” SULLA TRADUZIONE E LA LETTERATURA GIAPPONESE ” DOTT.RE MARCO CALZOLI
Redazione- Jiří Levý (1926-1967) è stato un teorico della letteratura ceca, storico della letteratura e teorico della traduzione. Il lavoro di Levý è stato cruciale per lo sviluppo della teoria della traduzione in Cecoslovacchia. Molto famoso per il saggio La traduzione come processo decisionale, pubblicato nel 1967, è un contributo in onore del settantesimo compleanno di Roman Jakobson. Analizzando il titolo, possiamo focalizzare l’attenzione su due termini-chiave ovvero TRADUZIONE e PROCESSO DECISIONALE:
• da un punto di vista teleologico, la traduzione è UN PROCESSO DI COMUNICAZIONE, in quanto l’obiettivo del traduttore è quello di comunicare la conoscenza dell’originale al lettore straniero;
• da un punto di vista pratico del traduttore, l’attività del tradurre è UN PROCESSO DECISIONALE: la traduzione è considerata un insieme di mosse in un gioco, ossia situazioni consecutive che costringono il traduttore a scegliere tra un certo numero, solitamente ben definibile, di alternative. Considerando, per esempio, la scelta del traducente di una singola parola del prototesto, il traduttore presumibilmente passa in rassegna i traducenti possibili prima di decidere per quale soluzione propendere.
In matematica esiste una teoria, detta Teoria dei Giochi, che rientra in tale disciplina perché prevede la formalizzazione dei passaggi logici che avvengono durante il gioco. A seconda che i giochi prevedano determinati tipi di informazione (perfetta/imperfetta, completa/incompleta) sono classificati dal punto di vista logico.
Fino al 1967 a nessuno era venuto in mente che questo ramo della matematica e della logica potesse avere qualcosa a che vedere con la scienza della traduzione. Per questi motivi, dal punto di vista della teoria matematica dei giochi, la traduzione è un gioco a informazione completa: «ogni mossa successiva è influenzata dalla conoscenza delle decisioni precedenti e dalla situazione che ne è derivata». Per fare qualche esempio più concreto, la traduzione assomiglia a una partita a scacchi, non a una partita a carte: il traduttore dispone di alcune informazioni (testo di partenza) dalle quali deriva necessariamente la resa traduttiva (testo di arrivo).
Anche Il Dilemma del Prigioniero rappresenta una famosa formulazione della Teoria dei Giochi, nata in ambito economico ma applicata in diverse scienze sociali per spiegare l’insorgenza naturale di comportamenti collaborativi anche in situazioni tendenzialmente non cooperative.
Una possibile formulazione del Dilemma del Prigioniero è la seguente: Due criminali, complici di un medesimo reato, vengono catturati, ma la polizia non dispone di tutti gli elementi per incriminarli, quindi ha bisogno di una confessione da entrambi, in cambio di una promessa di clemenza nel caso in cui i due decidano di collaborare con la giustizia. I due criminali vengono collocati in due celle separate per essere interrogati. I due criminali non hanno avuto il tempo per accordarsi e ora si trovano a due possibili strategie di comportamento: fare la spia, ovvero tradire il proprio complice; oppure scegliere di tacere e adottare la strategia di omertà. Gli esiti possibili a seguito delle differenti combinazioni di strategie adottate dai due criminali nei rispettivi interrogatori sono i seguenti:
1. entrambi decidono di non tradire il proprio complice, dunque di tacere: in tal caso otterranno entrambi una pena simbolica (1 anno di carcere a testa);
2. entrambi decidono di tradire il proprio complice, dunque di accusarsi a vicenda: in tal caso ottengono entrambi una pena significativa (6 anni di reclusione);
3. se soltanto uno dei due tradisce e l’altro invece tace, il primo verrà scarcerato e il secondo otterrà il massimo della pena (10 anni di reclusione).
Il Dilemma del Prigioniero, dunque, mette in risalto il conflitto tra razionalità individuale, nel senso di massimizzazione dell’interesse personale, ed efficienza, ovvero miglior risultato possibile, sia individuale che collettivo. Applicando una strategia individualistica, infatti, si ottiene un esito inferiore rispetto a quanto ottenibile nel caso in cui si possa raggiungere un accordo negoziale, oppure nel caso in cui ci si possa fidare dell’altro. Quindi volendolo applicare alla traduzione, si tende a massimizzare le scelte. Tendenzialmente l’idea è quella di scegliere soluzioni che massimizzano il risultato in qualche maniera. Il traduttore sceglie quella soluzione che in qualche modo è più accettata da parte del lettore, dalla platea dei suoi lettori. L’esempio che lo studioso fa in questo suo saggio si riferisce ad un titolo, quello di Bertolt Brecht: Der Gute Mensch von Sezuan (L’anima buona del Sezuan). Allora, sapendo che i titoli creano problemi, questo titolo ne crea uno particolare che riguarda in particolare la parola Mensch in italiano. Perché il concetto di Mensch implica l’essere umano in generale. Quali sono le soluzioni che sono state trovate in inglese?
Allora in italiano I traduttori hanno scelto “anima” come possibilità, tradendo il concetto di Mensch: in realtà, esso è un concetto asessuato che non è riferibile ad un genere specifico. Infatti la protagonista dell’opera è una donna. Il traduttore è andato a vedere chi era la protagonista. Ed è quello che lo studioso dice nel saggio, ovvero che la traduzione è un processo di problem solving. In inglese, ad esempio, Mensch può essere tradotto sia con Man che con Woman e questa decisione deve essere presa, come dire, in base a delle motivazioni. In questo caso la motivazione è che si tratta di una donna, una protagonista femminile. E quindi ci sono una serie di componenti del processo decisionale. In primis la SITUAZIONE: è cioè che in inglese non c’è un termine equivalente di Mensch e quindi dobbiamo trovare una soluzione. Poi a seguito della situazione abbiamo un’ISTRUZIONE, detta “definitoria” o “istruzione 1”: i traduttori devono trovare le possibili alternative a questo concetto di Mensch. Poi a questa prima istruzione, corrispondono una serie di soluzione concrete. E noi abbiamo un paradigma con due possibili soluzioni: man e woman. Il traduttore deve scegliere tra queste due e sceglie Woman che è definita da Levý come “istruzione 2” o “selettiva”. Ora questa scelta che si deve fare in realtà non si ferma lì. Perché l’istruzione selettiva (scelta tra 2 alternative) diventa a sua volta un’istruzione definitoria (classe di possibili alternative). Perché quando abbiamo deciso che si tratta di una donna, tutte le decisioni successive che il traduttore deve prendere possono riguardare gli aggettivi che devono essere in italiano assoldati al femminile, così i pronomi, i possessivi ecc. Ogni scelta selettiva diventa a sua volta definitoria perché ogni scelta va ad intaccare quella successiva. Quindi i risultati dei diversi giochi sono le varianti di traduzioni.
Quello che Levý vuole dire con questo caso di studio dell’opera di Brecht è che ci sono una serie di componenti che il traduttore deve prendere in considerazione nel momento in cui procede con la traduzione. Queste componenti sono: la situazione, cioè che non esiste in inglese il corrispettivo della parola Mensch; l’istruzione 1 o istruzione definitoria, che definisce le possibili alternative e in questo caso dice che la classe è quella di Homo Sapiens in generale; segue il paradigma che contiene le effettive soluzioni possibili di Man e Woman; infine l’ultimo elemento di questo processo è l’istruzione 2 o istruzione selettiva che corrisponde alla scelta del traduttore, ovvero Woman.
Tendenzialmente il traduttore sceglie di giocare uno dei vari possibili giochi che può mettere sul tavolo scegliendo una possibilità rispetto ad un’altra. Chiaramente i risultati dei diversi giochi sono le possibili interpretazioni e varianti di traduzione.
In base alle soluzioni che prende il traduttore si può riconosce il modello che egli utilizza, infatti Levý parla di Recognascative Model e l’esempio che fa qui riguarda la soluzione che si ha in una traduzione russa della frase His Lordship jumps into a cab, and goes to the railroad. In russo viene tradotto in modo tale che letteralmente dovrebbe essere “Sua Eccellenza salta in carrozza e si fa portare alla ferrovia” dove non è possibile in russo usare un corrispondente di to go, ma si deve trovare una soluzione, in quanto non esiste un verbo così generale, ma c’è una maggiore segmentazione semantica rispetto all’inglese, per cui il traduttore deve prendere una decisione tra le varie possibili soluzioni proposte dal russo e, a questo punto, sceglie come alternativa il “si fa portare”.
A proposito delle decisioni che deve prendere un traduttore, anche in questo caso di studio Levý fa una serie di osservazioni interessanti ovvero che ci sono varie tipologie di decisioni che può prendere un traduttore: le decisioni necessarie e quelle motivate, e il loro contrario: decisioni non necessarie e non motivate.
• Decisioni necessarie: se compiute sulla base di esigenze contestuali (di carattere sia linguistico sia culturale)
• Decisioni motivate: se la lingua di arrivo non dispone di determinate categorie (grammaticali o sintattiche o semantiche o culturali) di cui invece dispone la lingua di partenza.
Ovviamente le decisioni migliori sono quelle necessarie e motivate, le decisioni necessarie sono, quindi, quelle determinate dalla lingua di arrivo, dal contesto linguistico e culturale, l’esempio è l’uso del passivo in inglese, che non c’è in Italiano, come this bed was slept in, in italiano non possiamo dire “il letto fu dormito in”. In questo caso come traduttori dobbiamo prendere una decisione motivata e cambiare il passivo, non usandolo e preferendo una forma impersonale come “si è dormito in questo letto” e questa è una decisione necessaria per motivi linguistici, ma anche per motivi culturali ci può essere un aspetto culturale che nel trasporre nella lingua di arrivo dobbiamo trasporre necessariamente altrimenti non sarebbe comprensibile.
Dalla combinazione di queste due tipologie di decisioni e del loro contrario possiamo avere: decisioni motivate e necessarie, decisioni immotivate e necessarie, decisioni motivate e non necessarie, e decisioni immotivate e non necessarie (che significa che è una decisione totalmente arbitraria ed è quella da escludere a priori).
Un altro aspetto interessante che Levý osserva è che i modelli di istruzioni e di paradigmi dipendono dai modelli strutturali delle lingue, come il verbo to go dell’inglese ha un campo semantico molto ampio che corrisponde a una serie di possibili soluzioni in russo che sono, invece, molto più specifiche rispetto all’inglese. In questo caso Levý parla di maggiore dispersione delle varianti di traduzione e fa l’esempio dall’inglese to make, che può essere tradotto con altre possibilità, oltre a fare, per esempio anche produrre, creare, e così via. Quindi da una forma generica si deve scegliere una forma più specifica. Possono esserci traduzioni divergenti in cui c’è una maggiore dispersione, dal generico al particolare, oppure convergenti con una minore dispersione da un concetto particolare ad uno più generale. Tutto ciò comporta, chiaramente, dei problemi di traduzione perché, come per il russo, bisogna decidere quale forma specifica utilizzare eventualmente, probabilmente quello che pone meno problemi è un caso di dispersione convergente.
Tutti questi problemi si amplificano se la lingua di partenza non è della stessa famiglia linguistica della lingua di arrivo. Tradurre dal giapponese all’italiano è come il retro di un arazzo, che perde la brillantezza dei colori della figura rappresentata. Per di più il giapponese complica maggiormente le cose, perché per i più si tratterebbe di una lingua isolata, cioè con caratteristiche talmente peculiari da non avvicinarla a nessun altra di quelle conosciute, come succede con il sumerico, l’etrusco, il basco e per alcuni l’egiziano antico.
La letteratura giapponese viene periodizzata in questa maniera:
• Jōday (periodo arcaico): dalle origini al 794 d.C.;
• Chūko (periodo classico): 794-1192;
• Chūsei (periodo medioevale): 1192-1603;
• Kinsei (periodo protomoderno): 1603-1868;
• Kindai-Gendai (periodo moderno-contemporaneo): 1868-oggi.
Invece la storia politica giapponese viene di solito tracciata così:
• Periodo Nara: 710 d.C.-794;
• Periodo Heian: 794-1185;
• Periodo Kamakura: 1185-1333;
• Periodo Muromachi: 1336-1573;
• Periodo Azuchi-Momoyama: 1568-1603;
• Periodo Edo: 1603-1868;
• Periodo Meiji: 1868-1912;
• Periodo Taishō: 1912-1926;
• Periodo Shōwa: 1926-1989;
• Periodo Heisei: 1989-.
La letteratura giapponese classica viene fatta coincidere con il Periodo Heian. Questo periodo classico della letteratura giapponese vede una tensione profondissima verso la assimilazione dei modelli cinesi. Essi furono elaborati in Cina nel Periodo Tang (600-900 d.C), durante il quale la Cina iniziò ad esportarli al di fuori del proprio territorio.
Bisogna dire che il Giappone acquisisce una realtà statuale ben definita solamente nel VII secolo (con la Riforma Taika del 645). Invece la Cina vantava una storia ormai millenaria, che essa consolidò nel Periodo Tang come base della propria identità presente e futura.
Certamente ciò che il Giappone fu nell’epoca classica della propria storia (e in seguito) non dipese solamente dalla Cina. Anche dopo il contatto con la civiltà cinese il Giappone conserverà una peculiare concezione in merito alla sacralità del sovrano, lo sviluppo di un particolare sistema di controllo delle risorse fondiarie (shōen), l’ascesa politica di una classe militare che conia codici etici e comportamentali propri (bushidō).
I giapponesi acquisirono la scrittura dalla Cina a partire dal V-VI secolo d.C. e da allora procedettero lungo un doppio binario: da una parte una produzione in cinese (nelle lingue sinitiche da essa dipendenti) tipica dei letterati (nella quale erano scritti i documenti ufficiali, le cronache, la saggistica, la poesia ufficiale, i trattati), dall’altra la letteratura nativa in giapponese (poesie private e scrittura femminile).
Gli uomini usavano il cinese come lingua della burocrazia e degli affari, le donne invece, essendo escluse dal potere, non avevano la necessità di imparare il cinese (tranne alcune eccezioni di donne particolarmente colte), quindi usavano il giapponese.
La poesia in cinese o simil-cinese (detta kanshi) godette di prestigio precoce e duraturo, in quanto espressione delle classi più alte della società. Invece la poesia in giapponese era detta waka: questa raggiunse solo più tardi la sua piena legittimità, solo dal Periodo Heian condivise con il kanshi la posizione di genere sommo della poesia del Giappone. La parola waka è formata dalle letture sino-giapponesi Wa e Ka dei caratteri cinesi per Yamato, con cui era indicata la regione culla del Giappone, e per Uta, “canto, canzone”. Quindi il waka è la poesia di Yamato, la poesia nella sua lingua autoctona, il giapponese.
Una produzione di poesia in giapponese esisteva ben prima della introduzione in Giappone della scrittura cinese. Eccone in sommi capi la storia:
• Le poesie giapponesi più antiche sono considerate quelle che compaiono in opere parastoriografiche redatte nel Periodo Nara: il Kojiki (Cronaca di antichi eventi, 712) e il Nihonshoki (Annali del Giappone, 720). Queste poesie sono chiamate kiki kayō e in tutto sono circa 190 esemplari.
• Un’analoga operazione di sedimentazione di poesie orali si ha nei coevi fudoki, rapporti territoriali sulle province, ordinati dalla corte nel 713.
• Anche i libri più antichi del Man’yōshū (Raccolta delle diecimila foglie, antologia completata dopo il 759, il primo grande monumento poetico in giapponese) contengono poesie attribuite a personaggi del passato nonché componimenti anonimi di sapore popolare e rurale.
Il testo giapponese più antico di narrativa è il Kojiki. Questo raccolta parastoriografica fu messa per iscritto quando venne fondata la città di Nara. Prima di Heijōkyō (l’attuale Nara) il Giappone non aveva una capitale: quando un sovrano moriva il suo palazzo veniva raso al suolo in quanto segnato dalla impurità della morte e il sovrano successivo si sceglieva un altro luogo. Invece con Nara il paese trovava definitivamente il suo centro: la città comunicava il messaggio di un nuovo grande inizio. Però Nara fu capitale del Giappone solo dal 710 al 794. Nondimeno il disegno di una capitale stabile si era definitivamente concretizzato e fu ripreso quando venne costruita Heiankyō (l’attuale Kyōto), destinata ad essere la capitale per undici secoli, fino al 1868, quando subentrò Tōkyō, segno di un’altra svolta epocale, l’apertura del Giappone all’Occidente. Ma la costruzione di Nara e la concomitante messa per iscritto delle cronache del Giappone fu un qualcosa che noi occidentali del XXI secolo non possiamo del tutto capire. Come la nuova capitale voleva riorganizzare lo spazio, così la narrativa voleva riorganizzare il tempo. Controllare la forza della parola scritta (narrazione storica con qualche poesia) contro la tradizione orale significava avere il potere sulla storia. Raveri: “Scrivere permetteva di rielaborare selettivamente il passato, di fissare la memoria di certi eventi e renderli paradigmatici – come anche di negarli e sancirne l’oblio – per costruire il senso di una identità nuova per il futuro”.
Il Kojiki è l’opera giapponese più antica che esista. Nella prima parte troviamo molte informazioni sulla mitologia. Diventa il testo fondamentale dello shintoismo. Poiché tutto nasce dal bisogno di legittimare il potere di Yamato si finisce per dire che in realtà l’imperatore aveva discendenza diretta dalla dea del Sole Amaterasu. Fino al 1946 i giapponesi hanno voluto credere, che effettivamente l’imperatore fosse una persona sacra perché discendeva da Amaterasu. Nel 710 i giapponesi parlavano ma non scrivevano, non sentivano l’esigenza di scrivere la propria lingua, perché tutti gli atti che erano redatti (per esigenza) erano politici e venivano scritti in cinese. Quando si è sentita l’esigenza di scrivere un testo che legittimasse un potere prettamente giapponese il cinese non viene reputata più una lingua adatta a questo scopo, sarebbe stato un controsenso perché si stava formando un nuovo stato ed esprimerlo in una lingua non propria sarebbe stato un segno di debolezza. Il compilatore Ō no Yasumaru scrive l’introduzione dell’opera in cinese, dando anche l’informazione su come si è regolato nell’uso delle lingue. Egli adatta la lingua giapponese alla scrittura cinese. Gli ideogrammi cinesi venivano usati soltanto per il valore semantico, ma alcuni invece vengono usati solo in senso fonetico, per cercare di avvicinarsi il più possibile a parole “giapponesi”. Gli ideogrammi cinesi venivano usati solo per il loro valore fonetico nelle 112 poesie giapponesi contenute nel Kojiki. Motoori Norinaga (1730 – 1801), in 35 anni di lavoro completerà il Kojikiden, un lavoro decodificatore del Kojiki per far capire il contenuto e quello che c’è scritto nel Kojiki (sosteneva che tutto quello che c’era scritto nel Kojiki era una verità scritta).
Le fonti del Kojiki sono:
• Cronache imperiali (teiki)
• Detti fondamentali (honji)
• Cronache scritte nel 620 da Shōtoku Taishi.
Nel Kojiki è raccontata la storia delle divinità e dell’umanità. Izanami e Izanagi sono le due divinità che hanno dato origine alle isole del Giappone e alle altre divinità. Si possono ritrovare anche nel simbolo dello Ying-Yang, come due persone che si rincorrono. La donna, Izanami, invita l’uomo, Izanagi, ad accoppiarsi, però non nasce la prole, invece quando è l’uomo a proporlo alla donna, nascono tantissime divinità e si popolano le terre. Izanami muore dando alla luce il dio del fuoco, allora Izanagi va a recuperarla nel regno dei morti, dove ritrova la sua amata che lo obbliga a non guardarla, altrimenti sarebbe stata per sempre lì. Lui però la guarda e vede il suo corpo decomposto e pieno di vermi. Allora lei si sente offesa e parte un inseguimento, nel quale lei scaglia contro di lui bestie feroci e Izanagi si difende lanciando frutta. Fortunatamente, Izanagi riesce a scappare e a tornare nel regno dei vivi e, durante un rito di purificazione, perché reso immondo dall’esperienza nell’oltretomba, nascono gli altri dei dallo sporco da lui rimosso. Prima fra tutti, è la dea Amaterasu (“ama” con kanji di cielo e con kanji di vuoto; cielo è inteso come residenza delle divinità, e non è uno spazio vuoto; “terasu” è il verbo illuminare). Letteralmente, è la grande nobile dea che fa risplendere il cielo, o Ōmikami. Nascono altre divinità di cui Tsukuyomi (protettrice della notte e del buio) e Susanō. Quest’ultimo, dato che non gradisce di essere relegato come protettore dei frutti marini, fa guerre nel regno cielo, dove regnava Amaterasu. Per fare pace il dio e Amaterasu procreano dei figli assieme, ma comunque egli terrorizza Amaterasu che si rifugia in una grotta. Quando si verifica un’eclissi di sole, la dea scappa e quindi tutto il mondo è nell’ombra e le divinità sono spaventate. Una dea, Ame No Usume, comincerà a fare una danza licenziosa coinvolgendo le altre divinità, quindi Amaterasu incuriosita e divertita esce dalla grotta.
I fudoki erano dei documenti, spesso geografici, che venivano fatti redigere ai funzionari locali dal potere centrale, sono commissionati con ordine imperiale. Vengono anche fatte redigere le genealogie della case locali. Nei fudoki ci sono anche dei cicli narrativi perché oltre alla descrizione dei luoghi si parla delle mitologie tipiche di determinati luoghi. Interessanti sono le trascrizioni dei nomi dei luoghi, queste avvengono nel momento in cui la scrittura viene diffusa, quindi l’introduzione e la scelta dei kanji da usare sono importanti e avviene a livello locale ma con coordinamento col potere centrale. Coloro che scrivono le cronache sono funzionari mandati dal centro quindi persone con educazione a livello centrale, aristocratico, come i cinesi. Ci sono diversi obiettivi da parte del potere centrale che voleva stabilire una volta per tutti i toponimi del Giappone per avere un controllo e costituire della mappa sul modello cinese, sebbene non esistesse il concetto di mappa come lo intendiamo noi. Miti e leggende rafforzano l’identità del potere centrale, che viene diffuso alla singola località mediante la mitologia (era avvenuta l’abolizione delle terre private, quindi la nuova identità garantita dal potere centrale si doveva giustificare con la mitologia locale). Tute le informazioni sui luoghi servono per equilibrare il sistema di tassazione (se le terre sono fertili sono tassate di più). Non tutti i fudoki ci sono pervenuti, ma solo un paio sono interi e per gli altri abbiamo spezzoni e titoli. Essendo scritti da singoli funzionari sono molto diversi e seguono stili di narrazione singolari ma contribuiscono a darci un’idea di com’è la letteratura del periodo (e quella precedente ivi menzionata). Non sono riportati tutti i miti dell’epoca Nara.
Il Man’yōshū è una raccolta privata (fatta probabilmente da un aristocratico) di poesie giapponesi. Come abbiamo detto, il titolo dell’enciclopedia significa “raccolta delle diecimila foglie”. In giapponese, con foglia si può indicare anche “parola” o “pezzo di carta, foglio”. Il terzo significato, forse quello più autentico siccome si ritrova spesso nelle opere cinese, è quello di “generazione”, metaforicamente come le foglie attaccate ai rami di un albero. Ogni rotolo ha al suo interno corpus omogenei o terribilmente disomogenei. Tutta la prima parte di poesie sono quelle più antiche, nei primi due rotoli, sebbene ce ne siano anche in quelli successivi. Quelle che vengono dopo l’VIII secolo sono invece contenute negli ultimi quattro. Il testo originale si pensa sia stato scritto sotto l’impero Heisei (IX secolo) siccome ci sono scritture in kana. Addirittura si pensa che il Man’yōshū come lo conosciamo noi sia risalente al XIII secolo. Tranne alcuni rotoli, ad esempio il quarto che aveva trascrizioni in hiragana, il Man’yōshū era abbastanza incomprensibile e quindi pian piano abbandonato.
L’opinione che va per la maggiore è che la antologia raccoglie poesie precedenti, datate dal V al VIII secolo. Si trovano 500 poeti tra i cui 70 sono donne, di tutte le classi sociali nel senso che include anche i canti popolari e temi non particolarmente aristocratici (raccolti sempre dalla gente con un certo livello di cultura e che sapeva scrivere). Di sicuro Ōtomo no Yakamochi è uno dei compilatori perché le ultime poesie sono le sue. Sono circa 4500 poesie organizzate per categorie, e all’interno delle categorie sono organizzate in senso cronologico, tutto in 20 libri (20 maki). Si può incontrare molta informazione sul Giappone antico (miti, storie locali, geografia, botanica e così via). Le poesie possono essere classificate per la loro metrica (si parla di sillabe):
• 4200 tanka (5-7-5-7-7): poesia corta
• 260 chōka o nagauta (5-7, 5-7…577): poesia lunga
• 60 sedōka (5-7-7, 5-7-7).
Si trovavano due caratteristiche importanti: il hanka (posti dopo le chōka, sono dei versi che completano il contenuto della poesia precedente) e il kotobagaki (posto all’inizio della poesia, in cinese, che dava alcune informazioni per comprendere meglio il contenuto o significato della stessa).
Sono due le caratteristiche del Man’yōshū:
• Makoto: sincerità, semplicità
• Masuraoburi: mascolinità, perché il fatto di essere diretti veniva considerato una caratteristica nettamente maschile.
Il Man’yōshū si porta una difficoltà linguistica che si contrappone alla immediatezza comunicativa.
Le prime poesie della antologia sono divise anche per periodo di composizione e ci sono 4 periodi:
• periodo molto antico, con poesie attribuite a sovrani mitici
• periodo della corte dell’imperatore Tenji
• successivo all’imperatore Tenji
• periodo Nara.
Le poesie del primo periodo sono quelle con metrica più varia (molti chōka). In questo periodo vediamo esperimenti di metrica diversi. Il valore simbolico di queste poesie è alto e molte di queste compaiono anche nel Kojiki. Alcune poesie sono attribuite alla principessa Iwa no Hime. La prima poesia è attribuita all’imperatore Yuyaku, raffigurato come grande conquistatore, inizialmente sembra banale ma nasconde la politica sotto le immagini matrimoniali. Fa capire che il sovrano conquista il territorio con un’unione matrimoniale, c’è un elemento naturale ma è inteso come il regno del Giappone che l’imperatore possiede. Troviamo anche un importante elemento, la principale figura retorica del periodo Nara: makurakotoba (“parola cuscino”) sono epiteti formulari, delle forme che precedono una data parola in questo caso Yamato è preceduta da “sora mitsu” per indicare le possessioni di Yamato. Possiamo dire che la poesia principale è quella di erudizione.
Il secondo periodo è quello che tra il dominio di Tenmu e Tenji e spicca la poesia curtense (poesia come espressione della corte imperiale). Troviamo per la prima volta delle poesie sulla natura, non per il concetto di kunimi (contemplazione della natura) ma per il vero e proprio godimento dello spettacolo della natura (ad esempio, la cima innevata del monte Fuji, che, fino al periodo Heian, emetteva fumo e fiocchi di lava). Abbiamo un poeta importante, Kakinomoto no Hitomaru, che elogia nelle sue poesie la famiglia imperiale e scrive elegie funebri, con un processo di deificazione dell’imperatore. Uno scritto importante è un chouka, la più lunga dell’antologia: per raccontare la morte del principe Satakabe, inizia dal regno di Amaterasu (poesia per legittimare il potere imperiale). Siccome siamo sotto la corte dell’impero Tenmu, viene esaltato anche il suo predecessore Tenji (per il fair play verso i perdenti).
Terzo periodo. In questo periodo abbiamo una svolta (prima metà dell’VIII secolo). La maggior parte delle poesie non vengono composte nella corte di Nara, ma all’esterno, a Dazaifu. Questa città era il luogo in cui risiedevano le persone incaricate di avere relazione con Corea e Cina. In questo periodo, troveremo forti influenze cinesi, come quello della poesia conviviale nei banchetti, con prefazioni in cinese classico. Un esempio è un banchetto tenuto nella villa di uno dei questi poeti in onore dei fiori di susino (ritrovabile in scritti cinesi). La prefazione precede oltre 30 poesie composte su questo tema (riflesso cinese). Una figura di spicco è Ōtomo no Yakamochi: completa il Man’yōshū aggiungendo gli ultimi 4 rotoli, direttamente dalla sua collezione privata. Viene aggiunto anche un sedicesimo rotolo, con poesie abbastanza particolari, alcune scritte con il metro “piede di Buddha” e alcune poesie comico-denigrative. Ci sono anche poesie composte nell’antico dialetto di Tōkyō. In questo periodo arrivano dalla Cina il riso mochi, il tè e alcuni giochi da tavola.
Ma qualcosa di non esprimibile in termini occidentali è anche un altro genere letterario giapponese. Sempre presente in Giappone, ma che raggiunse il massimo splendore nei secolo X-XII, è il monogatari. Si tratta di un concetto intraducibile dal giapponese. Di per sé indica una qualsiasi storia raccontata o in prosa o in poesia. Uno stesso testo poteva essere noto come nikki (diario) o come kashū (raccolta di poesie) o talvolta come zuihitsu (pensieri sciolti, aforismi). Ma ciò che contraddistingue il monogatari è quello di essere finzione e non realtà, tuttavia talmente sentito importante dai giapponesi che non si ha un parallelo nelle lingue e nella cultura occidentali.
I monogatari come genere letterario si dividono in una serie di sottogeneri:
• Uta monogatari (racconti di poesie), per esempio Ise Monogatari, che non è altro che una raccolta di poesie i cui kotobagaki (introduzione in prosa che spiega in che occasione una certa poesia è stata composta) vengono espansi fino a creare una vera e propria storia, però sta di fatto che la storia è solo un corollario delle poesie
• Tsukuri monogatari (racconti di fiction), dove la parola “fiction” è da intendere nel senso di qualcosa di fabbricato, qualcosa che non è la verità. Rappresentano la stragrande maggioranza dei monogatari, tra questi ci sono in ordine cronologico:
1. Denki monogatari (racconti di leggende)
2. Shajitsu monogatari (racconti realistici), imitano fedelmente la realtà, per esempio Genji Monogatari
3. Giko monogatari (racconti d’imitazione dello stile classico)
4. Rekishi monogatari (racconti storici)
5. Gunki monogatari (racconti guerreschi)
6. Setsuwa monogatari (racconti didascalici).
Ma c’è qualche cosa di talmente radicato nella cultura giapponese (e nella sua lingua) che è impossibile che un occidentale ne possa cogliere anche lontanamente il senso profondo: questo è il kotodama. Forse uno degli elementi più peculiari della cultura giapponese. La poesia nativa giapponese (waka) era caratterizzata dalla presenza del kotodama, che alcuni intendono come “parola-spirito”. È il potere performativo della parola (beneaugurante, maledicente, magico, incantatorio, e così via) in quanto la parola poetica avrebbe in sé gli spiriti della religione autoctona del Giappone. Per via di queste influenze spirituali anche la parola, come il rito, sarebbe dotata di forze in grado di agire sui piani materiali dell’esistenza, quindi andrebbe maneggiata con cura.
Fu facile per i giapponesi accettare la fede nei terribili mantra del buddhismo in quanto avevano già elaborato il concetto di kotodama. Allora le pratiche rituali legate al kotodama (riti estatici nei quali la parola magica veniva attivata con cura in quanto poteva essere pericoloso evocare l’ “anima, dama, della parola, koto”, infatti la sua potenza segreta nell’essere risvegliata era in grado di scatenare forze incontrollabili) confluirono in quelle del buddhismo esoterico, specie lo Shingon. Perciò non sorprende che una delle più influenti teorie letterarie dell’epoca interpretasse il waka come una manifestazione in giapponese di formule iniziatiche dello Shingon. Non sorprende nemmeno che quasi tutti i più eminenti poeti di waka fossero monaci del buddhismo esoterico.
Però, vista la grande importanza della cultura cinese in Giappone, le scritture ritenute ufficialmente più importanti erano quelle buddhiste e quelle confuciane, la poesia in cinese (kanshi) e l’alta prosa sempre in cinese. Al secondo posto erano considerate la poesia in giapponese (waka) e la narrativa in giapponese (monogatari).
La estetica giapponese, quale riconosciuta solo nel tardo Periodo Edo come alle radici della letteratura classica, è sintetizzata dall’espressione intraducibile: mono no aware. Aware significava dapprima una esclamazione di piacere e sorpresa, solo dopo assumerà il significato di una sorta di malinconia suscitata dalla bellezza di ciò che si vede e dalla subitanea consapevolezza che è destinata a sfiorire. In sostanza l’espressione mono no aware significa avere la sensibilità delle cose, una percezione così acuta di chi sta in sintonia profonda con la natura che circonda. Questa sensibilità è tipica del poeta e del narratore che, nelle loro opere giapponesi, pongono attenzione alla natura, dal cielo stellato al filo d’erba mosso dal vento.
Il Kokinwakashū è una raccolta di waka (ossia tanka, poesie brevi). Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne. Conosciuto anche come Kokinshū. È un’opera importante perché è la prima chokusenwakashū (antologia poetica edita per decreto imperiale). È formato da 1.111 componimenti (20 libri). Costituisce una pietra miliare in quanto è repertorio di figure retoriche, metafore e temi assieme a vocabolario poetico codificato (ricchezza di diversità). Tanti temi ripetuti in maniera quasi ossessiva. Il linguaggio poetico è un linguaggio molto ristretto, perché alcune parole della lingua giapponese standard non si potevano usare quando si scriveva poesia perché doveva essere una creazione bella e “pulita”.
In questa raccolta di poesie si sviluppano enormemente le figure retoriche, un altro grosso argomento di poesia giapponese antica. Gli studiosi hanno molto discusso sul valore di queste figure di significato e di suono: in genere, non sono per nulla sovrapponibili a quelle delle letterature occidentali. Facciamo qualche esempio:
• Makurakotoba: sono espressioni spesso di 5 sillabe che si accompagnano in maniera fissa a determinate parole, la cosa tragica è che queste makurakotoba non hanno un significato
• Jokotoba: servono a creare l’ambiente in cui poi si sviluppa un sentimento. Possono occupare anche due o tre versi. Appaiono all’inizio della poesia. Hanno per oggetto elementi naturali o paesaggi. Non sono cristallizzate in espressioni fisse. Sono seguite dall’espressione di un sentimento umano
• Kakekotoba: “risposta” alla makurakotoba. Si tratta di una sovrapposizione di due parole omofone, ma di significato diverso
• Mono no na: costituiscono la possibilità di nascondere nei versi una parola di qualcosa (nomi degli animali, e così via). Le varie sillabe che la compongono si nascondono all’interno dei versi
• Engo: all’interno di una poesia un gruppo di parole fanno parte di uno stesso campo semantico e quindi è come si creassero una storia. Parole correlate, di norma più di due, che si richiamano a vicenda per associazione di idee. Creazione di un doppio flusso semantico
• Midate: è una sorta di metafora, paragone ma con alto grado di sorpresa da parte del poeta, mediante il quale si vede quello che sembra ma non quello che realmente è
• Gijinhō: si vedono o riconoscono nelle cose naturali alcuni atteggiamenti umani.
Nel Kokinwakashū (Parte IV) si parla dei 6 stili della poesia: in Giappone non esistevano, ma in Cina sono 6 quindi essi vengono introdotti anche in Giappone dato che i poeti giapponesi seguono il modello cinese:
• poesia allegorica (soeuta): allude a qualcosa senza citarlo
• poesia enumerativa (kazoeuta): ci sono kakekotoba
• poesia metaforica (nazoraeuta): contiene metafore
• poesia di raffronto (tatoeuta): contiene similitudini e paragoni
• poesia d’espressione diretta (tadakotouta): senza uso di figure retoriche, il sentimento del poeta è espresso direttamente
• poesia d’augurio (iwaiuta): serve a elogiare la figura imperiale.
Quando studiamo la letteratura di un periodo così lontano è bene pensare che tutto sia diverso. Lo stesso concetto di letteratura, ad esempio, era qualcosa fondamentalmente di pubblico e sociale. La poesia era fatta per essere letta ad alta voce o cantata per la corte. Per tutto il periodo antico e classico rimane appunto ad alta voce, anche in gruppi piccoli. Il concetto di libro non esiste fino al 1600 in Giappone, anche perché non ci sono i supporti fisici per la scrittura. Poi con l’evoluzione, il supporto diventa il rotolo di carta, spesso con belle illustrazioni (anche le letterature più serie erano illustrate). Era difficile trovare un determinato punto, siccome non c’erano le pagine. Soprattutto il concetto di poesia è diverso. Essa aveva una valenza perlopiù sociale: il waka era apotropaico e quindi svolgeva un ruolo pubblico di sanificazione dagli spiriti impuri, il kanshi era sempre pubblico ma secondo un’altra prospettiva, aveva infatti una funzione politica (la virtù del funzionario risiedeva nel saper comporre kanshi, che intrattenevano gli aristocratici). La poesia era differente da quella occidentale anche dal punto di vista visivo: le poesie erano un’unica colonna di testo, ma grazie alla metrica si riusciva ad averne un certo aspetto poetico.
Anche la religione, come ci proviene dalle fonti antiche, era in Giappone qualcosa di molto diverso dal cristianesimo. Prima dell’arrivo del buddhismo (V secolo d.C.) si possono individuare (periodo Kofun) degli oggetti sacri, ma non iscrizioni o rappresentazioni divine. Le prime rappresentazioni si avranno con il Nihon Shoki e con il Kojiki. Le divinità sono innumerevoli e vivono nella Pianura del Cielo (takamagahara). Izanami e Izanagi sono incaricati delle creazione del mondo e dell’uomo. Molte figure divine sono connesse con la natura coltivata. Ta no kami è colui che protegge le risaie, benevolo e saggio, dalla figura fallica, indica salute e ricchezza. Ebisu e Daikoku sono gli dei dell’abbondanza dei prodotti naturali. Dosojin è il dio della fertilità a cui si rivolge un’invocazione beneaugurante. Inari è la divinità del riso (i cui simboli sono la volpe ed i sacro gioiello). Egli incute terrore ma è custode della segreta sapienza (Dakinten).
Il fulcro della primitiva religione giapponese era l’Ujikami, legato ai sui figli terrestri, dei consanguinei. Essi hanno in loro una forza detta tama, ritrovabile negli uomini sotto forma di tamashii (l’anima).
I kami della religione giapponese sono spiriti divini pericolosi e imprevedibili, hanno un elemento costruttivo (aramitama) ed uno distruttivo (nigimitama) da cui derivano pestilenze, tifoni disastri. Per placarne il rancore (tatari), sono necessari dei riti la cui efficacia dipende dalla concentrazione e dalla formalità del rito stesso.
L’influenza confuciana (dalla Cina) introdusse nuove prospettive. Venne elaborato un nuovo concetto di purezza, interpretata come il percorso spirituale che porta alla rettitudine morale. Nascono quindi degli spazi ufficiali in cui l’uomo può cogliere l’assoluto. Lo svuotamento dell’animo permette al dio di possedere gli uomini (sciamano).
Il rito dell’okonai esprime la percezione culturale dello spazio basato sulle due dimensioni della risaia e della montagna. Con questo rito viene stabilita l’unione fra il coltivato ed il selvatico, una mediazione fra foresta e risaia.
La delimitazione di un luogo era quindi destinata a separare il mondo umano da quello divina, sotto l’influenza buddhista in questo spazio veniva costretta un jinja, un tempio in modo da significare questa divisione. Il tempio è l’omote, la facciata verso il mondo divino delle montagne, ma anche una separazione fra i due mondi.
Il concetto di musubu, ovvero quello del “legare”, è di fondamentale importanza. Nei vari riti come il kojinkahura lo sciamano è in trance e il kami viene tenuto a lui in maniera stretta in modo che non si allontani. Il rito è in uno spazio purificato e nei testi l’unione è descritta come quella sessuale.
Bastano questi pochi cenni alla antica religione nipponica per renderci conto che le fonti letterarie stanno parlando di una concezione del cosmo che trova un riflesso in quella della religione. Il tempio giapponese divide lo spazio sacro/profano così come quello ancestrale indoeuropeo (“tempio” deriva dal greco “tagliare”). È il riflesso della civilizzazione umana che ha tagliato i ponti con il mondo della montagna e del divino inteso in maniera tremenda e pericolosa, strettamente associato alle forze naturali incontrollate e incontrollabili. Gli dei terribili devono essere placati con riti celebrati nel tempio tenuto distante dallo spazio civile.
In questa maniera trova giustificazione il waka come poesia apotropaica. Il waka deve tenere lontano il potere distruttivo delle divinità mediante forme esorcistiche e beneauguranti. Il potere della parola in qualche maniera continua la divisione sacro/profano operata dal tempio.
Divinità e villaggio si uniscono e stringono un legame all’interno del tempio ma prima di farlo gli uomini si devono purificare attraverso dei riti. Gli uomini devono seguire un percorso dal passo diretto verso l’alto (torii), seguire un processo purificatorio, il misogi. Non tutti possono raggiungere gli stessi luoghi, ma devono seguire un ordine gerarchico e religioso. I capifamiglia possono raggiungere il kannushi. Il sacerdote può raggiungere lo shinden dove c’è il ricettacolo del dio (yoshiro).
Il tempio è posto in prossimità della collina ed il punto più alto che l’uomo può raggiungere corrisponde a quello più basso in cui può arrivare la divinità (lo stesso schema è mantenuto anche in villaggi di pianura o di mare). Il sacerdote, una volta entrato in contatto con la divinità, per poter poi riscendere tra gli uomini deve essere aiutato.
La primitiva religione giapponese non è lo shintoismo come oggi viene praticato in Giappone. A parte il fatto che il termine shintoismo è una aberrazione filologica, perché si dovrebbe parlare esattamente di Shintō. Come si nota studiando la storia dei culti dei kami, si può dire che non esista uno Shintō che continua ad essere attivo dall’antichità fino alla contemporaneità, perché si tratta di una costruzione che emerge con forza a partire dal 1868, quando la separazione forzata tra i culti dei kami e gli elementi buddhisti porta a definire i primi come Shintō. Ciò avvia quindi a stabilire e a tracciare i contorni di questo Shintō.
Nella storia ci sono stati altri momenti in cui si è tentato di rivedere il complesso dei culti dei kami come una via distinta da quella buddhista, separata ma superiore. Un esempio è lo Yuuitsu Shintō di Yoshida Kanetomo nel XV secolo. La principale differenza fra il suo discorso e il discorso che viene creato in periodo Meiji sta nel fatto che Yoshida si basa comunque sulle strutture buddhiste e rimane, nel suo discorso, esoterico: il suo Shintō era riservato agli iniziati, che ricevevano gli insegnamenti e l’iniziazione tramite cerimonie segrete. Al contrario, lo Shintō Meiji si costruisce sulla base dei culti jingi del periodo classico e si diffonde in modo capillare in Giappone e anche nelle colonie. In epoca classica la storia del culto dei jingi, la costruzione del Jingikan e l’elaborazione del Jingiryo rappresentano la primissima forma di strutturazione e categorizzazione dei culti dedicati ai kami e del ruolo dei santuari e dei sacerdoti.
La storia di quello che è Shintō come categoria è quindi costituita da una serie di invenzioni e creazioni che partono da un punto comune, ovvero il legame tra l’imperatore e i kami. Oggi altri aspetti sono stati legati allo Shintō, vari elementi sono stati assimilati allo stesso modo nel passato. Un esempio è l’associazione del concetto di Shintō con il tema della natura. Il fatto che il termine e la categoria Shintō siano vaghi consente ai vari pensatori di leggerlo in modo diverso a seconda dei loro obiettivi. Diversi significati sono stati conferiti da persone con scopi diversi. In altre parole bisogna guardare alla sfera religiosa- spirituale come in stretta connessione alla sfera storica ed economica.
A partire dal periodo Meiji il racconto mitico della dea Amaterasu che esce dalla grotta è stato una delle basi per legittimare il potere dell’imperatore e alcune scelte politiche del Giappone. Nei libri di testo viene scritto che Amaterasu è l’antenata dell’imperatore e i miti sono presentati come parte della storia. Nei libri di testo i kami non sono presentati come divinità ma come antenati semi- umani/umani. La situazione cambia dopo la resa alla fine della seconda guerra mondiale, quando l’occupazione vieta i riferimenti al mito in tutti i testi in quanto propaganda nazionalista. Da questo momento che si riesce a studiare il mito con uno sguardo obiettivo e accademico, cosa non possibile prima del ‘45.
Il mito della grotta è strettamente legato anche allo sviluppo delle arti performative in Giappone, a tal punto che Zeami (padre del teatro no) nei suoi trattati riconosce l’origine del teatro no proprio nel racconto mitico. Il mito è utilizzato anche in maniera metaforica: lo presenta come un esempio di quello che dovrebbe essere il processo di esecuzione di un’opera no e anche la reazione del pubblico. Secondo lui, un’opera dovrebbe essere composta in tre fasi: prima parte di anticipazione, seconda parte ritorno del sole che genera sorpresa e gioia e infine una terza fase nella quale c’è una gioia espressa in un discorso e che genera negli spettatori un senso di fascinazione.
Questo mito risulta essere legato al kagura, una sorta di danza rituale. Ci sono diverse ipotesi riguardo l’origine di questo termine. La derivazione più plausibile è quella da kamigura con il significato di “sede della divinità”. Il riferimento sarebbe a un oggetto, in genere una sorta di pilastro in cui veniva invitato il kami, lo si accoglieva e intratteneva e poi lo si congedava. Con il tempo questo pilastro è stato sostituito con i torimono, oggetti non più fissi, ma tenuti tra le mani del danzatore. Questi oggetti possono essere rami di sakaki, ventagli, spade, sonagli e attraverso la danza il danzatore spesso definito anche come sciamano, va a svolgere il suo ruolo tra uomini e kami. I kami quindi possono entrare a fare parte di questo rituale.
Per attirare la presenza dello spirito nella danza vengono svolti dei movimenti circolari. Il passaggio del termine da kamigura a kagura porta anche al cambiamento del suo significato, non più sede della divinità ma divertimento della divinità. Le performance (cioè i kagura attuali) servono ad intrattenere ed a divertire i kami.
Prima dell’esecuzione di un kagura è sempre necessario che il luogo sia purificato. La purificazione all’interno del kagura avviene attraverso la danza. Una volta purificato lo spazio si può procedere a invocare i kami, poi accolti con cibo e bevande, soprattutto riso e sake. Quindi i kami sono intrattenuti con musica, danze e canti, che si estendono per tutta la notte fino a quando lo spirito verrà congedato con delle formule apposite. L’obiettivo principale è quello di intrattenerli ma anche di pacificarli e di aumentare la loro forza vitale; in alcuni casi non sono solo dei kami ma anche imperatori defunti.
Ci sono moltissimi kagura e quindi vengono suddivisi in due grandi sottogruppi: da una parte il mikagura e dall’altra il sato kagura. Il mikagura è quella tipologia di kagura che viene eseguito nel palazzo imperiale; i musicisti sono artisti di corte, anche ad Ise possono avvenire questi kagura. Quando avvengono nel palazzo reale, vengono eseguiti davanti all’edificio chiamato kashikodoro, all’interno del quale è conservata una copia dello specchio sacro: simboleggia un offerta allo spirito di Amaterasu e anche all’imperatore. In origine questo kagura durava tutta la notte, ora in realtà ha una durata ridotta.
Il sato kagura è una grande tipologia che raccoglie dei sottogruppi e si tratta di kagura eseguiti al di fuori del palazzo imperiale, legati a culti locali e anche alle stagioni (ciclo agricolo). Alcuni elementi sono stati elaborati dal periodo medievale da yamabushi che hanno inserito alcuni rituali di purificazione con acqua bollente. Si dividono in quattro categorie:
• miko kagura (mikomai): la danzatrice è una miko, figura sacrale femminile. In origine le miko accoglievano gli spiriti nel proprio corpo, mentre ora la possessione non è contemplata. Per riuscire a favorire la possessione, le miko adottavano movimenti circolari e l’uso dei torimono e sonagli i quali segnalavano l’arrivo dei kami
• kagura di Izumo, rientra la maggior parte di kagura eseguiti all’infuori del palazzo reale. Comprende delle danze a volto scoperto e anche con maschere che possono essere di kami o di demoni
• kagura di Ise, che comprendono un kagura particolare che utilizza l’acqua bollente (yuudate) introdotto da yamabushi
• kagura con shishi, testa di leone che funge da ricettacolo della divinità, diventa quindi in qualche modo il corpo della divinità. La funzione è quella di allontanare gli spiriti malvagi (protezione).
Insomma il kagura è una sorta di teatro religioso, definito danza rituale autoctona, come anche ta-mai, dengaku. Danze non autoctone sono: gigaku, bugaku, sangaku.
Altre forme sono il teatro Nō, un dramma lirico che viene praticato in Giappone non solo da professionisti, ma da migliaia di dilettanti di ogni età, che studiano il canto, la danza, gli strumenti musicali, la scultura delle maschere insieme ai maestri delle diverse discipline. È un’arte totale, che combina molti elementi perfezionatisi nell’arco di 600 anni, in continuo cambiamento grazie a un sistema di trasmissione dal vivo. Questo sistema realizza, alla stregua delle arti marziali, un approccio immediato alle basi del canto e della danza Nō, alla scoperta di principi etici ed estetici che superano i limiti stilistici di questa forma teatrale. Economia del movimento e astrazione delle forme contribuiscono a un approccio più percettivo che concettuale e a un rapporto non dualistico tra attore e spettatore.
Altre performance teatrali giapponesi sono: Kyogen (teatro comico), bunraku (teatro delle marionette), Kabuki (drammi borghesi).
Bibliografia
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• A. Boscaro, L. Bienati, Letteratura giapponese, Torino 2011;
• R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, Roma-Bari 2017;
• B. Di Sabato, E. Di Martino, Testi in viaggio. Incontri fra lingue e culture, attraversamento di generi e di senso, traduzione, Torino 2011;
• D. Keene, Seeds in the Heart. Japanese Literature from the Earliest Times to the Late Sixteen Century, New York 1999;
• M. Raveri, Il pensiero giapponese classico, Torino 2014;
• P. Zanotti, Introduzione alla storia della poesia giapponese, vol. 1 (Dalle origini all’Ottocento), Venezia 2012.
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe 43 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.