“SETTEMBRE, ANDIAMO, E’ TEMPO DI MIGRARE….”
Redazione- “Settembre, andiamo, è tempo di migrare”. L’incipit di una delle più famose poesie di Gabriele D’Annunzio descrive una lunga tradizione pastorale abruzzese: la transumanza.(1)
Tutti ricordano questa poesia dei banchi di scuola, a volte mandata a memoria . Racconta una delle epopee più importanti di un popolo, quello dei pastori abruzzesi, che partivano il giorno ventinove settembre, giorno di S. Michele l’arcangelo protettore dei pastori e tornavano l’8 maggio
Alle ore 21,30 del 15 luglio 2020 per le rassegne di Cantiere immaginario tenutosi a L’Aquila appunto nel mese di luglio 2020, in Piazza Duomo è andato in scena “La stanza del pastore”, la fortunata drammaturgia di Vincenzo Mambella, diretto ed interpretato da Edoardo Oliva, sul palcoscenico Giuliano Di Giuseppe alle tastiere, Luca Trabucchi alla chitarra, Pierluigi Ruggiero al violoncello, Virginia Galliani al violino, Claudio Di Bucchianico all’oboe, con la scenografia di Francesco Vitelli, le musiche originali e gli arrangiamenti di Giuliano Di Giuseppe e il video a cura di Francesco Calandra e Maria Grazia Liguori.
Parole leggere, suoni melodiosi che si librano oltre gli orizzonti ma allo stesso tempo pesanti, da incidere la mente come quel legno che ama intagliare. Sono lì dentro i quattrocento libri di “Chicche ru cuaprare”, il soprannome di Francesco Giuliani (Castel del Monte 1890-1970), lo straordinario pastore-poeta e scrittore abruzzese che amava Dante, Ariosto e Tasso. Quei preziosi e inseparabili libri lo hanno accompagnato nelle sue numerose transumanze,lo hanno aiutato a superare i recinti dell’ignoranza e ad espandere i confini dello sguardo fin dentro se stesso e fin dentro l’umanità tutta, tanto da renderlo cantore delle sue esperienze .Sfogliando i suoi amati autori classici nella sua stanza, prenderanno forma i suoi ricordi mentre la vita lentamente volterà le sue ultime pagine. Il testo teatrale è liberamente ispirato alla vita di Francesco Giuliani. Nel dicembre 2019, l’Unesco ha riconosciuto la transumanza come patrimonio dell’umanità.L’evento è presentato dal Teatro Stabile d’Abruzzo con Fondazione Aria, l’associazione Espressione d’arte e Teatro Immediato.
I pastori del Gran Sasso hanno talvolta raccontato le loro storie in lunghi diari o hanno addirittura messo in versi la loro esperienza della transumanza, nella tradizione dei poeti-pastori. È il caso di Francesco Giuliani, pastore nato a Castel del Monte, sul Gran Sasso, nel 1888 e ivi morto nel 1969. I fatti narrati in versi nel suo diario delle transumanze risalgono ai primi anni del Novecento.
A settembre cominciava la transumanza.vI pastori, seguendo i tratturi conducevano le loro greggi da Campo Imperatore, nel Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, al Tavoliere delle Puglie, per poi rientrare a Campo Imperatore al disgelo in primavera. Per cinquant’anni questa sarà la vita di Giuliani. Tale pendolarismo sarà interrotto solo allo scoppio della prima guerra mondiale e durante una breve esperienza in fabbrica da emigrato in Francia. Francesco Giuliani, ispirato dai grandi classici della lingua italiana, decide di passare dalla lettura alla scrittura lasciando così una testimonianza sulla vita del popolo abruzzese ed il terribile ricordo della devastante guerra mondiale vissuto in prima persona tra le trincee. Dalla lettura degli scritti che ci ha lasciato emerge la necessità di possedere una adeguata cultura, la necessità della lotta contro l’ignoranza, l’importanza dell’impegno politico e l’importanza dei conflitti sociali.
Se ascoltar vi piace . La transumanza raccontata da Francesco Giuliani : “
I pastori per otto mesi nelle Puglie, lontano dalle famiglie, sparsi in quella sterminata pianura che ancora oggi si chiama il Tavoliere, tante volte nelle campagne deserte e malariche, per alloggio una stalla o la capanna, senza nessuna necessaria comodità, dove si viveva quasi la vita degli uomini primitivi; quattro mesi in montagna, eppure non erano tutti analfabeti. Nelle sere d’inverno riuniti intorno ad un gran fuoco, si leggeva e tutti ascoltavano attentamente. I libri preferiti erano L’Orlando innamorato, L’Orlando furioso, La Gerusalemme liberata, I Reali di Francia, Il Guerin meschino, Le mille e una notte, Le storie dei Paladini di Francia e Paris e Vienna. C’era qualcuno che poteva fare concorrenza a Silvio Pellico e Tommaso Grossi, nel sapere a memoria parecchi canti della Gerusalemme liberata. Però non tutti i padroni permettevano di leggere; c’erano di quelli che per l’avarizia superavano l’Avaro di Salerno e la sera, come questi, se ne stavano al buio. Quando gli affari andavano bene il padrone stava contento e ai pastori comprava il vino. La sera, rientrati nel rustico abituro, vi regnavano la pace e l’allegria.
Qualcuno che aveva un poco di intelligenza raccontava fiabe e storielle allegre. Vivevano nella più pura semplicità. Credevano per vere tutte le fiabe di orchi, di maghi, di fate, di streghe e questi racconti creavano sempre la delizia della pura e semplice compagnia. Raccontavano anche di tesori nascosti nelle caverne sui nostri monti, ma custoditi dai demoni, e non vi era stato mai un coraggioso che riusciva a prenderli. Quando tutto andava male per qualche nevicata o per qualche altro accidente, era come se si stava in lutto. La sera se ne stavano taciturni e muti e se qualcuno faceva una parola non c’era chi gli rispondeva; era come se si assistesse ad una veglia funebre. Qualcuno, annoiato da tanto silenzio, se ne andava a dormire. Se il pane era di cattiva qualità nessuno poteva reclamare. Pazientemente si doveva tollerare tutto. Negli anni del brigantaggio si può dire che vivevano sotto il terrore. Non potevano stare mai tranquilli; qualche volta di notte assaliti e derubati, la casa incendiata e a qualcuno veniva tolta barbaramente la vita. Quando non c’erano le ferrovie la maggior disgrazia per i pastori era quando cadevano ammalati; e nelle zone malariche accadeva spesso. Il malato che voleva e poteva tornare al suo paese vi andava a cavallo sopra il basto, accompagnato da un conducente che prendeva la via del ritorno. La paga giornaliera era di trenta o quaranta centesimi e un chilo di pane, al mese un litro d’olio e un chilo di sale.
Erano uomini grandi e robusti; chi sa che si sarebbero mangiato e dei trenta chili di pane ne risparmiavano cinque o sei e anche l’olio non lo consumavano tutto. Stavano sempre affamati come i lupi; mangiavano ogni qualità di verdura selvaggia. La carne delle pecore morte si salava e si conservava secca. Per conto del padrone erano attivi, infaticabili. Lavoravano non solo il giorno, ma anche parte della notte e per se stessi trovavano il tempo per radersi, rattoppare i panni, lavare la biancheria. Al tempo della partenza, nei tempi passati, c’era l’usanza che il giovanotto che aveva la fidanzata riuniva tre o quattro cantori e suonatori e con questi andava sotto la finestra della sua bella e con poche strofe rozzamente ingarbugliate esprimeva il dolore per la partenza, il pensiero che si aveva nella lontananza e l’ansia del ritorno. La fanciulla si affacciava e rispondeva con un mesto canto. Quelle strofe volentieri le avrei scritte, ma non mi riuscì di coglierle intere e per questo vi ho messo del mio.
Nel 1960 Francesco Giuliani affidò i suoi quaderni all’antropologa Annabella Rossi, che ne ha curato la pubblicazione. Ne proponiamo una pagina.
Di settembre allor verso la fine / lassù nel nostro Campo Imperatore, / sull’alte vette, e pur sulle colline / vi scende della neve il bel candore, / bianche le valli ed il piano di brine / ti punge il freddo; le greggi e il pastore / non vi ponno più stare senza ripari / a partire convien che si prepari.
La partenza è ver che è dolorosa / che distaccarsi non puo far piacere, / perché si vive una vita incresciosa / delle Puglie nel vasto Tavoliere. / Chi lascia la consorte o l’amorosa, / i figli, i genitori. Triste mestiere! / Per la miseria e campar la vita / la famiglia non può viver unita.
E partono i pastori un bel mattino / pare che sembran lieti e confortati, / per breve tratto del lungo cammino / vanno dai loro cari accompagnati. / Breve sosta nel borgo vicino, / dopo di aversi un po’ rifocillati / come gli piace con qualche bicchiere / che gli toglie la pena e il dispiacere.
A Forca poi si fermano la sera / dove si stanno col gregge accampati. / Come si puote in qualche maniera / si fa la magra cena e ristorati; / poi si stanno nella notte intera / sopra a qualche pelle addormentati, / e non appena è chiaro il mattino / son pronti e si rimettono in cammino.
Pel tratturo si va largo ed erboso / dove le greggi posson pascolare; / per tutto il giorno non si ha mai riposo / danno le greggi fin troppo da fare. / Lo sguardo intorno può spaziare ozioso / tanti paesi belli ad osservare, / Frittoli, Curvara e Petranico / adagiato sopra un colle aprico.
Adagio o in fretta sempre avanti vanno / campi e paesi a incontrar più belli, / Cugnoli, Nocciano, a destra Alanno; / dei contadini dovunque gli ostelli. / Son ghiotti i pastor io non m’inganno / di tutti i tratti che vedon novelli; / i giovani talor svelti ed accorti / nelle vigne rubano e negli orti.
La sera poi nell’ubertosa piana / del Pescara si sosta, a lieta cena / con gente buona, si può dire umana / e si oblia un po’ l’amara pena. / Non si sa da quale època lontana / alle Puglie il trattur le greggi mena. / …
Francesco Giuliani, “Diario”, in Monti d’Italia – Appennino centrale, ENI, 1972, pagine 128. Leggi anche Se Ascoltar vi piace dai quaderni di Francesco Giuliani, a cura di Maurizio Gentile, Lindau Editore 1992. L’editore Japadre di L’Aquila ha pubblicato nel 2001 di Francesco Giuliani il Diario della guerra 1915-18 curato da Paolo Muzi.
Il tratturo è un largo sentiero erboso, pietroso o in terra battuta, sempre a fondo naturale, originatosi dal passaggio e dal calpestio degli armenti. Di norma la misura della larghezza della sede del tracciato viario è di 111 metri corrispondenti a sessanta passi napoletani.
Il suo tragitto segna la direttrice principale del complesso sistema reticolare dei percorsi che si snodano e si diramano in sentieri minori costituiti dai tratturelli bretelle che univano tra loro i tratturi principali, dai bracci e dai riposi. Questi percorsi erano utilizzati dai pastori per compiere la transumanza ossia per trasferire con cadenza stagionale mandrie e greggi da un pascolo all’altro.
In Italia l’intrecciarsi di queste vie armentizie, stimato in 3.100 km, si rileva nei territori delle regioni centro-meridionali. Le vie erbose si trovano diffuse principalmente in Abruzzo, Molise, Umbria, Basilicata, Campania e Puglia. Le loro piste erano percorse nelle stagioni fredde in direzione sud, verso la Puglia, dove esisteva, presso la città di Foggia la Dogana delle Pecore, mentre nei mesi caldi le greggi percorrevano il percorso inverso tornando ai pascoli montani dell’Appennino centrale dove la pastorizia era invece regolata dalla Doganella d’Abruzzo L’intero apparato stradale si origina nelle zone montane e più interne dell’area abruzzese e si conclude nel Tavoliere delle Puglie. Lungo i percorsi si incontravano campi coltivati, piccoli borghi dove si organizzavano le soste, dette stazioni di posta, chiese rurali, icone sacre, pietre di confine o indicatrici del tracciato.
I Regi Tratturi costituiscono una preziosa testimonianza di percorsi formatisi in epoca protostorica in relazione a forme di produzione economica e di conseguente assetto sociale basate sulla pastorizia, perdurati nel tempo e rilanciati a partire dall’epoca normanno-sveva, e poi angioina ed aragonese, così da rappresentare un frammento di storia conservatosi pressoché intatto per almeno sette secoli e via via arrichitosi do ulteriori stratificazioni storiche, tanto da renderli il più imponente monumento della storia economica e sociale dei territori dell’Appennino Abruzzese-Molisano e del Tavoliere delle Puglie. (2)
Dall’Abruzzo partono tutte i cinque i Regi Tratturi
L’AQUILA-FOGGIA – Dalla montagna al mare
CENTURELLE-MONTESECCO – La via dello zafferano
CELANO-FOGGIA – Il cammino della civiltà
PESCASSEROLI -CANDELA – La via della biodiversità
CASTEL DI SANGRO-LUCERA – Il cammino sulle orme dei sanniti
Il Tratturo L’Aquila-Foggia, con i suoi 244 km, era il più lungo, grande e il più importante dei cinque Regi Tratturi: per questo motivo, era chiamato anche “Tratturo Magno”. Si tratta del più “adriatico” di tutti, convogliando le enormi greggi provenienti dai massicci del Gran Sasso, di parte del Sirente e della Majella ai vasti pascoli del Tavoliere delle Puglie, dopo aver lambito in più occasioni le sponde del Mar Adriatico; unico caso nel quale le pecore e i pastori arrivavano a toccare anche materialmente l’acqua del mare. Da esso si diparte e poi si ricongiunge il Regio Tratturo Centurelle-Montesecco, collegati a metà strada anche dal Tratturo Lanciano-Cupello.
Il suo tracciato, un vero e proprio percorso storico tra l’Abruzzo e la Puglia attraverso il Molise, parte dalla Basilica di Collemaggio dell’Aquila ed è caratterizzato nell’Aquilano da tratti alquanto integri e da numerose chiese tratturali.
Il Tratturo Magno veniva percorso dalle greggi al pascolo sul versante sud del Gran Sasso e sul versante nord del Sirente, seguendo sotto la città di L’Aquila il corso dell’Aterno per circa 10 chilometri. L’inizio può essere simbolicamente individuato nel Parco della Transumanza, adiacente alla Basilica di Collemaggio, edificata nel XIII secolo proprio con il contributo della corporazione dei Lanaioli. Tutto il centro storico dell’Aquila è stato costruito con le ricchezze derivanti dalla pastorizia e dall’Arte della Lana, e poi ancora ricostruito dopo il terremoto del 1703 grazie all’esenzione totale per trenta anni dal pagamento dei fitti per le Locazioni in Puglia concessa dal Viceré ai notabili aquilani, proprietari di greggi numerosissime.
Questo tratturo è stato oggetto negli ultimi anni di un sistematico studio da parte dell’Associazione Tracturo 3000 che dal 1997 lo ripercorre ogni anno. Sono 9 le tappe che l’associazione Tracturo 3000 affronta nel percorrere l’intero Tratturo Magno. Le tappe, con rilevazione GPS del percorso, si possono richiedere a tratturomagno@gmail.com
Settembre, andiamo, è tempo di migrare. L’incipit di una delle più famose poesie di Gabriele D’Annunzio descrive dunque una lunga tradizione pastorale abruzzese: la transumanza.
Dopo i secoli del medioevo quando le strade del mezzogiorno d’Italia era divenute insicure a causa dell’assenza di manutenzione e delle incursione dei predoni la pratica della transumanza riprese vigore con l’istituzione della Dogana delle pecore istituita da Alfonso di Aragona nel 1447. Questo re contro il corrispettivo di una tassa da pagare appunto ad una dogana lungo al termine del cammino tra l’Abruzzo e le Puglie Prima Lucera e poi Foggia (3) assicurava ad armamentari, pastori, greggi e al loro seguito un percorso protetto . (4)
Il vero titolo della poesia del Vate è “I Pastori”. I versi raccontano dal punto di vista del poeta, lontano dalla terra natia, il rito della transumanza. I pastori usavano infatti partire a settembre, prima che la montagna diventasse inospitale, per portare le greggi al mare. Qui i raggi del sole ingiallivano la lana delle pecore. D’Annunzio sembra rimpiangere di non essere con i pastori d’Abruzzo.
Nella poesia c’è tutta la regione, in un movimento in discesa dall’entroterra al mare, tra la tensione del viaggio e la gioia di vedere il tremolio del mare. Ogni abruzzese riuscirebbe a immaginare queste scene!
Si ha notizia della pratica della transumanza fin dal III secolo a.C. che si protrae per molti secoli in tutta l’Europa meridionale e buona parte del bacino del Mediterraneo. Spagna, Francia, Svizzera, Germania, Carpazi, Balcani e Italia sono i paesi in cui veniva praticata con regolarità. Per secoli e secoli le regioni dell’Appennino centro-meridionale e le zone di pianura di Puglia, Campania e Maremma laziale-toscana, sono state tra le più attive per quanto riguarda la pastorizia transumante.
In Italia questa antica tecnica iniziò ad essere praticata in Abruzzo, Molise e Puglia, con estensioni verso il Gargano e le Murge. Consisteva nel far migrare gli animali dai pascoli in quota dei monti abruzzesi e molisani, a quelli più verdeggianti e miti del Tavoliere delle Puglie e del Gargano.
Gli Aragonesi vollero far sviluppare l’industria della lana, ma i risultati attesi da Alfonso d’Aragona non furono raggiunti e l’industria della lana del Regno di Napoli non riuscì a competere con quella della Spagna, delle Fiandre, dell’Inghilterra. In queste nazioni oltre allo sviluppo dell’allevamento ovino si puntò sullo sviluppo dell’agricoltura cosa che non venne fatta nel territorio del Regno di Napoli causando un ritardo nello sviluppo locale.
A riprova della rilevanza di tale pratica nell’economia e nella società, è stato calcolato che nella metà del XV secolo, non meno di tre milioni di ovini e trentamila pastori percorressero annualmente o tratturi, e che l’impatto che la pastorizia esercitava era tale da fornire sussistenza a metà della popolazione abruzzese, direttamente o indirettamente. Nel XVII secolo i capi coinvolti erano circa cinque milioni e mezzo.
Scrive Alberto Mangano sul blog ManganoFoggia.it : “Il Doganiere, appena investito del prestigioso incarico,obbligò i pastori che scendevano in Puglia al pagamento di 8 ducati per ogni 100 pecore in cambio della assegnazione di un pascolo sufficiente, dove rimanevano fino a primavera inoltrata, quando, subito dopo la tosatura, ritornavano nelle località di provenienza Erano inoltre tenuti a vendere a Foggia, sede della Dogana, i loro prodotti e cioè lana, agnelli, capretti, formaggi. I pastori non si ribellarono a tale imposizione, ma chiesero al re due precise garanzie: la protezione durante il viaggio dalle terre di origine in Capitanata e relativo ritorno, e la possibilità di trovare pascoli sufficienti per tutto il periodo invernale” (5)
Poiché i pascoli regi erano chiaramente insufficienti per garantire accoglienza a tutte le greggi dal 30 settembre all’8 maggio il Doganiere prendeva in affitto dai proprietari terrieri degli appezzamenti che venivano poi subaffittati .Al termine di questo periodo dal 9 maggio al 29 settembre i terreni tornavano a disposizione dei proprietari . La Dogana comprendeva un’area di 312.800 versure (ogni versura corrispondeva a 1,2345 ettari) (6)
La dorsale appenninica quella che il paesologo Franco Arminio ritiene essenziale per lo sviluppo della civiltà del nostro paese è stato il territorio tra i più importanti per l’industria della lana e l’allevamento delle pecore. In particolare L’Aquila, con il suo Campo imperatore meta finale di un percorso di 244 Km di pista : il «Tratturo Magno», che dal tavoliere delle Puglie conduceva fino a qui. Milioni di pecore hanno percorso l’altopiano carsico aquilano nei secoli tanto da scavarne e modificarne ancor più la forma oltre all’erosione naturale . A volte si presenta con similitudini e nalogie con lontane e selvagge steppe asiatiche. Dall’alto medioevo e fino all’unità d’Italia da qui sono passate migliaia di greggi, condotte da una società transumante fatta di pastori, apprendisti, guardiani, muli e asini. Il commercio della lana resta l’economia trainante della regione fino al 1800, quando sul Gran Sasso pascolavano ancora più di un milione di pecore. Con l’importazione di tessuti dall’America e Australia e la concessione, con l’unità d’Italia, di terre da coltivare lungo i tratturi, il numero delle greggi transumanti diminuisce e con loro crolla l’economia legata a questa antica comunità nomade.
L’arte della lana (8) a L’Aquila fu prospera nel 1400 Terminata la ricostruzione, prosperò grazie ai suoi commerci, specialmente della lana, estendendo le proprie relazioni fino a Firenze ,Genova e Venezia e, ancora oltre, in Francia, Paesi Bassi e Germania, diventando in breve tempo la città più importante del Regno dopo Napoli
(1) Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natia
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!Ora lungh’esso il litoral cammina
La greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquio, calpestio, dolci romori.Ah perché non son io cò miei pastori?
(2)http://www.leviedeitratturi.com/i-tratturi/
(3) La Dogana delle pecore (1447-1806), ufficialmente Regia dogana della mena delle pecore di Puglia, era un’antica istituzione aragonese. Fu istituita nella città di Lucera nel 1447 da re Alfonso I, ma fin dal 1468 fu trasferita a Foggia. L’ordinamento della Dogana ricalcava, con poche variazioni, quello della Mesta spagnola.
La dogana regolamentava la “mena” (cioè, la conduzione) relativamente a il settore agricolo, l’allevamento e la transumanza nel Tavoliere delle Puglie e permetteva la riscossione dei proventi derivanti dalla transumanza e dal diritto di pascolo (o fida), dai pastori i cui armenti svernavano in Puglia. La dogana assicurava uno dei principali cespiti dell’erario del Regno di Napoli.
L’annesso tribunale era competente a giudicare tutte le cause in cui erano coinvolti i pastori. Contro le sentenze di questo tribunale si poteva fare ricorso alla Regia camera della sommaria di Napoli, suprema magistratura tributaria del Regno.
Dal 1532 estese la sua competenza anche all’Abruzzo, dove il Doganiere nominava un suo Luogotenente. La cosiddetta Doganella d’Abruzzo nata per controllare e tassare le greggi che non svernavano in Puglia, divenne autonoma dalla “Dogana Grande” di Foggia nel 1590.
Fu soppressa durante l’occupazione francese del Regno di Napoli con una legge promulgata da Giuseppe Bonaparte il 21 maggio 1806.
A Lucera è ancora visibile l’originaria sede della Regia dogana in piazza Santa Caterina, in pieno centro storico. Stessa cosa per Foggia, dove la sede originaria era in piazza Federico II, angolo via Arpi, trasferitasi poi, dopo il terremoto del 1731, nella nuova sede in piazza XX Settembre.
(4)Chi vuole approfondire la storia della Transumanza in Abruzzo, non può evitare una visita al Museo delle Genti d’Abruzzo a Pescara, nelle cui sale è raccontata tutta la storia degli abitanti della regione, dal paleolitico ad oggi. In questa storia, la transumanza raccontata da D’Annunzio ha un ruolo chiave per la società e l’economia abruzzesi.
(5) da un manoscritto del 1700 dell’avvocato Andrea Gaudiani del Tribunale speciale della Dogana su “Alfonso d’Aragona” conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
“Osservò la gran pianura della Puglia esser molto fertile di erba, e che a tale oggetto calava in essi erbaggi gran quantità di animali, così minuti (pecore,capri e porci), come grandi (buoi,muli,cavalli,asini), non solo dalle lontane province del Regno, ma anche da fuora per svernare nella Puglia, fidandoli a loro arbitrio i padroni, o nelli territori regii o di baroni, o d’università (i Municipii), o di altri particolari. Come intesissimo dell’antiche istorie, li cadde in mente far lui quest’industria, con addossarsi il peso di provvedere a tutti d’erba, e con tal rendita rendere più opulento il suo erario per la conservazione del regno… Con tali riflessioni il suddetto re Alfonso andava disponendo l’animo suo per stabilire tal dritto di fida solo per sé, per la qual cosa considerò ancora che non poteva tutto ciò giustamente fare, senza addossarsi l’impegno di dover provvedere a tutti di erba, altrimenti si rendeva vano tentare di costringere i padroni degli animali a condurli forzosamente nei suoi soli erbaggi, quando non erano sufficienti al gran numero degli animali che calavano in Puglia. Però risolse pigliare tutti quelli territori dove solevano fidare, con contratto perpetuo e per il medesimo prezzo che soleano i padroni venderli, nel qual caso, non apportando verun danno ai suoi vassalli, poteva lecitamente costringere i padroni degli animali a calarli nei suoi soli erbaggi”
https://manganofoggia.it/gli-aragonesi-e-la-dogana-delle-pecore/
(6) https://manganofoggia.it/gli-aragonesi-e-la-dogana-delle-pecore/
(7) Furono individuate 23 locazioni principali divise a loro volta in poste; esse erano ubicate in:
Aprocina – Lesina – Arignano – Sant’Andrea – Casalnovo – Candelaro – Castiglione – Tressanti – Pontalbanito – Cave – Orta – Ordona – feudo – Cornito – Vallecannella –Salsola – San Giuliano – Salpi – Trinità – Canosa – Camarda – Andria – Guardiola.
Le locazioni aggiunte erano situate a S.Giovanni e Rodi Garganico – S.Giacomo e Monte S.Nicandro – Lama Ciprana – S.Chirico – Fontanelle – Veresentino – Farano – S.Lorenzo – Fabrica – Correa grande e piccola – Siponto – Stornara – Stornarella – Camarelle – Quarto delle Torri – S.giovanni in cerignola – Canne – Gaudiano – Parasacco.
Nel tavoliere si entrava attraverso sei passi obbligati: Guglionisi e Civitate – Ponterotto – la Motta – Biccari e S.Vito – Ascoli e Candela – Melfi e Spinazzola. A guardia di questi passi c’erano i cavallari..
(8) G. Barbieri, La produzione delle lane italiane dall’età dei comuni al secolo XVIII , in «Economia e Storia», a. XX, 1973; A. Clementi, L’arte della lana in una città del Regno di Napoli (secoli XIV XVI) L’Aquila, 1979; J. Heers, La mode et les marchés des draps de laine: Gênes et la montagne à la fin du Moyen Age, in «Annales. Economie-sociétés-civilisations», a. XXVI, 1971; H. Hoshino, L’arte della lana in Firenze nel basso medioevo. Il commercio della lana e il mercato dei panni fiorentini nei secoli XIII-XV, Firenze, 1980; F. Melis, La diffusione nel Mediterraneo occidentale dei panni di Wervicq e dellealtre città dela Lys attorno al 1400, in Studi in onore di Amintore Fanfani, vol. III, Milano, 1962; Id. La formazione dei costi nell’industria laniera alla fine del Trecento. Dalla «tosatura» della pecora alla vendita del panno, in «Economia e Storia», a. I, 1954; Id. Uno sguardo al mercato dei panni di lana a Pisa nella seconda metà del Trecento, in Problemi economici dall’antichità ad oggi. Studi in onore del prof. Vittorio Franchini nel 75° compleanno, Milano, 1959; G. Rebora, Materia prima e costi di trasformazione nel promemoria di un lanaiolo veneto della fine
del Quattrocento, in «Rivista Storica Italiana», LXXXIII, 1971;