INTERVISTA AD ACHILLE BONITO: “OLTRE I NAZIONALISMI, LA COSTRUZIONE DELL’EUROPA NELL’ARTE DEL SECOLO ‘900”
Redazione- La carta geografica dell’arte del ‘900, in termini di linguaggi e ricerca, ha subito, soprattutto nel secondo dopoguerra del XX secolo, molteplici limature ai bordi e lungo i confini. Al contrario di ciò che avveniva entro le frontiere americane dove si esercitava una costruzione prolungata sul proprio presente storico, la cultura europea impaginava, in alcuni casi, persistenti rimandi a modelli e matrici legate al suo passato. Ecco la ragione per cui ne parliamo con Achille Bonito Oliva, teorico e critico di quel movimento eccezionale che fu la Transavanguardia.
Rispetto agli altri movimenti artistici, in che termini la Transavanguardia, da lei teorizzata negli anni ’70, ha contribuito a creare i presupposti ideali per la costruzione di un’idea di Europa?
È una realtà plurinazionale l’Europa, un continente. Non nell’accezione di un mero contenitore di popoli e lingue, bensì un enorme bagaglio di conoscenze linguistiche, geografiche, un melting pot di culture che porta quindi, dietro di sé una ricca eredità di storie e racconti diversi. L’arte in quanto tale, è consistenza delle differenze, e la Transavanguardia da me teorizzata, ha costituito un caso unico in quegli anni, contribuendo alla costruzione dell’Europa in termini d’identità, e in direzione di un assortito riallestimento delle molteplicità e delle tecniche artistiche. Non ha rappresentato, com’era stata fino a quel momento l’arte americana, un’entità mossa dalla forza della supremazia, né ha voluto immaginarsi come una fugace cometa che prevalesse su altri movimenti artistici. “Gli americani (…) si sentivano un popolo giovane alla conquista del primato mondiale”- la cultura, l’arte europea implicava invece “il problema storico, cioè del rapporto tra il presente e il passato”, un’antichità del tutto assente nella storia dell’America.
Se ritiene ancora corretta la definizione di Transavanguardia come “forma nomadica dell’artista creativo che cita i linguaggi del passato come ready made”, allora com’è riuscita a sfidare l’americanismo imperante e in generale i nazionalismi anche in un momento storico in cui l’arte proponeva in modo costruttivo un desiderio di rivalutazione positiva pur tenendo conto dei processi di cambiamento che stavano avvenendo?
Nel recupero delle radici e impostando alla base del discorso il problema identitario. A dispetto di come oggi vedo il mondo dell’arte, quasi in un’ottica di rappresentazione autarchica, la Transavanguardia invece, ha riabilitato e rispolverato il concetto di genius loci nella giusta prospettiva di meticciato culturale. Usando principalmente il linguaggio pittorico, nell’intreccio delle diversità, la Transavanguardia ha “progettato il passato” per dare a un’utenza attenta una più vasta possibilità di fruizione. E forse ha incarnato il segno dell’ultima traccia di disseminazione creativa. Anche in termini cronologici, affermandosi dopo l’assunzione a primate dell’arte americana che con la Land art, l’arte concettuale o le istallazioni aveva predominato fino a quegli anni, gli artisti della Transavanguardia hanno riabilitato il tema dell’identità, un carattere, per cosi dire, del “molteplice”. Le cosiddette “tribù dell’arte” erano formate da gruppi di artisti anche di diversi paesi che, di fatto “hanno rinnovato linguaggi e comportamenti collettivi, incidendo persino nella mentalità di artisti delle nuove generazioni”.
Ha ancora senso oggi parlare di un’arte che mette in discussione l’ottimismo produttivo dell’economia occidentale, rispetto a un movimento come quello da lei “preconizzato” che intravedeva la speranza di un’arte che si muoveva in termini di “nomadismo culturale” per recuperare il passato in quanto memoria e principio di citazione?
Oggi, l’arte non va in quella direzione. Allora non vigeva, o perlomeno, non predominava il senso di autarchia che sembra permanere oggi, né l’artista era sollecitato da una ricerca spasmodica di affermazione, per altro puramente egocentrica e retorica. La forza della Transavanguardia è stata la sua capacità di accogliere e anzitutto abbracciare le eterogeneità più autentiche perché si sostanziava su una visione di superamento delle avanguardie storiche. Operava con un atteggiamento di massima apertura pur muovendosi in un contesto di catastrofe, com’era quello degli anni ’70, di “smottamento politico, morale, economico e culturale”. La meteora della Transavanguardia, vista la situazione generale di quel periodo, di quegli anni “di piombo”, in cui non poteva più sussistere la stessa fiducia nel futuro di prima, ha reso l’artista disponibile a utilizzare il passato, ossia la memoria. Pertanto, poiché per le stesse ragioni, l’arte non poteva più seguire il principio di invenzione e di originalità, si è riappropriata semmai di quello di citazione, mentre, parallelamente si è fatta traino per un recupero fattivo di tutte quelle tecniche che sembravano diventate ormai obsolete.
In definitiva occorre ribadire che, a quell’altezza cronologica, la Transavanguardia ha contribuito a formare non soltanto uno sguardo più critico, appuntito sui fatti d’arte ma soprattutto un punto d’osservazione più orizzontale poiché essendo venuti a mancare quella fiducia nel futuro e latitando, nei confini territoriali dell’Occidente, un sentimento di ottimismo produttivo, anche l’arte andava attraversando un momento di crisi. Una crisi che però non tutti gli artisti hanno saputo cogliere o rielaborare per il meglio. Tanto è vero, che sono stati solo un numero ridotto di cinque personalità quelle intercettate e considerati come artisti di punta da Bonito Oliva. E non è neppure un caso se al di là della loro provenienza, la Transavanguardia, incarnando il concetto di genius loci, ha voluto superare e svecchiare quell’idea di territorialità ormai desueta. C’erano si, tre grandi italiani, le tre “c” rappresentate da Enzo Cucchi, Sandro Chia e Francesco Clemente, ma finalmente oltrepassando quei confini mentali che ricalcavano un’idea di puro nazionalismo, non aveva ormai più senso ripercorrere strade che portassero ancora una volta alla difesa di un’arte nazionale,
patriottica, ovunque essa avesse avuto origine.
Fonte: “TITOLO”, n. 19, estate 2019, direttore Giorgio Bonomi