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” GENNARO FINAMORE TRA RICERCA FOLKLORICA ,DIALETTOLOGIA ED INSEGNAMENTO ” – DI VALTER MARCONE

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Redazione-  Il 9 luglio 1923 moriva a Lanciano Gennaro Finamore medico ,antropologo ed etnografo che aveva studiato per tutta la vita gli usi e costumi abruzzesi contribuendo agli studi folklorici italiani e non solo. A cent’anni dalla sua morte, era nato a Gessopalena l’11 agosto 1836 ,le amministrazioni comunali di Lanciano e Gessopalena, con i sindaci Filippo Paolini e Mario Zulli,la fondazione Pescaraabruzzo presieduta da Nicola Mattoscio e la Rivista Abruzzese diretta da Lia Giancristoifaro docente all’Università di Chieti-Pescara ,hanno organizzato un convegno di studi che si è tenuto l’8 a Pescara e il 9 luglio a Gessopalena sul tema Gennaro Finamore e lo studio delle dinamiche di sviluppo dei territori interni. Il focus è stato rivolto al concetto di localismo, visto l’impoverimento demografico e, di conseguenza culturale, delle aree interne dell’Abruzzo e di tante altre realtà locali.

Il convegno internazionale di studi dal titolo “Gennaro Finamore tra ricerca folklorica, dialettologia e impegno educativo”, ha inoltre fatto anche il punto , dopo il saluto del presidente della Regione Abruzzo, Marco Marsilio e del rettore dell’università di Chieti-Pescara, Liborio Stuppia, attraverso le relazioni di eminenti studiosi , sui diversi aspetti della ricerca e degli studi del e sul Finamore : dall’etnologia, all’antropologia, alla demologia, delineando un profilo quanto più esaustivo dello studioso abruzzese .

L’opera di Gennaro Finamore ha contribuito a fare la storia degli studi folklorici europei. L’Abruzzo e in particolare la sua Lanciano al tempo di Finamore erano caratterizzati da una economia silvo pastorale del retroterra collinare e montagnoso al cui mito aveva contribuito l’opera dello stesso Gabriele D’Annunzio e da un sistema retto dal classico binomio monte/piano. Un sistema sviluppatosi attorno a tre direttrici : la transumanza e le migrazioni periodiche che hanno garantito per secoli una coerente integrazione economica e sociale; la preponderante montuosità che ha reso il rapporto tra l’uomo e l’ambiente difficile e precario; la realtà del Fucino con le sue eccezionali vicissitudini della vita di quell’ambiente e di quella di chi vi abitava e lavorava. Una economia che si giova, attuando un certo sviluppo . anche delle rimesse degli emigranti , fenomeno preponderante in quel periodo anche con la nascita di numerose aziende creditizie .

Scrive Gabriele Sabatini : “ Ancora alla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento l’Abruzzo aquilano presentava le produzioni tipiche dell’economia agro-pastorale, assai più diversificate rispetto a quelle caratteristiche del Mezzogiorno – consistenti soprattutto in grano, vino e olio – sulle quali si erano concentrati maggiormente gli interventi legislativi in materia di credito agrario negli anni post-unitari. Il sostegno a queste produzioni tipiche diffuse in tutta la provincia – dallo zafferano della zona di Navelli alla lana e ai prodotti caseari legati all’allevamento ovino dei circondari di Sulmona e Castel di Sangro – la cui necessità era stata avvertita sin dagli anni immediatamente successivi all’Unità, assumeva un significato del tutto particolare nel momento in cui, di fatto, si decideva della loro stessa sopravvivenza, a fronte della grave crisi economica che vivevano le aree dell’aquilano maggiormente legate ad esse. In questo senso riveste particolare interesse rilevare lo scollamento tra le scelte di politica del credito adottate dai principali istituti dell’area e le battaglie che contemporaneamente venivano portate avanti nel Parlamento nazionale dal barone Giuseppe Andrea Angeloni, probabilmente la più interessante e completa figura di deputato proveniente dalla provincia dell’Aquila nel primo trentennio post-unitario.

Il tema dell’emigrazione riconduce a trattare degli aspetti creditizi della crisi dell’economia dell’area aquilana, giacché con questo fenomeno si attiva un circuito creditizio diverso e parallelo a quello delle banche, alimentato dal meccanismo delle rimesse e del risparmio postale. In questo senso, la situazione del credito dell’area più interna dell’Abruzzo negli anni a cavallo del cambio di secolo trova la sua descrizione più sintetica e immediata – nonché a tratti davvero drammatica – nella relazione di Cesare Jarach pubblicata nel 1909 all’interno degli Atti dell’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini meridionali, relazione che si concentra soprattutto sui problemi del credito agrario, ma che getta una luce abbastanza precisa sull’intero settore. (1)

Gennaro Finamore si laurea in medicina e inizia la sua professione in uno scenario socio politico ed economico che diventa il suo principale osservatorio . Le condizioni igienico sanitarie, ma anche quelle economiche sono quelle di una condizione di povertà e quasi di sussistenza. Eppure ,in simili situazioni di precarietà, le persone a cui si dedica professionalmente Finamore, conservano e vivono un forte rapporto con le tradizioni. Un legame che lentamente Finamore inizia ad indagare con una metodologia storiografica ed etnografica che è alla base delle antropologie culturali contemporanee. Gli studi che Finamore conduce in Abruzzo tra Ottocento e Novecento si intrecciano con la questione dell’unificazione del Paese e del suo Mezzogiorno . Ne è dimostrazione uno dei suoi primi studi , il suo pamphlet edito nel 1872 dal significativo titolo : “ Delle condizioni economico-agricole di Gessopalena. Manualetto di agricoltura pratica abruzzese.”

Questo studio è in linea con il fermento di indagini e di studi socio culturali sulle regioni di una Italia post-unitaria insieme al fenomeno del brigantaggio per il Mezzogiorno . L’Inchiesta sulle condizioni della classe agricola in Italia, decretata con la legge del 15 marzo 1877, rappresenta la più completa documentazione sullo stato dell’economia agraria dell’Italia post-unitaria. Gli atti dell’inchiesta, pubblicati dal 1881 al 1890, furono riassunti nella relazione finale del presidente della giunta, il senatore Stefano Jacini, che denunciò il disinteresse dei vari governi che avevano guidato il Paese nei confronti dell’agricoltura, che pure forniva allo Stato la maggior parte del reddito nazionale, senza ricevere in cambio né capitali, né stimoli o incentivi per il suo sviluppo. (2)

L’indagine, che aveva avuto per oggetto le caratteristiche della proprietà fondiaria, le colture e i metodi di coltivazione, le condizioni di vita dei contadini, rivelava come a vent’anni dall’unificazione permanessero differenze che andavano dalle limitate zone a coltivazione intensiva e con sistemi aziendali e tecnici avanzati alle grandi estensioni della proprietà agricola delle famiglie nobiliari che davano in fitto con diverse specie di contratto appezzamenti coltivati quindi in maniera arretrata senza fertilizzanti, macchine agricole e disponibilità di capitali. Appezzamenti affidati al lavoro delle famiglie contadine che ne ricavavano i mezzi di sussistenza e poco altro . Limitata era la piccola proprietà agricola, generalmente a coltivazione familiare e con appezzamenti minuscoli e distanti tra loro. L’aspirazione alla terra rappresenterà sempre uno dei maggiori desideri che quasi sempre si realizzerà con l’acquisto di appezzamenti, spesso i peggiori dal punto di vista agricolo, dei grandi latifondi di cui i proprietari terrieri se ne disfano. L’acquisto si realizzerà da parte di emigrati che tornano in patria e con i pochi risparmi del lavoro in terra straniera, acquistano terre che per le mutate condizioni economiche del paese hanno poco valore.

Quindi l’inchiesta osservava le condizioni socio ambientale della vita nelle campagne e del mondo del lavoro contadino, della vita delle famiglie contadine, degli usi, costumi, tradizioni e condizioni sanitarie. Il risultato come detto fu un’indagine capillare e meticolosa, ricca di dati e di informazioni che descrivevano in maniera realistica un quadro complessivo della cultura contadina dei primi anni del ‘900.

La parte dell’inchiesta Jacini che si occupava dell’Abruzzo e Molise fu firmata dal delegato Cesare Jarach.. Questo capitolo fu pubblicato poi nel 1907. Grazie alla partecipazione attiva degli agricoltori e dei contadini che offrirono di buon grado il loro contributo e il loro aiuto, Cesare Jarach, il delegato tecnico cui era stato affidato l’incarico, potè fotografare la situazione e descrivere per la prima volta un Abruzzo contemporaneo con una ricchezza di particolari e di dati che rappresentano ancora oggi una fonte indispensabile per capire la realtà post unitaria della regione. Contribuì inoltre in modo determinante anche alla diffusione e al miglioramento degli studi di storia abruzzese . (3)

D’altra parte quegli studi trovarono nel corso dei decenni successivi un largo sviluppo, in ogni direzione grazie all’opera di ricerca e di studio di alcuni intellettuali e uomini d’azione del tempo . Mi limito a citarne solo alcuni con particolare riferimento all’area interna come Antonio De Nino(1833-1907), Giovanni Pansa (1865-1929), Pietro Piccirilli (1849-1921), Pietro De Stephanis,(1807-1894) Giuseppe Celidonio ,(1852-1913) Leopoldo Dorrucci (1815-1888), Panfilo Serafini (1817-1864),Nunzio Federico Faraglia (1841-1920) solo per fare alcuni esempi . (4)

Un mondo otto-novecentesco quello di Finamore caratterizzato anche dalla possibilità di una larga diffusione degli studi attraverso riviste ma anche attraverso la stampa di volumi per la presenza nella regione di tipografie fin dal 1481, quando l’arte della tipografia fu introdotta in Abruzzo, anzi in Italia, da Adamo da Rottweill allievo e collaboratore di Johannes Gutennberg , l’inventore della stampa a caratteri mobili, che aveva ottenuto da quest’ultimo il permesso di aprire una tipografia a L’Aquila , città in cui si trasferì nel 1481,ottenendo il 5 novembre dello stesso anno anche la concessione del magistrato cittadino e iniziando così la propria attività di stampatore. Un’arte che vide nei secoli una schiera di tipografi imprenditori, di editori , ma anche di tipografi politicamente orientati come, solo per fare un esempio, gli Angeletti di Sulmona,padre e figlio, che furono condannati e imprigionato dal regime borbonico per aver messo la loro arte al servizio delle idee risorgimentali di libertà e di unità nazionale .

Per quello che riguarda dunque la diffusione degli studi e delle ricerche , tra gli editori stampatori, va ricordato Rocco Carabba e la sua casa editrice che divenne una delle case editrici più importanti d’Abruzzo, collaborando nella pubblicazione con autori e poeti quali Gabriele D’Annunzio (di cui pubblicò la prima raccolta poetica nel 1879), Cesare De Titta e Luigi Pirandello nel 1908. La sede storica di Lanciano era Villa Sciarra all’ingresso del viale Cappuccini, e la storica stamperia in via Ferro di Cavallo. attiva dal 1878 al 1950 e dal 1996 in poi . Si deve alla casa editrice del Carabba la pubblicazione alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento di numerose opere raccolte in collane e dal 1909 la pubblicazione dei volumi della collana Cultura dell’anima, ideata da Giovanni Papini e impreziosita dalla copertina disegnata da Ardengo Soffici . Papini curò anche la collana Scrittori nostri. Per l’editore lancianese lavorarono anche Salvatore Di Giacomo, ideatore della collana I Santi nell’arte e nella vita, Giovanni Rabizzani con la collana L’Italia negli scrittori italiani e stranieri, antichi e moderni, Giuseppe Antonio Borgese con i Classici antichi e moderni, Eva Kuhn moglie di Giovanni Amendola e ideatrice delle collane per l’infanzia i Classici per il fanciullo e Libri per fanciulli.

Proprio questo editore offrì la sua collaborazione a Gennaro Finamore per la pubblicazione di studi sulle tradizioni popolari abruzzesi, Nel 1880, a Lanciano, Finamore infatti pubblica il suo “Vocabolario dell’uso abruzzese”, uno dei primi dizionari dialettali in Italia e nel 1898, sempre con lo stesso editore, pubblica “Dialetto e lingua”, in cui si pone il problema dell’alfabetizzazione nelle campagne, e decine di altre opere su credenze, usi e costumi abruzzesi, tradizioni popolari, canti e novelle. La seconda edizione del Vocabolario apparve nel 1893 a Città di Castello. In essa il Finamore prende come base di riferimento il dialetto di Lanciano, affrontando anche nei singoli lemmi le altre parlate della regione. Un evidente affinamento della metodologia investe tanto la parte grammaticale, quanto quella lemmatica, scissa in due sezioni (italiana-dialettale e dialettale-italiana) e notevolmente ampliata rispetto all’edizione precedente. Anche questa volta l’opera ebbe successo di critica e di riconoscimenti.

Per l’elaborazione di questi studi e la composizione delle varie opere Finamore stringe un sodalizio con Antonio De Nino (5) che attraverso una collaborazione e scambio di informazioni e conoscenze contribuisce alla creazione di una disciplina demoantropologica secondo moderni criteri di rilevazione e studio.

Tra il 1877 ed il 1907, “… si profila per De Nino, d’intesa con il Finamore e altri i intellettuali abruzzesi tra i quali Gabriello Cherubini, Raffaele Persiani, Biagio Lancellotti, Pietro Cerritelli, Gennaro Mezucelli, Vincenzo Zecca, Giulio De Petra, si profila, dicevo, l’idea di fondare una Società Storica, sulla scorta di quanto, ancor prima, nel 1839, Luigi Dragonetti aveva già progettato” (Clementi, 1987). Sembrando che questa associazione stesse sul punto di costituirsi, non fece mancare la sua adesione. Pur essendone stato il primo ideatore, come è documentato dall’epistolario relativo alla Società di Storia Patria pubblicato da Giuseppe Rivera nel 1907, il suo nome apparirà soltanto quale socio fondatore, insieme ad altri illustri esponenti della cultura aquilana. Tuttavia, proprio per ricordarlo tra i soci benemeriti ed illustri, gli fu conferito il titolo di Socio Onorario del sodalizio, non essendo ancora delineata la figura del Deputato. Il percorso deniniano fu certamente stimolato ed indirizzato nel metodo, rigoroso e scientifico, di ciascuna delle discipline perseguite, dai rapporti intellettuali e di amicizia con alcuni dei più importanti studiosi e patrioti dell’epoca: con Nicolò Tommaseo, per gli studi linguistici, con Atto Vannucci, per la ricerca demoantropologica ed archeologica.

Con G. Pitrè, vero maestro della ricerca demologica in Italia e fondatore a Palermo dell’Archivio delle tradizioni popolari (1882-1907) Finamore instaura una collaborazione intensa , testimoniata anche dal carteggio epistolare durato venti anni . Nei fascicoli della rivista diretta dal Pitrè apparvero molti suoi saggi . sul folclore abruzzese, basati sui principi metodici elaborati dalo stesso Pitrè, dalle Storie popolari in versi (1882) alle Tradizioni popolari (1883-84 e ’90), dalle Novelle popolari (1885-86) alla Botanica popolare (1889).

Gli studi che Finamore conduce in Abruzzo tra Ottocento e Novecento si intrecciano,come già detto, con la questione dell’unificazione del Paese e delle sue periferie: in maniera molto concreta e all’insegna dell’interdisciplinarità, lo studioso suggerisce piste che meritano di essere esplorate.

Dopo aver contribuito a fondare gli studi folklorici italiani, Finamore lascia la professione medica per insegnare al Liceo Ginnasio “Vittorio Emanuele II” di Lanciano, dove diviene preside e sperimenta programmi didattici incentrati sulla cultura nazionale ed europea ma anche sulla conoscenza e sul rispetto delle culture regionali.

Gennaro Finamore ha prodotto opere che hanno contribuito a fare la storia degli studi folklorici europei. Secondo Giammarco il suo metodo nello studio del dialetto, “guidato dal D’Ovidio e da Clemente Merlo, è quello scientifico, secondo gli indirizzi della scuola neogrammatica tedesca” . Da medico, osserva gli abitanti delle campagne abruzzesi i quali, nonostante vivano in povertà e in condizioni igienico sanitarie precarie, mantengono un forte legame con le tradizioni, i proverbi, i canti e le credenze popolari. Da qui, Finamore sviluppa un interesse per le tradizioni popolari e il dialetto, che indaga con la metodologia storiografica ed etnografica tipica dell’antropologia culturale.

Alla fine degli anni Ottanta tra queste opere edite da Carabba di Lanciano Finamore venne pubblicando un primo corpus organico dei suoi studi .: i tre tomi delle Tradizioni popolari abruzzesi.

Il primo volume, diviso in due parti (1882 e 1885), contiene 112 “novelle” raccolte “dalla viva voce di donne per lo più campagnuole ed analfabete” (p. III) e distinte a seconda delle località di provenienza. Nella prefazione l’autore dichiara di essersi limitato a trascrivere fedelmente le narrazioni come “studi del vero” (p. VII), per fornire materiale agli studiosi di folclore comparato. Tra le due parti si notano differenze nell’apparato critico, più copioso e dettagliato nella prima, più sommario nella seconda.

Nel secondo volume (1886) sono raccolti 665 “canti”, tutti in dialetto, divisi in varie sezioni (“fanciulleschi”, “d’amore”, “scherzosi”, “sentenziosi”, “dell’altalena”, “preghiere e canti religiosi”). Anche qui il F. propone i testi a chi intenda affrontare l’impegno di una trattazione comparativa; tuttavia segnala numerose varianti raccolte in diverse località della regione.

La prospettiva multidisciplinare di Finamore ispira il saggio L’Abruzzo. Note statistiche (Lanciano 1888), nel quale, attraverso uno studio degli aspetti economici e sociali della vita regionale, egli sostiene l’opportunità di sfruttarne le caratteristiche climatiche a fini terapeutici. Dalla partecipazione del F. alle iniziative culturali del Pitrè nacquero nell’ultimo decennio due opere, Credenze, usi e costumi abruzzesi (1890) e Tradizioni popolari abruzzesi (1894), inserite rispettivamente come VII e XII volume nella collana delle “Curiosità popolari tradizionali”, pubblicate a cura dello studioso siciliano a Palermo. Nell’ultimo trentennio della sua vita il Finamore collaborò intensamente, con saggi di folclore, dialettologia, storia, a vari periodici culturali abruzzesi, nonché a riviste straniere, come Romanische Forschungen di Erlangen in Germania. Il carteggio col Pitrè è stato edito da M. C. Nicolai (G. Finamore – G.Pitrè, Epistolan; 1880-1915, Pescara 1988). Mentre una esauriente bibliografia de i suoi scritti fino al 1962 si trova in R. Aurini, Dizionario bibliografico della gente d’Abruzzo, IV, Teramo 1962, pp. 277-289. Cfr. anche G. Profeta, Bibliografia delle tradizioni popolari abruzzesi, Roma 1964, passim. Negli anni recenti varie opere del F. sono state ripubblicate anastaticamente o in nuove edizioni.

(1)Gaetano Sabatini, L’agricoltura abruzzese tra Ottocento e Novecento: trasformazioni e continuità, in L’Abruzzo nell’Ottocento, Pescara, Ediars, 1997, pp. 61-72.

(2)https://www.sba.unifi.it/p575.html#

(3)Vol. II, Abruzzi e Molise Tomo I, Relazione del de- legato tecnico dott. Cesare Jarach

(4)Giovanni Pansa (1865-1929) nacque a Sulmona nel 1865 e vi morì all’età di 64 anni. Laureato in giurisprudenza a Roma fu appassionato di storia e archeologia. Considerato tra i maggiori studiosi abruzzesi di storia patria fondò e diresse, con Pietro Piccirilli, la Rassegna abruzzese di Scienze, Lettere e Arti. Diversi gli scritti nel campo della storia, archeologia e folklore. Tra questi Miti, leggende, superstizioni d’Abruzzo e Ovidio nel Medioevo e nella tradizione popolare. Fu per nove anni sindaco di Sulmona.

Pietro Piccirilli (1849-1921)fu un appassionato cultore e protettore del patrimonio artistico sulmonese e abruzzese, in qualità di critico d’arte e Ispettore Onorario ai Monumenti e Scavi di Antichità (ruolo nel quale succedette ad Antonio De Nino e che lo vide attivo in prima linea anche dopo il disastroso terremoto della Marsica nel gennaio 1915). Fu anche docente e direttore della Scuola d’Arti e Mestieri (attuale liceo artistico “G. Mazara”), nonché rettore del Collegio Ovidio. Con un altro sulmonese illustre, Giovanni Pansa, diede vita nel 1897 alla “Rassegna Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti” e contribuì alla fondazione della Società Regia di Storia Patria degli Abruzzi (oggi Deputazione Abruzzese di Storia Patria). Autore di numerosi saggi e articoli in riviste nazionali, la sua opera più nota è “Monumenti architettonici sulmonesi”, raccolta dei fascicoli da lui pubblicati tra il 1888 e il 1901 per i tipi Carabba di Lanciano, che ebbe vasta eco tra gli studiosi del tempo, anche a livello internazionale.

Pietro De Stephanis (1807-1894) , ha esercitato la professione di notaio coltivando contemporaneamente la passione per gli studi classici e, come studioso, ha lasciato preziosi contributi alla cultura abruzzese, anche se misconosciuti dai più.
Animato da uno spirito laico e liberale, fu più volte Sindaco e consigliere comunale di Pettorano e, in quest’ultima veste, nel 1865 fece votare dal Consiglio Comunale un ordine del giorno contro la pena di morte: per l’epoca certamente un fatto rivoluzionario, rivelatore della sensibilità del personaggio. Ed è proprio per l’attenzione che Pietro De Stephanis ha rivolto ai problemi delle classi popolari, per la sensibilità verso tematiche come la pena di morte ancora oggi ignorate da Paesi considerati avanzati, per il suo essere “cittadino del mondo” pur vivendo in uno dei luoghi più marginali del pianeta,è nata a Pettorano una associazione intitolata a so nome che ha recuperato gli scritti dello studioso e li ha resi disponibili on line.

Giuseppe Celidonio(1852-1913) nacque a Scanno, un paese di montagna in provincia di L’Aquila, il 12 luglio 1852, e qui trascorse solo i primi anni della sua fanciullezza. Prima dei sette anni si trasferì a Sulmona presso il Seminario Diocesano dove ricevette la sua formazione; subito vestì l’abito talare e qui venne ordinato sacerdote il 1° aprile 1875.La sua prima opera fu una biografia di Pietro Celestino dal titolo Vita di S. Pietro del Morrone Celestino V, del 1896, in quattro volumi. Di questo periodo è anche l’opera Le antiche decime valvensi. Collaborò alla Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte, pubblicata a Sulmona tra il 1897 e il 1900 sotto la direzione di Pietro Piccirilli e Giovanni Pansa.la sua opera più importante La Diocesi di Valva e Sulmona pubblicata in tre volumi tra il 1909 e il 1911. Era previsto un quarto volume che egli non ebbe tempo di dare alle stampe e le cui bozze di stampa furono trovate nella sua casa e stampate ad opera degli eredi; insieme ad esse venne trovato molto altro materiale dei volumi che dovevano seguire. In quest’opera egli ricostruisce la storia del territorio della diocesi dalle origini ai suoi giorni. Della sua produzione fanno parte anche molti articoli pubblicati sulla Rassegna abruzzese di Storia e Arte, saggi e altre monografie.

Leopoldo Dorrucci (1815-1888) venne ordinato sacerdote a soli 22 anni nel 1837 e nello stesso anno si trasferisce all’Aquila dove seguì prima le lezioni di Lorenzo Camilli e poi studiò nel Collegio dei Tre Abruzzi, mettendosi in mostra come buon versificatore con endecasillabi composti a condanna del trasferimento in quel Collegio. Dal 1841 al 1844 è a Napoli per frequentare all’Università i corsi di Filosofia e Matematica. Durante il soggiorno napoletano, oltre a studiare, lavorò come precettore presso il principe di Ottaviano e presso la famiglia Statella. Collaborò a vari giornali e riviste artistiche filosofiche e letterarie come “Progresso”, “Giornale enciclopedico”, “Poliorama pittoresco” e “Giornale abruzzese”. Conobbe e frequentò i fratelli Silòvio e Bertrando Spaventa , Luigi Settembrini e Francesco De Sanctis. Quando strinse fraterna amicizia con il concittadino Panfilo Serafini sposò definitivamente la causa liberale.Rientrato a Sulmona nel 1845, si adopera per la fondazione di un Istituto di Lettere e Scienze, al fine di educare le giovani generazioni al culto della patria unita e libera e all’affrancamento dalle sudditanze borboniche e pontificie.La città di Sulmona con Teramo e L’Aquila diventava, in Abruzzo, il centro della rivoluzione per l’unificazione dell’Italia e Dorrucci, antiborbonico e fiero sostenitore degli ideali antiteocratici e liberali, finì nel mirino della polizia borbonica. Per il suo rifiuto di firmare contro lo Statuto, nel 1848 fu costretto alla fuga; riparò dapprima a Frattura di Scanno poi brevemente ad Introdacqua e quindi a Roma. Rientrò a Sulmona l’anno seguente riprendendo l’insegnamento nell’Istituto e l’attività di cospiratore per l’Unità nazionale. Alla chiusura dell’Istituto si dedicò all’insegnamento della filosofia nel locale Seminario e nello stesso anno, il ’49, gli fu proibita la predicazione.Nel 1860 fu nominato consigliere comunale a Sulmona e l’anno seguente con l’Italia finalmente unita, divenne deputato al Parlamento Nazionale di Torino, eletto nel collegio di Popoli, nell’VIII legislatura dal 1861 al 1865.Determinate fu il suo impegno parlamentare per la costruzione della tratta ferroviaria Pescara – Sulmona.

Panfilo Serafini(1817-1864) Nella notte tra il 27 e il 28 aprile del 1849, fu affisso sui muri della città un manifesto contenente un sonetto “sedizioso”, accusatorio della politica liberticida dei Borboni. La paternità di quel sonetto fu subito pretestuosamente attribuita dalla polizia borbonica a Panfilo Serafini , al quale costò l’arresto e quindi la condanna, il 21 marzo del ’54, per propaganda antiborbonica, a venti anni di ferri nel carcere di Montefusco (AV), Montesarchio (BN) e Procida.Il sonetto in verità, secondo Benedetto Croce, pare fosse opera di Leopoldo Dorrucci, che si fece carico del sostentamento economico del suo amico durante tutto il periodo della detenzione e dell’esilio poi a Chieti.

Nunzio Federico Faraglia (1841-1920) Studiò presso l’Abbazia di Montecassino con maestri come Luigi Tosti . Lavorò poi all’Archivio di Stato di Napoli di cui fu responsabile, distinguendosi per la sua attività di archivista e paeografo e per importanti studi compiuti, in particolare, sulla storia del Regno di Napoli e dell’Abruzzo in età medievale . Rigore filologico e analisi corografica caratterizzano i suoi studi , come nel caso del Saggio di corografia abruzzese medioevale, nel quale individua, a seconda delle diverse epoche, i confini dei gastaldati, contee e diocesi abruzzesi, soffermandosi anche sulla controversa origine del nome territoriale Aprutium . A lui si deve, in particolare, il ritrovamento, la raccolta di documenti pubblicati nel volume Codice diplomatico sulmonese. Importanti anche i suoi studi su Ettore Fieramosca e la Disfuda di Barletta ,sulla storia dei prezzi a Napoli (1131-1860), così come sulla storia dei comuni dell’ Italia Meridionale (1100-1806). Quest’ultima ricerca fu premiata dall Accademia Pontoniana , che ne deliberò la pubblicazione. La giuria era nell’occasione presieduta dallo storico Bartolomeo Capasso del quale proprio l’erudito abruzzese terrà la commemorazione nella tornata del 14 agosto 1900 della stessa Accademia. Zio materno di Giuseppe Capograssi , Nunzio Faraglia fu amico di Benedetto Croce condividendo con lui gli impegni di ricerca confluiti in numerosi saggi pubblicati sui periodici Napoli nobilissima ed Archivio storico per le provincie napoletane.

( 5)De Nino Nacque a Pratola Peligna nel 1833. Nel 1861 divenne maestro elementare e svolse quella professione in vari paesi della provincia dell’Aquila. Nel 1872 divenne professore della Scuola Tecnica e del Ginnasio Publio Ovidio Nasone di Sulmona. Approfondì i propri interessi archeologici e folcloristici, studiando a fondo la tradizione abruzzese. Nel 1877 fu nominato Ispettore onorario ai Monumenti e diresse numerosi scavi in Abruzzo. Iniziò anche a collaborare con Notizie degli scavi, pubblicazione dell’Accademia dei Lincei. I suoi scavi portarono a numerosi rinvenimenti, e in tutto ne avviò 107 tra Abruzzo, Molise e Lazio. Morì a Sulmona nel 1907.

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