra i vari clan, gruppi (soprattutto a Kyushu e attuale Osaka, nel Kinai) che portò a una rivoluzione della religione, che fino ad allora era concentrata sui riti agricoli. Le sepolture sono diverse, con monumentalità specifica standard in tutto il territorio. La religiosità ci dice che esiste un consenso ideologico tra i vari clan, quindi la identità ideologica è rappresentata dalle forme standard delle sepolture.
Sono stati ritrovati molti oggetti e manufatti come gioielli, spade, specchi (simboli del clan Yamato) e oggetti di tipo agricolo (rimane forte il legame con la terra). A Noge Otsuka vi è un Kofun molto importante.
Coloro che potevano permettersi di edificare simili strutture funebri erano gli esponenti delle famiglie o clan dominanti, chiamati uji, i cui membri erano legati in genere da vincoli di sangue. Gli individui appartenenti ad un uji ritenevano di discendere da un antenato comune, detto ujigami, ed esercitavano il loro controllo su un certo territorio più o meno esteso. Questo gli consentiva di avere una posizione sociale più elevata. Al vertice dell’uji si trovava l’uji no kami, ritenuto il tramite diretto con la divinità e per questo dotato del massimo potere sacerdotale che trasmetteva ai proprio discendenti. Per via ereditaria venivano trasmessi anche gli altri ruoli sociali. Sotto l’uji, infatti, c’erano anche dei gruppi occupazionali chiamati be (be di contadini, artigiani, pescatori, guerrieri, cantastorie), ciascuno dei quali era alle dipendenze dell’uji. Al di sotto dei be si trovano gli yatsuko, cioè un gruppo ristretto della popolazione composto da servi e domestici dell’uji.
Uno di questi uji, il clan Yamato, riuscì ad acquistare una posizione prominente, sia grazie alla superiorità militare che alla supremazia della divinità da cui si riteneva discendessero, ovvero la dea del sole Amaterasu. L’uso della scrittura consentì la compilazione di due grandi opere di “propaganda dinastica”, quali risultano essere il Kojiki e il Nihon shoki.
Intorno al clan Yamato si creò una vera e propria confederazione di uji, che costruì il nucleo di un governo centralizzato in Giappone. Il clan Yamato estende il suo controllo, ad esso interessano le materie prime fondamentali (nella penisola coreana). Si diffonde il combattimento con cavalli.
Vi fu un sistema di lotta e competizione tra i tre regni della Corea e il clan Yamato. Essi vogliono l’accesso ai materiali ferrosi. Il secondo capo del clan Yamato, Yuryaku, si rivolge alla Cina per essere riconosciuto (come con Himiko) come interlocutore diretto, ma viene sconfitto nel 475 (Battaglia a Baekje). Con la caduta di Baekje egli chiama in Giappone l’élite di Baekje. Alla sua morte avvengono nuovi disordini, le famiglie si contendono il potere. La lotta tra clan porta all’accentramento del potere politico in centri specifici. Emergono alcune famiglie particolari, come i Soga, che diventano amministratori del fisco dell’imperatore e diventeranno così influenti da nominare un reggente (shodo).
Nel 670 si impone in Cina la Dinastia Tang, che riunifica Cina centrale e governo. In Giappone si guarda alla Cina come modello. La Cina infatti avrebbe fornito un modello di governo efficiente e centralizzato dove l’autorità e il potere dell’imperatore erano basati sull’attività di una burocrazia centrale e su una serie di norme che regolavano il sistema amministrativo e fiscale. Da un paese arretrato il Giappone si sviluppa, ma non alla pari dell’impero cinese. In questi frangenti lo stato giapponese cambia nome: da Wa si chiama Nippon, si tratta di un cambio di identificazione, nuova identità politica (paese che vede il sorgere del sole prima della Cina) Ma l’imperatore cinese rigetta il nome perché il Giappone era considerato uno stato barbarico, non poteva mettersi prima della Cina. Si pensa alla probabile esistenza di una lingua comune tra Cina, Corea e Giappone (cinese scritto).
Uno stato deve avere un sistema ideologico di riferimento (religione e filosofia) e una coercizione (controllo persone). È il buddhismo, che, pur nato in India nel VI secolo a.C., arriva in Giappone da Baekje: i diplomatici coreani lo presentano come la più eccellente delle dottrine.
Nel 694, come previsto dall’editto Taika, fu creata la prima capitale stabile a Fujiwara, poco a nord di Asuka, ma dopo soli sedici anni la capitale venne spostata a Nara in una zona più ampia e adatta alle comunicazioni. Il periodo Nara inizia nel 710, anno in cui la capitale venne spostata a Heijokyo, attuale Nara. Di particolare bellezza è la statua del Grande Buddha, Daibutsu, collocata nel tempio del Todaji e fatta costruire nel periodo Nara dall’imperatore Shomu.
Nel periodo Nara il Giappone aveva rapporti sia con l’Asia centrale e orientale che con l’Indonesia, il Vietnam, la Malesia e, soprattutto, nel 701, con l’invio di una missione alla Corte dei Tang, si intensificarono i rapporti con la Cina. Iniziarono una serie di scambi culturali con le missioni che partivano da Naniwa, attuale Osaka, per portare in Cina 500-600 persone, fra cui studenti e studiosi. Nonostante la forte influenza della Cina però si adottarono anche soluzioni originali visibili nell’arte, nella poesia e nell’architettura.
Fattori sociali di questo periodo:
- aumento di produttività nelle campagne (più animali da soma e nuovi strumenti e fertilizzanti)
- corsa ai terreni per l’utilizzo privato (scacciare anche persone che ci vivevano, contadini)
- aumento traffici commerciali (burocratici di basso/medio livello), primo tentativo di zecca, import di monete cinesi
- epidemie, malattie (colpiscono anche membri delle famiglie più nobili)
- malnutrizione (stile di vita, servizio militare, sfruttamento di forza-lavoro).
In questo periodo vengono messe per iscritto le prime storie nazionali e prime poesie/componimenti poetici. Al periodo Nara risalgono anche le prime opere storiografiche giapponesi: il Kojiki e il Nihon Shoki.
Il Kojiki fu completato nel 712 ed è scritto in giapponese, ricorrendo però ai caratteri cinesi sia per il loro significato che per il loro valore fonetico. Si tratta di un poema/registrazione di fatti antichi. Esso narra la storia del Giappone partendo dalla mitologica origine delle sue isole, fino ad arrivare nel 628 d.C. L’opera aveva il compito di legittimare la sovranità della famiglia Yamato sul Giappone e rafforzare il legame con le famiglie che sostenevano il regime Yamato. Il Kojiki però è fortemente influenzato dalla tradizione orale e impregnato di miti e leggende e per questo poco attendibile dal punto di vista storico.
Il Nihon Shoki è storicamente più attendibile ed è scritto in lingua cinese, simile alla tradizione storiografica degli annali cinesi. Venne terminato nel 720 e partendo dalle origini narra la storia fino al 697 d.C. E anch’esso ha lo scopo di legittimare la dinastia regnante. Vi è la storia dell’imperatore.
Invece il Man’yoshu, 750 ca, è una raccolta di poesie di ispirazione continentale (waka).
Dal 781 all’805 regnò l’imperatore Kanmu, il quale si adoperò per arginare l’ingerenza delle istituzioni buddhiste. Nel 784 fece spostare la capitale da Nara, dove si trovavano i grandi templi e le scuole buddhiste, a Nagaoka. Tuttavia, a causa di funesti presagi dieci anni dopo la capitale venne nuovamente spostata a Heiankyo, l’attuale Kyoto (Capitale della pace). Lo spostamento della capitale segna la fine del periodo Nara e l’inizio del periodo Heian, considerato quello classico della letteratura giapponese.
Nonostante i numerosi tentativi di centralizzazione del potere, anche in questo periodo la società giapponese rimaneva legata alla struttura degli uji, su cui il governo imperiale non riuscì mai a imporre la sua completa autorità anche a causa delle scarse risorse militari. Per questo cercò di tenerli sotto controllo attraverso la concessione di cariche pubbliche e svariati privilegi, come il possedimento perpetuo delle terre o l’esenzione fiscale.
Nel periodo Heian la Corte si servì sempre più dei governatori provinciali, i kokushi, per amministrare le terre lontane dalla capitale. Tuttavia, questi ne approfittarono per consolidare il proprio potere, dando vita a un decentramento del potere politico. In questo modo il ruolo dell’imperatore divenne con l’andar del tempo solo cerimoniale e religioso.
Nel periodo Heian, in particolare nel IX secolo, il Giappone limitò i contatti con l’esterno preferendo dedicarsi alla rielaborazione delle teorie finora giunte dal continente. Nel 838 fu mandata l’ultima missione alla Corte cinese dei Tang, ma ciò non impedirà all’aristocrazia giapponese di nutrire una forte ammirazione per la raffinata cultura cinese e la conoscenza della cultura cinese continuerà ad essere un requisito indispensabile per i maschi dell’aristocrazia di Corte. Tuttavia, durante il periodo Heian ci furono dei tentativi di nipponizzazione della cultura: infatti, si cercherà di favorire le soluzioni autoctone, prova ne è la scelta di affiancare l’alfabeto sillabico giapponese, i cosiddetti kana, alla scrittura in caratteri cinesi, kabun. Così fiorì una letteratura in lingua giapponese con generi come il monogatari (racconto), nikki (diario) e le waka (poesie in 31 sillabe), molto comuni nell’ambiente di Corte.
La nipponizzazione della cultura portò anche all’elaborazione di originali principi estetici e a maturare una forte sensibilità per lo scorrere del tempo e la bellezza della natura. Nella Corte Heian il buon gusto e la raffinatezza estetica divennero dei requisiti indispensabili, in particolare per le donne, i cui rapporti con importanti personaggi le conservavano di partecipare da dietro alle quinte a intrighi e decisioni politiche.
Nel periodo Heian pare che l’importanza delle regole dell’estetica e del buon gusto superi quella delle norme morali e civili, tanto che il mancato rispetto delle prime poteva causare una carriera politica meno brillante.
Nel periodo Heian e, successivamente, nel periodo Kamakura, si diffonderà anche un senso di ansietà legato alla consapevolezza della precarietà della vita terrena. Tale precarietà intrinseca alla bellezza è ben esemplificata dalla metafora del fior di ciliegio, tipica della letteratura Heian, per cui la massima bellezza di tali fiori coincide inevitabilmente con l’inizio del loro declino. Questo senso di evanescenza della vita, definito mujokan, è certamente legato alla filosofia buddhista e si ripercuote anche nella letteratura del periodo Heian, in particolare nel famoso Genji Monogatari.
Molti monaci buddhisti vanno in Cina, portando con sé nuovi materiali e testi. Nascono nel periodo Heian due famose scuole buddhiste che diffondono una dottrina esoterica (messaggio salvezza attraverso pratiche, studio e a cui hanno accesso solo gli aristocratici): la Tendai del monaco Saicho e la Shingon, introdotta da Kukai.
La scuola Tendai è nata nel IX secolo e si basava sulla convinzione che tutti gli uomini potessero raggiungere l’illuminazione anche attraverso altri culti, ritenuti manifestazioni del Buddha.
La Shingon era una scuola esoterica che però presentava un aspetto popolare e ricorreva a pratiche mistiche. Essa vedeva l’universo come una manifestazione del Buddha Dainichi e proponeva una meditazione basata sulla ripetizione di parole sacre, accompagnate da specifiche posizioni del corpo e delle mani.
Costruiscono i quartieri generali di queste correnti su due monti. Vengono concesse delle terre ai monasteri di queste correnti dalla famiglia imperiale. Sviluppo anche delle milizie: nascono i monaci guerrieri. Religione e affari di stato erano altamente intersecati.
Queste scuole furono costruite all’esterno di Heian, secondo la volontà del governo di tenere lontana l’interferenza del Buddhismo, ma ben presto templi privati furono costruiti anche all’interno della capitale. Altro fenomeno che si verificò nel periodo Heian è l’armamento delle istituzioni del Buddhismo: alcuni templi, infatti, si dotarono di armi e monaci guerrieri, detti shoei, che avevano il compito di assicurare la supremazia nei conflitti dottrinali e garantire il controllo delle terre.
Il Buddhismo fu anche un canale di sviluppo per l’arte e in particolare per l’architettura vennero infatti costruiti numerosi templi, anche allontanandosi dai modelli cinesi. Ci fu lo sviluppo anche di arti performative e figurative, anche basate su modelli continentali. La vera innovazione però la si ebbe con la pittura e l’introduzione dello stile yamatoe, differente dalla pittura cinese karae, utilizzato per dipingere paraventi e gli emakimono, rotoli su cui venivano rappresentati famosi racconti o scene di vita locale.
Per la poesia, il kanshi è quella in cinese, mentre il waka quella scritta in giapponese, mediante kana.
Tutte queste espressioni artistiche riguardavano solo la Corte Heian, che costituiva solo l’1% della popolazione. Diversa era la vita nelle provincie popolate da contadini, che erano lontane dai lussi e dalle raffinatezze della capitale.
Il waka presenta una suddivisione in KU: Kami no Ku, emistichio superiore, corrispondente ai primi tre versi (sillabe 5-7-5) e Shimo no Ku, emistichio inferiore, corrispondente agli ultimi due versi (7-7). Ha figure retoriche tipiche anche della nostra tradizione retorica e altre specifiche della poesia giapponese. Possiede un apparato introduttivo chiamato Kotobagaki, in prosa (un paio di frasi) che fornisce informazioni sulla poesia stessa, ad esempio: circostanze di composizioni, tema della poesia o nome dell’autore.
Il tanka è una forma di waka composta da 31 sillabe. Sillabe: 5-7-5-7-7. Chiamato Misoshitomoji.
Il chōka (“Poesia lunga”) ha un numero di versi indeterminato con alternanza 5-7-5-7… e chiusura in 5-7-7. Le poesie più recenti in questo metro sono normalmente seguite dallo hanka, che è un tanka che compendia il tema del chōka.
Il sedōka (“Poesia che torna a capo”) è un canto dialogico o recitativo tra due persone. Presenta due eue emistichi con schema 5-7-7-5-7-7. Emistichio: (nella metrica classica) ciascuna delle due parti in cui il verso viene diviso da una cesura; (nella metrica medievale e moderna) La prima o la seconda parte di un verso divisibile in due, come ad esempio l’alessandrino.
Le figure retoriche tipiche della tradizione giapponese sono :
- Jokotoba: Frase/forma introduttiva. Ci sono due tipi di Jokotoba: formula con valore semantico e formula usata per modificare il toponimo (anche senza un chiaro nesso semantico)
- Makurakotoba: parole introduttive (simili al jokotoba ma più brevi). Si tratta normalmente di un unico termine che modifica in modo formulaico una parola (epiteti stereotipati). La caratterizzazione espressiva non è necessaria per la comprensione dell’enunciato
- Kakekotoba: Parola perno, cioè una parola che assume un doppio significato, giocando su una omofonia e funge da legame
- Engo: Inserire nel componimento termini che si rimandano fra loro dal punto di vista semantico, spesso giocando con sinonimi e ambiguità.
Il waka è la forma più rappresentata all’interno del Man’yoshu. Ariwara no Narihira (825-880) è una figura appartenente all’aristocrazia di corte; protagonista di Ise Monogatari (un esempio di uta monogatari; un monogatari poetici); trenta componimenti all’interno del Kokinshu (raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne) appartengono a lui (personaggio realmente esistito); nel testo non viene mai nominato ma i componimenti gli sono attribuiti dalla tradizione.
Dopo il Man’yoshu, il waka diventa lo stile più utilizzato (le poesie più lunghe non sono più presenti come prima). Chiamato anche Yamato uta (poesia di Yamato), contrapposta implicitamente al kanshi.
Le figure retoriche ne amplificano il significato. Il waka presenta una serie di allusioni e riferimenti allusivi che trovano loro esplicitazione in forme retoriche e formali. L’unica regolarità formale nei waka è il metro; per il resto non ci sono accenti, rime, e così via (anzi vengono considerati il male della poesia; uta no yamai).
Possono esistere delle cesure/pause (kugire; di tipo sintattico, semantico o di lettura) tra un verso e l’altro; la punteggiatura, che prima non esisteva, veniva sostituita da forme sintattiche (per esempio, da predicati che indicano il fine frase). Le cesure sono queste:
- Shokugire: dopo il primo verso
- Nikugire: dopo il secondo
- Sankugire: tra il terzo e il quarto
- Shikugire: tra il quarto e il quinto
- Kugire-nashi: nessuna cesura.
La cesura orienta il ritmo del waka, in quanto può far prevalere una progressione basata su 5-7 (goshichicho), tipica delle cesure poste dopo i versi pari, o 7-5 (shichigocho), con le cesure dispari. In ogni caso, perlomeno nel waka classico, la cesura non è mai collocata all’interno dei versi, che sono quindi generalmente trattati come unità metriche non ulteriormente riducibili.
Per quanto riguarda la poesia in cinese (kanshi), ha sillabe: 5-7-5-7… Chiusura in 5-7-7. I poeti erano prevalentemente maschili. Sono versi in cinese scritti in Giappone che riprendono modelli cinesi dal punto di vista del testo, dello stile e dei temi. La più antica raccolta giapponese in cinese è il Kaifuso (751). Ci sono due personalità ricordate per la bellezza delle loro opere: Kukai e Sugawara no Michizane. Il Kaifuso precede il Man’yoshu; è la più antica raccolta di kanshi pervenutaci. Il possibile compilatore è stato Omi no Mifune. Si tratta di un centinaio di poesie raccolte in ordine cronologico; 64 autori (1-2 poesie ciascuno). In origine il numero esatto era 120 poesie, oggi ce ne rimangono 119, di cui però forse tre sono interpolazioni di epoche successive. Il manoscritto originale dell’opera è andato perduto, e le edizioni oggi esistenti derivano dalla copia che Koremune Takatoki eseguì nel II anno dell’era Chokyu (1041). Nove le edizioni manoscritte; quattro quelle a stampa, tutte risalenti al periodo Edo (1603-1867).
Fra gli autori figurano membri della famiglia imperiale, monaci, aristocratici, e così via (la scrittura del cinese era riservata alle alti classi). Lo stile ricalca quello delle Sei Dinastie cinesi (220-589) e del primo periodo Tang (618). La raccolta esprime scarsa originalità perché si ispirava alle opere cinesi. Riferimenti/ispirazione alla produzione confuciana/taoista. Un tema molto presente anche nella produzione cinese: malinconia del viaggiatore.
Due peculiarità del kanshi sono queste: la poesia cinese composta dai giapponesi presenta maggiore o minore correttezza grammaticale, tonale e prosodica a seconda degli autori (sono considerati per esempio ben riusciti i componimenti della principessa Uchiko e quelli di Kukai); relativa brevità dei componimenti, che raramente superano i cinquanta versi.
Quando noi occidentali moderni parliamo di scrittura, abbiamo in mente questo: la resa grafica mediante un alfabeto di una lingua orale, quindi la scrittura viene decodificata e letta come se si parlasse una lingua orale. Ma con il giapponese le cose stanno diversamente, e questo per svariati motivi:
- Non abbiamo un alfabeto ma una scrittura formata soprattutto da ideogrammi;
- Gli ideogrammi non nascono in Giappone ma si sono costituiti per rendere il cinese (lingua isolante), essi poi vennero adattati dai giapponesi per rendere il giapponese, che è una lingua agglutinante;
- Per quanto riguarda la fase antica e medioevale della letteratura giapponese, non sappiamo con certezza se la lingua scritta che ci rimane riprendesse la lingua orale realmente parlata allora oppure se fosse un codice linguistico a sé stante.
Se prendiamo come esempio il Kojiki, esso è scritto in una lingua denominata hentai kanbun, vale a dire una forma ibrida sino-giapponese. Questo perché a quel tempo (periodo Nara) il Giappone non aveva ancora una solida tradizione letteraria in giapponese, quindi si serviva di modelli letterari, linguistici e grafici cinesi. A maggior ragione, visto l’ibridismo del testo, non possiamo affermare con certezza se il Kojiki sia la riproduzione di una lingua effettivamente parlata.
Quindi quando parliamo di lingua giapponese antica abbiamo a che fare con questioni irrisolte, anche quella riguardante se le lingue letterarie giapponesi antiche fossero più di una.
Come osserva ancora Tollini, quando noi prendiamo il testo in prosa del Kojiki e ipotizziamo, come fanno alcuni filologi giapponesi, la sua possibile resa orale mediante argomenti di natura grafica e linguistica, stiamo facendo una ricostruzione di tipo intellettuale. Questa ricostruzione, in quanto tale, non dimostra sic et simpliciter che il Kojiki sia la resa della lingua orale. In altre parole, i giapponesi del periodo Nara decodificavano il testo in una maniera a noi non chiara.
Per quanto riguarda la lingua del Kojiki, bisogna aggiungere che esso, per altri filologici giapponesi, non esprime sempre la lingua orale. Gli studiosi portano questa prova. Nel Kojiki, che è redatto prevalentemente in prosa, ci sono anche 112 poesie giapponesi. Nel Kojiki tra la lingua giapponese della prosa e quella delle poesie vi sono differenze notevoli. Le poesie sono scritte fonologicamente e per di più mediante caratteri usati in maniera economica e razionale, quasi allo stesso modo di un alfabeto. Sono presenti nel testo un totale di 5.915 caratteri, tutti adoperati come man’yogana, caratteri cinesi usati fonologicamente e letti con la lettura on, o “alla cinese”. Con essi vengono scritte 84 sillabe delle quali bel 42, la metà, sono rappresentate al cento per cento da un solo carattere.
Questo dato filologico fa propendere alcuni studiosi a pensare che le poesie riproducano in maniera fedele una lingua di tipo orale. O per lo meno, secondo altri, che se i giapponesi del tempo avessero voluto riproporre la lingua orale, sarebbero stati in grado di farlo (anche se non si sa con certezza se lo abbiano fatto), proprio grazie al fatto che nelle poesie del Kojiki si usa una scrittura fonologica, cioè atta a riprodurre fedelmente i suoni.
Come altre popolazioni vicine alla Cina, anche i giapponesi ricevettero dal popolo cinese i primi rudimenti della scrittura, delle arti, delle scienze, della speculazione filosofica, delle esperienze religiose innovative. Probabilmente all’inizio in Giappone la scrittura cinese, giunta dalla Corea, era considerata come una delle tante arti. Solo in seguito, quando i giapponesi vennero a contatto con i classici cinesi, essi si accorsero come la scrittura potesse essere veicolo di importantissimi insegnamenti filosofici e religiosi, quindi essa divenne ben presto appannaggio delle classi dominanti, che detennero l’uso della scrittura e della lingua in maniera elitaria, per differenziarsi ancora meglio dal popolino. Dal 375 o dal 376 – quando venne introdotta in Giappone la scrittura cinese – il cinese divenne la lingua usata per gli atti ufficiali. I giapponesi mandavano in Cina ambascerie di giovani per imparare non solo la lingua ma anche il sistema politico e le altre arti. Non stupisce quindi che all’inizio la poesia della classe dominante giapponese fosse scritta in cinese (kanshi).
I giapponesi avevano acquisito una grande abilità nel cinese, prova ne sia non solo il kanshi ma anche il famoso Codice in 17 articoli di Shotoku Taishi del 604, il quale è scritto in uno stile cinese perfetto, quello allora in auge presso i Sui. A quel tempo e non solo, l’unica occupazione degli studiosi giapponesi era lo studio e la imitazione dei classici cinesi.
Le principali teorie sull’origine del giapponese sono tre.
Teoria Ainu. Difficilmente sostenibile, poiché gli ainu sono di razza caucasica e non mongolica e non sono quindi geneticamente imparentati con i giapponesi, inoltre le due lingue mostrano caratteristiche molto diverse. L’unico apporto della lingua ainu nel giapponese sembra trovarsi nella toponomastica delle regioni del nord del paese e in alcuni prestiti lessicali dovuti alla contiguità geografica delle due lingue.
Teoria Meridionale. Relaziona il giapponese alle lingue maleo-polinesiane, le quali hanno similarità non solo con il giapponese, ma anche con le lingue uralo-altaiche: essa sostiene che il giapponese sia una lingua mista in cui il lessico è particolarmente indebitato al gruppo maleo-polinesiano, mentre la sintassi e la morfologia al gruppo altaico. Vi sono due ipotesi: la prima considera il giapponese consistente di un sostrato austronesiano e un superstrato altaico, la seconda vede il giapponese come una lingua ibrida austro-altaica; tra le somiglianze di maggior spicco con le lingue di tale gruppo sono la mancanza di genere grammaticale, la polisillabicità e l’assenza di raggruppamenti consonantici a inizio e fine parola; tra le differenze: il predicato sta prima del soggetto e l’attributo è posposto. Il sostrato maleo-polinesiano sembra aver avuto le seguenti influenze sul giapponese: non distinzione tra /l/ e /r/, nessun dittongo e nessuna affricata, struttura sillabica CV o V, nessun raggruppamento consonantico o vocalico.
Teoria Settentrionale. La favorita dalla maggior parte dei linguisti, può essere divisa in tre rami:
- coreano, con cui il giapponese antico condivide la mancanza di articoli, del genere grammaticale e del plurale, del pronome relativo, il frequente uso di posposizioni, il modificatore prima del modificato e l’oggetto prima del verbo;
- cinese, le similarità con il giapponese si limitano però a prestiti lessicali, motivo per cui tale teoria non è sostenibile;
- altaico, del quale esistono importanti isoglosse nel giapponese, in particolare si rilevano evidenze nel sistema numerico, nei pronomi, negli interrogativi, nella morfologia dei verbi e degli aggettivi; tale teoria si basa sulla somiglianza fonetica, sintattica e grammaticale, nonché di posizione nella frase del giapponese con lingue come il mongolo e le lingue del ceppo turco: fonetica: parole e radici polisillabiche, assenza di raggruppamenti consonantici a inizio e fine parola, assenza a inizio parola di l e r; lessico: in comune più di 300 radici col coreano e col medio mongolo, similarità anche con l’antico turco e lingue tunguso-manciù; sintassi: completa identità della struttura SOV, prevalenza delle coordinate sulle subordinate e assenza di pronomi relativi; grammatica: formazione delle parole per agglutinazione, declinazione tramite suffissi, similarità nei pronomi e nella suffissazione; sistema verbale: alcune forme al negativo in giapponese hanno paralleli in turco, i verbi di essere hanno affinità con gli etimi altaici; accanto alle affinità nel giapponese vi sono alcune differenze come la mancanza di sillabe chiuse, la perdita dell’armonia vocalica e la mancanza di molte particelle comuni al ceppo altaico.
La teoria al momento più accreditata resta quella del giapponese come lingua ibrida, composta cioè da un sostrato austronesiano e da un superstrato altaico.
Con l’avvento del periodo Yayoi e la formazione del primo stato unitario si impose la necessità di avere una lingua di comunicazione e quella parlata nella zona di Nara divenne la lingua ufficiale, la lingua usata dai letterati e dagli uomini colti; gli unici reperti che possediamo sono scritti con un sistema di scrittura non autoctono e difficilmente adattabile al giapponese.
Dopo il VI abbiamo una maggiore documentazione: i testi autoctoni sono in kanbun (cinese classico), tranne le poesie che sono in lingua yamato; dalla fine del VII secolo abbiamo i mokkan (scritti su listelli di legno), nell’VIII secolo abbiamo testi come il Kojiki e il Nihon Shoki.
Le prime testimonianze scritte sono di tipo kinsekibun (iscrizioni su pietra e su metallo) che ci danno poche informazioni sulla lingua perché sono molto brevi; per avere testi di maggiori dimensioni bisogna arrivare al VII secolo: la lingua fino al periodo Nara compreso è detta jodai nihongo, o lingua del periodo arcaico.
Gli studiosi sono generalmente d’accordo su alcuni punti dell’antico giapponese:
- è polisillabico, con prevalenza di parole a due e una sillaba
- la sillaba ha struttura CV o V, non ci sono insiemi di consonanti o vocali
- non erano ancora presenti le affricate
- il qualificante precede sempre il qalificato
- il predicato è alla fine della frase
- non ci sono generi grammaticali, suffissi per il possessivo, ergativi, articoli o gruppi attributivi posposti
- i suffissi agglutinanti del plurale vengono usati solo per i pronomi personali, raramente per i sostantivi
- la declinazione è agglutinante, non c’è armonia vocalica ma molte radici di parole polisillabiche sono vocalizzate allo stesso modo
- la coniugazione dei verbi è agglutinante, i verbi hanno tempo e modo, ma non persona o numero ed esiste la forma cortese, verbi ed aggettivi hanno forme diverse a seconda della posizione sintattica e vengono suffissati per indicare la natura della connessione tra principale e subordinata
- le particelle seguono il nome e i verbi ausiliari il principale
- non ci sono parole che iniziano per /r/.
Tutti i reperti del periodo Nara sono scritti solo in kanji (caratteri cinesi usati nella scrittura giapponese), esistevano i seguenti buntai (forme del testo scritto):
– jun kan buntai, puro buntai cinese classico, si trova nel Kojiki (introduzione), Nihon Shoki, Kaifuso;
– hentai kan buntai, kanbun adattato alla lingua yamato, si trova nel Kojiki (testo), Izumo Fudoki;
– senmyotai, buntai a due dimensioni di caratteri, accanto ai kanji normali vi sono in basso a destra in colore diverso dei kanji in miniature per altre parti, usato nei norito e negli editti senmyo;
– manyogana buntai, buntai in puro giapponese con lessico giapponese e uso dei man’yogana, usato nel Man’yoshu.
Queste le caratteristiche più rilevanti del giapponese nel periodo Heian:
– non si usavano più le due serie di vocali, ma per il IX secolo si distinse ancora /ko-kö/ e /go-gö/, dal X secolo /e/ e /ye/ confluirono nell’ultima, dall’XI anche /o/ e /wo/ finirono nell’ultima, /i-wi/ e /we-ye/ erano mischiate a interno e fine parola;
– nel periodo tardo e finale si registra il fenomeno del tenko on a interno e fine parola, per cui ha, hi, hu, he e ho venivano pronunciate con la /w/;
– sembra che nel IX secolo n e mu venissero ancora distinte;
– nascita dello yo’on e dei conseguenti kai yo’on (suoni aperti, ossia kya kyu kyo) e go yo’on (suoni chiusi, cioè kwa kwi kwe);
– il fenomeno dell’onbin che riguarda il camniamento fonetico di alcune sillabe ad interno o fine parola, in seguito al quale si manifestarono i primi dittonghi;
– la lettura on si avvicinò al sistema fonetico giapponese;
– uso della serie /r/ a inizio parola;
– fenomeno del rensei, per cui quando una parola termina in m-n-t, e la successiva inizia per a-ya-wa si produce una sillaba unica; – la serie sa era probabilmente letta /ʃa/ e la za /ʤa/;
– nella lista dei kana esistevano anche quelli per wi e we, sia in hiragana che in katakana.
Per quanto riguarda le forme della lingua scritta nel periodo Heian, a continuazione dell’epoca precedente troviamo le forme: jun kanbuntai, hentai kanbuntai, senmyotai, katakana senmyotai e man’yogana buntai, inoltre la nuova forma wabuntai, che usa la grammatica giapponese e il lessico autoctono (in hiragana) con qualche kango, era spesso usato nella stesura di diari e romanzi da parte delle donne.
Col passare del tempo l’uso dei katakana si diffuse maggiormente, ma ancora si trovano facilmente i man’yogana.
In kanbun venivano scritti gli editti imperiali, le leggi, gli atti formali, le opere buddhiste e confuciane e le poesie in cinese; in hentai kanbun i documenti ufficiali e i diari di personaggi di corte; in wabuntai le opere letterarie a carattere raffinato e elegante; infine in zokugo (lingua volgare) le opere popolari di divulgazione buddhista.
Per quanto concerne la scrittura si tende a scrivere utilizzando lo stile corsivo a filo d’erba, o sogana, così detto per la flessuosità e la stilizzazione dei caratteri hiragana; con tale stile prende piede una scrittura continua, detta tsuzukegaki.
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Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 45 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.