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” LA NOVELLA DEL GRASSO LEGNAIUOLO ” – FAUSTO MARCONE

QUADERNO Note e appunti, diurni e notturni di Fausto Marcone

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Redazione- È una brutta vicenda, notissima, passata come La novella del Grasso legnaiuolo, ove per noi novella è ormai letteratura, mentre per i fiorentini del ‘400/’500 era letteratura sì, ma poteva essere anche storia vera, fatto, quasi cronaca. Questa è una beffa, un inganno potente, diverso però da quelli raccontati nel Decamerone, perché non è un Buffalmacco che la ordisce.

Accade dunque in Firenze, nel secondo o terzo decennio del Quattrocento, in una città che è una delle potenze politiche del tempo, ricchissima di intelligenze, di iniziative, progetti, fabbriche, di vivacità sociale e naturalmente di contese, rivalità, e liti, che non sono mai mancate, lì e altrove.

La raccontano dei quasi contemporanei: Antonio Manetti, Bernardo Giambullari, Bartolomeo Davanzati, ne esistono due codici noti, il Palatino 51 e il Palatino 200, ma il fatto deve aver avuto altre trascrizioni e sicuramente era argomento di diffusa narrazione orale. E fortuna l’ha avuto anche nella critica e nella filologia dei secoli successivi, così mi pare di capire dal libro che ho avuto fra le mani, curato da S.S. Nigro e S. Grassia, edito nei tipi della BUR Classici, abbastanza recente perché è del 2015. Quella di Manetti è la narrazione più cospicua che ha finito per essere traditio maior e Manetti poi è stato biografo di Filippo Brunelleschi, secondo alcuni apologetico e non del tutto attendibile. La fortuna di questa beffa è legata al fascino della sua arditezza, che sembra essere una sfida all’impossibile, impossibile soprattutto per i tempi, visto che siamo solo all’inizio del Quattrocento.

Non ho nessuna pretesa critica o filologica, faccio solo delle considerazioni, riflessioni marginali, così come subito mi sono venute alla lettura notturna, che è sempre foriera di pensieri che si allontanano dalle parole della pagina, sebbene da esse provocati, e che entrano in stravaganti territori limitrofi.

Qual è la vicenda? C’è una compagnia che ogni tanto si riunisce insieme a cenare, la convivialità è sempre relazione, parola, sentimento, spesso un bisogno. Di questa compagnia fanno parte alcuni valenti cittadini, fiorentini, intellettuali, artisti, e tra essi v’è un legnaiuolo, che sta per falegname, ma egli è più che falegname, è artigiano che conosce, sa trattare e lavorare la materia del legno e opera di intarsi, che non è poco. Non è poco, se è vero che gli intarsi hanno costituito una sorta di anticamera della prospettiva pittorica. Fa di nome Manetto, è di robusta costituzione ragion per cui lo chiamano el Grasso, ma soprattutto è un «sempriciotto», cioè un bonaccione diremo oggi. Ora il Grasso non si presenta ad alcune cene, gli altri dicono per avarizia e se ne sentono adontati e può darsi che sia vera questa dell’avarizia, non nuota nell’agio, vive del suo lavoro. Non possono accusarlo di superbia o di sdegno nei loro confronti, perché non ne proprio è capace. Sono veramente offesi? Non sembra dalla chiacchiera iniziale. Cominciano però a dirsi come regolare questa che a loro pare insolenza, il mormorio del giudizio e della proposta, ma in un attimo la chiacchiera di risentimento quasi divertito prende una piega inaspettata, qualcuno dice che sa cosa si deve fare e come e il castigo, come si legge lungo tutta la novella, sarà duro, avrà un aspetto di crudeltà intelligente, superiore, che è poi l’anima della vicenda: bisogna fargli credere di essere un altro e farglielo credere con un concerto di azioni. L’idea poggia fondamentalmente sul fatto che Manetto è davvero un semplicione, un cristiano dabbene che non ha soverchi pensieri e su questo si può far breccia. Tutti accettano di partecipare all’inganno.

Chi è che propone la pena e l’azione per realizzarla? Non si tratta di uno qualunque. È Filippo Brunelleschi e sarà lui a tenere le fila della beffa.

Che sentimenti dovevano serpeggiare in quella città e in quel tempo per arrivare a pensare un piano simile? Ma soprattutto qual è la mente che lo immagina e lo realizza?

Brunelleschi. Filippo di ser Brunellesco. Una mente superiore. Quel che ha fatto costui sta nell’ordine dei miracoli, delle cose che si possono pensare, ma non realizzare e però lui le realizza, poiché è capace di pensarle e di realizzarle. La Cupola sta lì , a farlo ben vedere a tutti. E non solo la Cupola.

Vi sono andato quattro volte dentro e sempre sono stato afferrato dallo stupore che in certi momenti si trasformava in sgomento, ho toccato le pietre, i blocchi, ho respirato con la loro profondità e il loro colore, ho misurato il mio corpo in quello spazio e in quelle curve sopra di me. Quella mente prima si disegna, poi fabbrica una curva di realtà attorno all’uomo, ma per far ciò deve già vivere nella curva, prima nella curva matematica, euclidea, modello, poi nella curva delle pietre, del tufo e dei mattoni, che son fatti quadrati per ottenervi una curva, e nella curva delle giornate di sua fatica e dei suoi operai. La curva che guida e tiene la massa. Oggi sappiamo parecchio sui materiali, la loro resistenza, fisica e chimica, allora molto meno. 43 metri l’altezza delle pareti della chiesa più 9 metri di tamburo e su questo i 44 metri della cupola, non sferica, ma ogivale su base ottagonale a quinto di sesto acuto. È stata nutrita e allevata nel suo cervello e poi realizzata a suon di disegni, di discussioni fatte disegnando per mostrare e dimostrare, di un argano e di una gru usciti anch’essi dal suo cervello, e poi di fatiche e di imprecazioni. Anzi le Cupole, due, una dentro l’altra, quinto di sesto acuto e quarto di sesto acuto. La volta interna l’hanno fatta dipingere da Vasari, ma quello avrebbe dovuto essere affare di altri, dovevano chiamare Signorelli.

La Cupola è fatta di materie, è materia, ma è stata insieme un processo, un farsi, e il processo chiede energia. Bisognerebbe pensare a Brunelleschi come a un’energia, che per tutta la prima metà del Quattrocento si sprigiona in Firenze, insieme ad altre energie. Cosa non fu? Orafo, e quando si dice orafo non si deve pensare ai ninnoletti di oggi, questi piegavano e modellavano quintali di bronzo, orologiaio, scenografo, architetto, scultore, pittore, l’inventore della prospettiva, punta di diamante di quella civiltà. Energia, che sapeva fare anche sonetti, non solo la magnificenza della materia. Chiederemmo oggi a un pittore quotato di scrivere una poesia? Mah!

Si è acconciato alla curva, perché sa che la realtà è curva, il cielo è curvo, ma nella mente porta anche la linea retta. È la sua lotta interiore e cerca occasione per usarla, gli serve per la prospettiva e la utilizza nella finzione. Ecco, la finzione. La finzione col Grasso legnaiuolo, ma già prima o dopo con il Ghiberti, con il quale era in concorrenza, fingendosi malato per metterlo in difficoltà con gli operai della Cupola ed emarginarlo, così racconta Manetti. Ora arma una finzione con questo pover’uomo, con il quale però non ha nessuna rivalità. È come se avesse bisogno insieme alla costruzione della realtà, forza e simbolo (la Cupola ma viene in mente anche il Crocifisso di S. Maria Novella), di lacerarla: la verità della finzione al fine della verità della realtà.

È lui che pensa la beffa e la fa portare a compimento. È il deuteragonista della storia, ma nel mio rimuginio notturno è lui che mi appare come vero protagonista.

L’inganno va a buon fine, ci si mette anche il caso a dare man forte, perché infine, se la riuscita di qualcosa poggia sulla completezza delle previsioni, che però non potranno mai essere complete (non lo è nemmeno la matematica, che pure è intero nostro prodotto mentale), nei casi umani ci vuole anche il favore del caso, dell’im-prevedibile. Collaborano anche ignari personaggi, un giudice che al Grasso, fatto passare per un tal Matteo debitore e rinchiuso in carcere, conta illustri storie letterarie di metamorfosi e cambiamenti di personalità, un prete che aizzato da uno dei sedicenti fratelli, questi sì pervicaci collaboratori, del tal presunto Matteo cerca con carità cristiana di convincere il Grasso che egli è veramente il Matteo su cui pur continua ad avere dubbi. C’è un’ombra, che nel racconto appare quasi di sfuggita, che come un orologiaio al momento opportuno controlla e rimette a punto la macchina dell’inganno, ma io credo che nell’affare sia il vero aiuto regista. È Donatello, altra grande presenza di quella eccezionale civiltà e altro «terribile». L’idea del terribile dice bene il territorio dell’inconcepibile e dell’inattuabile in cui vivono, precluso a noi uomini comuni. Vasari parla di «smisurata terribilità» che non dà «requie alla vita loro».

Con le parole del prete, Manetto, ovvero il Grasso legnaiuolo, entra in completa confusione, non sa più chi lui sia. E questo è l’altro punto della storia: la forza pressoria degli altri. Se tutti dicono che tu sei questo e non quest’altro, che potere hai di opporti, di svincolarti da ciò?

La vicenda appare incredibile: come posso dubitare su chi io sono? Io sono ontologicamente io, con la mia propriocettività, col mio passato e i miei affari del presente. D’accordo. Immaginate però di essere davanti la porta di casa che non riuscite ad aprire e una voce di dentro, la vostra voce, vi chiama con un altro nome, vi cita fatti che solo voi conoscete. Vi si saluta per strada chiamandovi con l’altro nome, vi sottraggono e sostituiscono i documenti -è così difficile oggi?- , vi cambiano i ricordi parlandovi con la più dolce persuasione. Non avreste pensieri di inquietudine, non pensereste a un brutto sogno? È ciò che pensa appunto il Grasso e ciò che gli faranno credere. Certo la prima condizione è che siate persona e personalità di pasta buona, un po’ ingenua e incapace abitudinariamente di reazioni forti e avventate, ma la cosa sarebbe ben possibile anche oggi, con un’orchestrazione ugualmente raffinata, con un uguale concorso di parti pubbliche, figure istituzionali ben istruite, e parti comuni, persone vicine e insospettabili e parimenti istruite all’uopo. Come allora.

Se lo spazio circostante è una creazione, un’estensione cutanea, qualora questo spazio e gli oggetti e le persone di esso dovessero cambiar di significato, cambierebbe anche la percezione della nostra superficie cutanea e in dubbio verrebbe messo tutto l’agire intenzionale precedente con conseguenze sull’idea che si ha di sé.

La modernità spericolata di una pensata simile – tu non sei quel che sei, che nella mente del Grasso si traduce nell’afflizione di io non sono quel che sono– dovrà aspettare qualche secolo prima che venga ripresa ne Gli elisir del diavolo di E.T.A. Hoffmann o in L. Stevenson, che sebbene idee, tuttavia rimangono finzione letteraria, mentre Brunelleschi opera, scombina e ricombina la realtà.

Davanti questo racconto, m’è venuto di pensare, possiamo essere lettori e sorridiamo dei fatti, si può essere letterati o critici e sorridiamo meno in cerca del montaggio, possiamo essere spettatori, come tutti oggi siamo diventati, e assistiamo alla storia come ad un film che finiamo per classificare nel genere della commedia. Mi sono detto però : proviamo ad esserne attori, a metterci nei panni di Manetto e nei panni di Filippo Brunelleschi. Facile con Manetto, vive nella realtà comune dei piccoli uomini, appunto non si dà eccessivi pensieri, gli basta l’arte sua di piallare e acconciare il legno, è facile mettersi nei suoi panni, anche nei momenti più angosciosi che ha avuto. Impossibile con Brunelleschi. La realtà la fa, la immagina, la volge, la piega, la trasforma, la duplica. È avanti, è sopra, sa molto prima e ben più. O la cosa la fai come dice lui, ed è già arduo capire, o ti butta via ciò che gli presenti.

Il racconto ci restituisce la fotografia e l’essere preciso di un uomo e l’incerto invece su un altro. Il Grasso vien fuori così com’è, non perché se ne parla e lo si descrive minutamente nei suoi pensieri, a rappresentarcelo sarebbero bastate le due righe di presentazione iniziali, che ci dicono perfettamente chi è. Brunelleschi rimane inafferrabile e indecifrabile, è la difficoltà a parlare degli uomini superiori che sfuggono sempre. La terribilità di Vasari, e non è malvagia questa idea del terribile negli uomini di genio, devono svolgere la loro vita mentale in una dimensione terribile, altrimenti non riuscirebbero a fare quel che fanno.

Ultimo pensiero: l’inganno è stato reso possibile dalla parola, dalle parole di Brunelleschi e di tutti quelli che concorrono, anche degli ignari. Tutte le beffe si reggono sulle parole, hanno bisogno di un sostrato velenoso di parole. Mi sono chiesto però se tutte le lingue e i dialetti hanno un’uguale capacità, se abbiano gli stessi cromosomi della beffa. Il toscano mi pare di sì, almeno stando ai documenti che ci sono arrivati.

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