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IL POTERE DEL LUOGO: LO SPAZIO DELL’INSTALLAZIONE COME SPAZIO DI “SENSO”-DI ANTONIO ZIMARINO

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Foto: “Michele Giangrande, Stargate, 2015, site specific Cripta Cattedrale di Atri” 

Redazione-Lavorando con l’arte contemporanea rimango sconcertato spesso di tante cose, una di queste è il rapporto tra mostra e luogo che la ospita. Nel lavoro di curatela, non sempre il committente di un progetto dispone di luoghi espositivi canonici per cui, a partire  dall’incarico si inizia a preparare una mostra con delle idee, ragionando su problemi tecnici, logistici, di comunicazione, di scelte … e ci si fa una certa idea, un certo progetto. Poi ci si trova in un certo tipo di ambiente, che magari hai visto nel sopralluogo individuandone alcune sue suggestioni o particolarità ma che poi, al momento di operare con gli artisti i tecnici non si rivela proprio così lineare rispetto a come l’avevi pensato “a tavolino”. Non è raro che ci si trovi ad operare in spazi che sono magari all’antitesi del white cube delle gallerie o di luoghi museali / espositivi canonici, già in qualche modo predisposti a valorizzare qualsiasi cosa se ben isolata o illuminata.

Molti luoghi invece hanno un potere speciale: impegnano il ragionamento, fanno vedere all’artista e al curatore prospettive e possibilità completamente diverse, persino nel senso del proprio lavoro.

Da un lato questo “potere del luogo” farebbe pensare ad una sorta di “debolezza” di una idea progettuale che potremmo stigmatizzare negativamente come adattamento, adattabilità e quindi, implicitamente, mancanza di coerenza o persino “liquidità”. Come se dovessimo indebolire l’idea originaria per adattarla alla circostanza e quindi depotenziare l’originalità dell’opera nella sua concezione.

Ma nelle vicende dell’arte contemporanea, direi grazie a dio, o grazie forse all’intelligenza stessa dell’Uomo, non ci troviamo di fronte a monadi , anzi, piuttosto, quella variabilità interpretativa e percettiva che spesso essa offre e che da un punto di vista potrebbe sembrare la sua debolezza, finisce per essere la sua peculiarità. Adattarsi non vuol dire solamente “perdersi” ma vuol dire anche comprendere e comprendersi, comprendere il rapporto con un luogo, cercare il rapporto con il contesto, con una armonia visiva e concettuale con ciò che ci circonda. In pratica una delle caratteristiche di molta creatività contemporanea è quella di non vedersi solo di fronte a se stessa, ma di impegnarsi ad una relazione contestuale. Ed è questo che mi colpisce profondamente: come l’idea, la lettura e le percezioni cambino nella relazione con un luogo, con altre persone, con l’interazione del contesto, con le luci, la natura, lo spazio, con un muro, con un’altra opera.

La sensibilità di capirsi dentro qualcosa e non fuori da essa è forse uno dei più grandi doni che l’esperienza dell’arte contemporanea presenta oggi alla cultura. L’arte è molto di più di ciò che comunica nel suo livello figurale e comunque rinnova se stessa nella relazione contestuale.

E’ questa la peculiarità del site-specific, dell’installazione: essa vive nel contesto, acquista il senso pieno di sé perché in “relazione con”. Ma dobbiamo accettare il fatto che la relazione è movimento, è processo, è evoluzione e i contesti cambiano.

Comincio a pensare che il fatto che un’arte si manifesti “contestualmente” non sia un limite dell’arte ma in realtà, una sua qualità aggiunta. Noi temiamo la transizione, temiamo il cambiamento pensiamo che sia incertezza, inconsistenza o memoria. Ma in realtà è tutto il nostro vivere che è così: da occidentali pensiamo che la verità sia stasi ed immutabilità, sempre vera e sempre se stessa.

Ma invece è l’arte stessa che ci dice il contrario, perché il pensare stesso è processo ed è procedimento. Quel che è pensato come “vero” lo è forse per il momento in cui è stato pensato, ma dopo cambia tutto, coordinate idee, valori, e persino paesaggi, città, … e quindi modi di interpretare, leggere capire, confrontare. Insomma la questione, il problema dell’allestimento, mi fa pensare che la transitorietà non sia debolezza ma la condizione essenziale dei processi, e tutto è “processo” nel tempo.

Una tale riflessione non mi spinge però ad affermare che una cosa, poiché legata alla transizione, non sia vera. E’ l’arte contemporanea che mi dimostra che non è così: l’esperienza che si realizza in una mostra, in una installazione non è “niente”, non è altro da ciò che l’opera è, ma poiché contestuale, è La Verità di quel contesto.

E’ una categoria insufficiente? A me sembra di no, perché quella “verità” sperimentata in quel contesto non è “persa” diventa parte della nostra “costruzione” come uomini, parte del processo e da direzioni al processo perché lì, in quella particolare condizione, abbiamo percepito e abbiamo avuto un rapporto emozionale, estetico e intellettuale con quell’opera. E’ come se una esperienza, sia pur contestuale diventi un “nodo” che mette insieme cose composite e che costruisca un tessuto, un disegno che si apre progressivamente. L’importante di fronte alla “transizione” costante è la coscienza della sensatezza profonda provata in quel “nodo”. Esso non muore: piuttosto viene assimilato, interiorizzato, ricordato, riconfrontato e diventa base, elemento processo per futuri percorsi e futuri incontri.

Dico questo perché di recente ho lavorato con un artista che aveva pensato per uno spazio molto particolare, un tipo di lavoro: lo spazio mistico di una cripta, in origine doveva ospitare delle strutture che ricordavano “ingranaggi” tecnologia, razionalità, meccanismo … quasi in contraddizione significativa con lo spazio. E mi sembrava una bella proposta significativa, densa, capace di innescare processi, ragionamenti etc. e invece, provando e riprovando, la suggestione del luogo ha trasformato, nel dialogo con lo spazio, la sua storia, la sua identità, il curatore, completamente, ma nemmeno così inaspettatamente il suo senso. Direi quasi che è stato il dialogo tra luogo e oggetto creato dall’artista a sviluppare un “senso” completamente altro da ciò che si era pensato. E abbiamo visto i significati cambiare davanti ai nostri occhi e prendere l’unica forma possibile che dentro di noi acquisiva completezza

Da ingranaggi si sono trasformati in una sorta di “occhio” di “pupilla” collocata in una posizione tale da farla sembrare non solo sguardo, ma anche porta di accesso. E questa pupilla con un altro degli “ingranaggi” disposto a terra, diventava quasi un altare, si sacralizzava in uno sguardo interiore / esteriore laico ma profondo, ricordando al contempo le articolate strutture delle “ruote” del Grande e del Piccolo Veicolo del buddhismo, ma anche una sorta di sole / occhio / ostensorio / rosone cioè di presenza di una totale altra “alterità” rispetto al progetto originario.

Insomma il significato ha preso forma nel dialogare con contesto, nell’aprirsi alla comprensione dell’attimo e del presente. E queste scelte ci hanno lasciati soddisfatti e sereni.

Cosa ha visto in mostra il pubblico? Ha visto la verità di quell’attimo, qualcosa che lo “formerà” che costruirà in lui un “nodo” di senso nuovo e diverso.

E questa è debolezza? E questo è adattamento? E questa è inconsistenza? No. Questo è il senso del Contemporaneo, così come ce lo presenta Giorgio Agamben:

“… contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo”. [1]

E qui non posso che citare interamente un paio di pagine di un mio libro: lo so che è brutto auto citarsi, ma mi sembra che quest’esperienza fatta sia la conferma di quanto segue sia vero. Li dove come “vero” non riesco più a pensare una cosa immutabile in se stessa, ma come “vero” si debba intendere adesso non l’oggetto ma la complessa mobilità di relazioni reali e concettuali che ne costruiscono costantemente il “senso”

“Avere a che fare con la Contemporaneità significa imparare a muoversi in modo attento, cosciente, osservando dentro l’Indeterminatezza, cercando di cogliere nella tenebra, luci sfuggenti di senso e significati. Si tenta di tenere lo sguardo fisso nel buio di un’epoca, nonostante l’indeterminatezza stessa, ponendosi in leggero scarto dal Tempo stesso (per non adeguarsi ad esso) e afferrare così, bagliori e luci possibili, perché in fondo, è ciò che non conosciamo che ci attrae, è ciò che non conosciamo che ci spinge a tentare di comprendere. [2]

Emilio Garroni sostiene che l’arte contemporanea è sostanzialmente un modo di “guardare attraverso” il contemporaneo stesso per provare a rilevare/rivelare “ciò che permane”, il mistero dell’esistere, tentando di superare la prigione della molteplicità contingente dei fenomeni in accadimento.

Per Romano Gasparotti questo “guardare attraverso” dell’arte contemporanea è sostanzialmente una riflessione in azione sulle immagini: è una risposta all’ ”invito a pensare”, che è poi la radice profonda tanto dell’arte nel presente che della Filosofia. Questo invito corrisponde ad una costante apertura ed è quindi, “non definizione” necessaria delle questioni: senza questo invito, senza questa apertura non potrebbe esserci alcuna circolazione di senso e, in ultima analisi, il mondo non sarebbe un mondo:

 

 “… l’arte inaugura ogni volta un mondo. Ed è per questo che sono i quadri, e in generale le opere d’arte, ciò che ci educa a vedere il mondo”. [1]

Diciamo che questa “esperienza” di cura di mostra, mi ha educato a vedere un mondo

che non mi aspettavo di scoprire.

[1]          _ Gasparotti, 2007, pp.24-28:p. 28.

 

 

[1]          _  Agamben, 2008, p. 15

[2]          _  Agamben, 2008, p.8-9; 14 – 16; 23 – 25

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