L’ALTRO, IL SIMILE, IL PROSSIMO
Redazione- “ Homo homini lupus “ è una affermazione famosa che attribuisce all’uomo la natura del lupo considerato ingiustamente di indole distruttiva e crudele. Negando tutta una serie di comportamenti elaborati da questa specie,fatti anche di gesti ,atteggiamenti, vocalizzazioni di varia natura intesi per esempio a “ comunicare” la sottomissione di un contendente all’altro e impiegati per evitare inutile spargimento di sangue. Uno dei due avversare quindi, quando si accorge che la lotta è impari comunica con uno specifico linguaggio che vuole abbandonarla. Questo comportamento serve anche ad affermare o riaffermare le gerarchie sociali e quindi ristabilirle pacificamente.
“Homo homini lupus” insieme all’altra affermazione ancora più pesante dal punto di vista dei rapporti umani “ Mors tua vita mea “ in realtà si riferiscono all’istinto di sopraffazione che l’uomo ha sempre sperimentato nei confronti dei suoi simili anche quando ha cercato di porvi un freno , di adottare dei rimedi. La natura umana, bisogna riconoscerlo, per quanto ne dica il filosofo inglese Thomas Hobbes, non è fondamentalmente egoista, con l’istinto di sopravvivenza e quello di sopraffazione ad accendere conflittualità perenni secondo il “ bellum omnium contra omnes” dei latini ovvero “tutti contro tutti “. La distruttività e la conflittualità sono, nel nostro tempo il risultato di processi sociali e storici,in parte reversibili. All’interno di questa tensione l’altro, il simile e il prossimo andrebbero dunque studiati per le due facce della stessa medaglia : da una parte di comportamenti cooperativi e altruistici e dall’altra conflittuali diffusi nella nostra specie.
Cominciamo tornando indietro. Molto indietro. La nostra specie è apparsa circa 200 mila anni fa e da circa 50/60 mila anni ha lasciato il Corno d’Africa per colonizzare l’Europa e gli altri continenti. Questo risultato è stato possibile grazie alla “capacita di cooperazione” che è poi andata evolvendo. La storia di questa capacità che non è solo dell’uomo ma anche degli animali è fatta di tutte le istituzioni che l’uomo ha creato a questo proposito, di tutte le parole che il suo linguaggio ha usato e che hanno disegnato di volta in volta i contorni del suo mondo, di tutte le riflessioni che occupano pagine e pagine di scritti .Non so se alla pari con l’altra faccia della medaglia che è quella della violenza e della lotta per la sopraffazione. Di tanto in tanto questi due aspetti si incontrano per tirare le somme e capire d i che segno è il bilancio . Quante volte è positivo e quante volte è negativo in una contabilità che si riproporrà fino alla fine dei tempi .
Ma torno al nostro esempio. Fino a 10 mila anni fa era il piccolo gruppo di cacciatori/ raccoglitori con all’interno diverse unità familiari che permetteva la sopravvivenza e rappresentava anche un modello di rapporti parentali. Il gruppo assicurava a tutti i membri cibo ed assistenza potendo contare anche sulla divisione dei compiti. Gli uomini procuravano selvaggina , le donne piante selvatiche. Tutto veniva portato al campo e diviso tra i membri appunto sulla base della parentela. Il gruppo si assicurava di avere così sempre a disposizione il cibo anche quando scarseggiava. Quando invece era in eccesso per contingenze fortunate come caccia abbondante ,poiché l’uomo non era ancora capace di conservarlo veniva diviso con altri gruppi e altri membri fuori della cerchia della parentela. Questo era dunque cooperazione. Era un modo di fare , ma soprattutto di “ pensare “ che fu esteso non solo al cibo per la sopravvivenza ma anche al ciclo riproduttivo che rappresentava allo stesso modo sempre la sopravvivenza. Proprio in riferimento alla funzione della donna, ai suoi intervalli riproduttivi e alla lunga dipendenza dei dei piccoli dalla madre la cooperazione fa scattare un meccanismo di solidarietà tra le madri del gruppo che appunto adottano quello che potremo chiamare “l’allevamento cooperativo “. I piccoli venivano affidati ad una sola donna madre mentre le altre potevano dedicarsi ad altri compiti.
Uno degli studiosi più impegnati nello studio di questi comportamenti in termini di processi di evoluzione è il genetista Luca Cavalli Sforza ( 1922- 2018 ) (1) che insieme ad altri ha sfatato il motivo che addossa alla natura umana una “cattiveria “ per così dire di specie . Gli esempi di cooperazione nella storia dell’uomo, con le purtroppo costanti eccezioni sono molte. Ho voluto cominciare quasi dall’inizio , forse dal principio . Perché poi le vicende umane non si sviluppano proprio come a volte ci vengono raccontate da molti illustri storici e filosofi .Non si trova nel fondo della natura umana un fondo di egoismo e di crudeltà e anche gli istinti di sopravvivenza e di sopraffazione non sono tutti votati ad accendere quel conflitto perenne che i latini indicavano come “ bellum omnium contra omnes”, tutti contro tutti . la distruttività e la conflittualità esiste e sono frutti di processi sociali e storici e per questo non sono un risultato irreversibile. Basta intervenire su questi processi ed ecco che anche questo risultati , che riteniamo insiti nella nostra umanità, possono diventare un’altra cosa.
Il problema è semplice : i gruppi di Homo sapiens , ibridati con quelli di Neanderthal e per questo vincenti in una competizione che ha eliminato quest’ultimi potrebbe apparire come il frutto di egoismo, violenze , sopraffazioni ,appunto distruttività e conflittualità. In realtà l’evoluzione ha dimostrato l’altruismo che ha vinto la battaglia sconfiggendo l’egoismo.
L’uomo dunque all’inizio così. E il lupo? Abbiamo lasciato in sospeso una difesa del lupo che ora possiamo brevemente fare prima di inoltrarci nell’esame vero e proprio dell’altro , del simile e del prossimo che compongono il tema di questa riflessione e che stanno insieme in un percorso compensativo.
Scrive Giuseppe Rossi (2):” In natura sicuramente non c’è un animale che più del lupo abbia colpito l’immaginazione dell’uomo fin dalla più remota antichità.(…) I risultati delle ricerche scientifiche hanno ormai rivelato un profilo ben diverso rispetto a quello efferato della leggenda, senza nulla togliere al fascino che questo magnifico predatore ispira. Sappiamo che nell’ambiente svolge al meglio il suo ruolo di selettore naturale, contenendo il numero degli erbivori ed eliminando le carcasse degli animali morti per cause naturali, ha un comportamento sociale complesso e strutturato, conosce molto bene l’habitat attraverso i suoi sensi straordinari e la grande capacità di spostamento; è schivo e intelligente, quindi difficile da avvistare in natura. Fino agli anni ‘60 del secolo scorso, l’intensa e antica lotta contro i cosiddetti animali nocivi, associata alla crescente urbanizzazione e alle pesanti manomissioni degli ambienti naturali in Italia, avevano ridotto il lupo sulla soglia dell’estinzione. Negli anni ‘70 ebbe inizio la strenua opera di difesa e informazione del Parco, con l’importante apporto del WWF – come non ricordare la famosa “Operazione San Francesco” ideata e coordinata dal direttore del Parco Franco Tassi – e con l’ausilio della ricerca scientifica sul campo. “
Dice Luiigi Boitani : “l lupo è, prima di tutto, un animale sociale: la sua vita è imperniata sulla continua intera -zione con i suoi compagni di branco e un lupo solitario ha vita molto breve e avvilente. La forza del lupo, la sua resistenza e adattabilità alle più diverse condizioni ambientali nasce proprio dalla esistenza del branco che fornisce a tutti i membri del gruppo protezione, risorse e opportunità di crescita. Il branco di lupi non è, però una compagnia di amici che si ritrova arrivando da varie parti: il branco è una famiglia, costruito su una coppia di genitori e arricchito dai piccoli dell’anno e, talvolta anche da qualche giovane degli anni precedenti. Il branco di lupi, in Italia, supera di rado 6-7 individui e spesso è ridotto a 3-4 animali. Il branco occupa un territorio, un’area che difende dalle intrusioni di altri branchi e che sceglie in base alle disponibilità di risorse alimentari che può offrire ai lupi. (…)Il branco è essenziale, oltre che per la difesa del territorio, anche e soprattutto per inseguire e cacciare le grandi prede che sono l’alimento principale del lupo. Inseguire e abbattere un cervo o un cinghiale (o un alce, nei paesi del nord) non è impresa facile; il pericolo di essere travolti o colpiti da un calcio è reale e causa molti incidenti mortali ai lupi. Per questo il lupo seleziona con cura le sue prede, puntando soprattutto su animali vecchi, giovani o malati: in questo modo minimizza il pericolo di danni che potrebbero rendere il branco incapace di assicurare la necessaria alimentazione. La caccia, d’altra parte l’attività principale del lupo. ( …) l branco è essenziale anche per un altro ruolo, quello di sostentamento della cucciolata prodotta dalla femmina capofamiglia. (…)La socialità del lupo non potrebbe esprimersi senza una complessa capacità di trasmissione di informazione tra i membri del branco. l lupo comunica con i suoi compagni attraverso moltissimi segnali: posizione della coda, delle orecchie, del collo, della testa sono segnali visivi immediati. Il secreto delle ghiandole perianali che marcano le feci fornisce segnali biochimici che il finissimo olfatto del lupo riesce a captare a molti km di distanza. Guaiti, abbai, ululati sono i segnali acustici per eccellenza: l’ululato del lupo è certo il suo segnale più famoso ed è semplicemente un modo di avvertire i lupi confinanti che il padrone di casa non gradisce visite e allo stesso tempo avverte i suoi compagni della sua presenza. La comunicazione si è sviluppata proprio in sintonia con la vita di branco in cui svolge la funzione critica di mantenimento dei rapporti sociali e di informazione sulle reciproche attività. Proprio basata sulla comunicazione è la formidabile capacità del lupo di essere un animale altamente culturale: impara e trasmette agli altri membri del branco comportamenti necessari alla sopravvivenza in un particolare contesto ecologico”
La figura del lupo solitario dunque attiene più alla letteratura che alla vita reale di questa specie. Il lupo solitario è a volte il lupo anziano ,ma è anche un lupo che si allontana dal branco per costituire un suo branco. Non sono stati studiati abbastanza questi meccanismi . Resta comunque un animale cooperativo , ad organizzazione familiare, con regole e gerarchie che vengono sempre rispettate .
Al contrario dell’uomo .Che quando guarda all’altro cerca sempre l’altro che abita dentro di sé e ne fa spesso nelle psicologie relazionali ,un mito . In ognuno di noi abita un Altro, quell’Altro da noi che è dentro di noi, diceva Jung. È un Altro molto noto da secoli e millenni ai poeti, ai mistici, alla letteratura.
Ma in questo caso si parla però del “ doppio “ che per la sua duttilità e docilità lo ritroviamo in molte discipline tra le quali quella letteraria e psicologica con la capacità di scivolare impercettibilmente e in modo sottile da un settore a un altro, dalla mitologia alla psicologia, dalla letteratura al cinema. A cominciare dalle antiche tribù dove si incontrano elementi di dualità nelle credenze e nelle superstizioni .Un esempio per tutti : ne dal punto di vista mitologico, in particolare attraverso l’emblematica figura di Narciso. Una figura che ha subito una parabola di variazioni dando alla luce dissimili versioni del mito; in tal senso quest’immagine ha trovato riscontri e notorietà nelle arti figurative ed è stata oggetto di studio nell’ambito della psicoanalisi. Narciso risulta così essere determinante in quanto latore di una pluralità di immagini doppie, grazie all’estasi della visione di sé.
L’altro dunque è un topos cruciale nelle opere narrative e nella relazione terapeutica. Allo stesso modo, l’obiettivo di un riconoscimento “interpersonale” diventa imprescindibile in un’epoca dove il riconoscimento dell’altro da sé, soprattutto se visto in termini macrosociali, sembra essere diventato più complesso e disturbante. Potremo conoscere l’altro solo se riusciamo a mettere in piedi un dialogo capace di mettere assieme le prospettive letteraria, filosofica, antropologica e semiotica con quella psicoanalitica. E’ questo l’impegno che ci proietta verso il simile.
Il simile è dunque qualcosa che sta tra l’altro e il prossimo perché evoca ,riprendendo l’esempio che abbiamo fatto del mito di Narciso proprio una coincidenza . In Narciso che guarda il suo simile scatta la passione per un altro essere umano (suo simile nell’immagine riflessa ) vale a dire l’Amore. Questa passione lo prenderà a tal punto da anelare una totale congiunzione con l’immagine stessa che porterà Narciso alla morte. Narciso tenta di eliminare l’alterità della propria immagine per realizzare una totale simmetria, un tutt’UNO con la stessa.Il simile è l’eliminazione di questa alterità. Che è poi la stessa dello stadio dello specchio del bambino raccontata da Lacan . Il neonato non è autosufficiente e non riesce a stare in piedi e camminare . È la sua una condizione di frammentazione, di incompletezza che non riscontra nello sguardo di chi si prende cura di lui e tanto meno nello specchio che gli rimanda una immagine completa, totale, dunque una immagine ideale percepita come estranea: ciò che vedo allo specchio non coincide con ciò che sento di essere.
Molte volte le persone di fronte alla propria immagine si esprimono con la frase: “Non sono io “ che vuole dire “ Non sembro io”. Questa mancata coincidenza tra l’immagine speculare e il soggetto sembra dunque introdurre in maniera molto primitiva la questione dell’estraneo che pur apparendo simile è comunque diverso. Il simile è un estraneo laddove il primo estraneo con cui il soggetto viene a contatto sembra essere il soggetto stesso. Un simile estraneo . Come scrive la dott. Maria Marcella Cingolani : “Un altro Mito ci illumina ancora di più sulla questione, parlo del Mito di Caino. Caino uccidendo Abele tenta di distruggere, eliminare l’Altro Ideale , l’immagine dell’Altro dissimile, estraneo, impossibile da eguagliare, l’Altro idealizzato che si è fatto Prossimo e dunque rivale. Questo iato, questo distacco che il Soggetto percepisce tra ciò che sente di essere e l’immagine speculare idealizzata è ciò che introduce la questione dell’aggressività. La mancata coincidenza innesca nel Soggetto una sensazione di incompletezza se vogliamo costitutiva, infatti come sopra detto fin da subito quest’ultimo vive una condizione di mancanza rispetto alla propria immagine.
L’altro idealizzato si fa Prossimo.(3) E dunque siamo al termine del nostro percorso . Nell’udienza di Mercoledì 27 aprile2016 , Papa Francesco ha offerto una riflessione semplice ed esigente su una delle pagine più note del Vangelo, una vera e propria lezione di fraternità spirituale. l dottore della Legge, desideroso di vita eterna, pone a Gesù una domanda … […] molto preziosa per noi: «Chi è mio prossimo?», e sottintende: “i miei parenti? I miei connazionali? Quelli della mia religione?…”. Insomma, vuole una regola chiara che gli permetta di classificare gli altri in “prossimo” e “non-prossimo”, in quelli che possono diventare prossimi e in quelli che non possono diventare prossimi.
E Gesù risponde con una parabola, che mette in scena un sacerdote, un levita e un samaritano. I primi due sono figure legate al culto del tempio; il terzo è un ebreo scismatico, considerato come uno straniero, pagano e impuro, cioè il samaritano. Sulla strada da Gerusalemme a Gerico il sacerdote e il levita si imbattono in un uomo moribondo, che i briganti hanno assalito, derubato e abbandonato. La Legge del Signore in situazioni simili prevedeva l’obbligo di soccorrerlo, ma entrambi passano oltre senza fermarsi. Erano di fretta… Il sacerdote, forse, ha guardato l’orologio e ha detto: “Ma, arrivo tardi alla Messa… Devo dire Messa”. E l’altro ha detto: “Ma, non so se la Legge me lo permette, perché c’è il sangue lì e io sarò impuro…”. Vanno per un’altra strada e non si avvicinano. E qui la parabola ci offre un primo insegnamento: non è automatico che chi frequenta la casa di Dio e conosce la sua misericordia sappia amare il prossimo. Non è automatico! Perché in definitiva dice Papa Francesco “All’inizio della parabola per il sacerdote e il levita il prossimo era il moribondo; al termine il prossimo è il samaritano che si è fatto vicino. Gesù ribalta la prospettiva: non stare a classificare gli altri per vedere chi è prossimo e chi no. Tu puoi diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione, cioè se hai quella capacità di patire con l’altro.”
Dunque il prossimo è un termine che indica vicinanza o affinità, spaziale o temporale, a qualcuno o a qualcosa, spesso nel senso di “seguire”, “venire dopo”. In questo senso il “Prossimo” dell’Israelita storico era il “vicino”: concetto estensibile anche a chi era autorizzato a vivere nel territorio israelitico, pur non essendo seguace dell’ ebraismo né adoratore di dei pagani.
Nella teologia cristiana, il termine “Prossimo” intende invece qualsiasi essere umano, anche tradizionalmente un nemico, verso cui esprimere la caritas additata come dovere da Gesù, spiegata nel Vangelo con la parabola del buon samaritano; il prossimo è colui che nell’immediato (temporalmente né prima né poi), per incontro o per relazione, ci elargisce il suo aiuto (il Samaritano è il prossimo del suo nemico Israelitico che aveva incontrato i briganti e che malgrado l’inimicizia storica tra Israeliti e Samaritani, lo soccorre, lo cura e lo affida a un terzo, pagando le spese dello sventurato che era stato ferito).
Nei Vangeli, Dio e il Prossimo sono i destinatari del duplice comandamento dell’amore.
Ma il discorso si fa lungo e intricato e molto resterebbe da dire se non fosse che in definitiva l’altro, il simile e il prossimo forse sono la stessa cosa o per lo meno interagiscono tra loro al fine di creare una identità dell’io sulla quale possiamo continuare a riflettere. Ma tanto per rimanere nel solito modo di conoscere quello che ci circonda mi viene un dubbio : ma se l’altro non è simile, se l’altro n on è il prossimo ? Occorrerebbe ricominciare il discorso da capo . E’ quello che faremo presto. A presto dunque .
(1)Luigi Luca Cavalli Sforza L’evoluzione della cultura
David Sloam Wilson L’altruismo Bollati Boringhieri 2015
Michael Tomaselli Altruisti nati Bollati Boringhieri 2010
Silvia Bonino Altruisti per natura Laterza 2012
(2) http://www.parcoabruzzo.it/pdf/lupo.pdf
(3) Letto nella sua formulazione più estesa e secondo la traduzione corrente, il precetto del Levitico che comanda l’amore del prossimo suona in questo modo: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,18). Non pochi sono i problemi di traduzione e interpretazione del passo. Una prima, classica osservazione è che il verbo ‘ahav («amare») che in ebraico, di norma, regge (come in italiano) l’accusativo, qui comporta una costruzione con il dativo. Ciò ben si collega a una dimensione operativa. Non è comandato un sentimento (rispetto al quale sorgerebbe l’ombra del proverbiale «all’amor non si comanda»): è prescritto un comportamento positivo nei confronti dell’altra persona. In definitiva, l’inizio del verso lo si potrebbe tradurre così: «Porta amore al tuo prossimo»; vale a dire, agisci nei suoi confronti in modo da dar luogo ad atti di amore. Un secondo punto riguarda chi vada considerato come prossimo. Tuttavia qui basti porre in evidenza che il cuore della questione non è soltanto di sapere se all’origine il precetto fosse rivolto soltanto agli altri ebrei o avesse una estensione più ampia. Infatti anche quando prevale questa seconda interpretazione (fatta in genere propria dall’ebraismo più recente) si deve tener conto che colui che ordina è pur sempre il Dio d’Israele. Il verso si chiude con la decisiva clausola: «Io sono il Signore». Anche quando si estende a tutti gli uomini l’amore resta un comando legato a un Dio riconosciuto pienamente come tale solo da un determinato gruppo. Assunta in questa angolatura la logica del precetto rimane immutata pure nel Nuovo Testamento. Amare tutti, anche gli appartenenti ad altri popoli e comunità religiose, in virtù di un comando del proprio Dio, non elimina l’asimmetria tra sé e gli altri. Praticare l’amore del prossimo come precetto significa quindi tenere ben fermo il fondamento dell’ascolto obbediente. È compito dei membri delle comunità religiose che fanno proprio questo comando sia testimoniarne la specificità, sia accettare che altre persone o gruppi abbiano fondamenti differenti per agire reciprocamente in spirito amorevole. (…) «Ama il prossimo come te stesso, io sono il Signore» (Lv 19,18); «Tutto quanto volete che facciano a voi, anche voi fatelo loro: questa è infatti la Legge e i Profeti» (Mt 7,12)», «Non fare agli altri quel che non vorresti che gli altri facciano a te». Questi tre detti potrebbero rispettivamente essere assunti come emblema del precetto, del comandamento e della regola.
https://www.fondazionesancarlo.it/conferenza/il-prossimo-nella-tradizione-biblica/