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FILOSOFIA E SOFFERENZA-DI ROBERTO RUBINO

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Redazione-Il concetto di sofferenza sembra opporsi al concetto di salute. Dunque è interessante analizzare il significato di salute che l’epoca post moderna declina per voce dell’organizzazione mondiale della sanità (OMS): “stato di completo (perfetto) benessere fisico, psichico e sociale e non soltanto assenza di affezioni o malattia”.

La cultura post moderna offre un modello biomedico ideale, utopico e statico in cui l’assenza della malattia si accompagna al completo mantenimento delle funzioni fisiche e mentali (il termine “completo o perfetto” non prevede gradualità e si rifà  al mito dell’efficienza sociale quale parametro unico di misurazione della malattia) e assegna così alla medicina o ad altre forme di cura il prometeico compito di assicurare la felicità. Tale illusoria concezione dimentica due dati fondamentali:

  • Morbilità e mortalità sono condizioni essenziali della vita umana, sono accidenti che definiscono la natura umana e la sua condizione di vita;
  • L’esistenza umana ha un modo di essere dinamico e non statico.

Identificare dunque salute e felicità è sbagliato. Sappiamo bene che avere una grave malattia rende meno felici, ma non averla non rende felici. Non riconoscere la differenza fra salute e felicità significa che ogni disturbo alla felicità viene visto come un disturbo alla salute. E’ sbagliato perché:

  • Tutto diventa malattia: menopausa, calvizie, timidezza, un seno troppo piccolo o un addome non perfettamente piatto o denti non perfetti e dritti. Tutto è malattia. Ogni ostacolo alla perfezione fisica, psichica e sociale è malattia. La letteratura scientifica ha ampiamente denunciato il disease mongering (mercificazione della malattia) in base al quale certi produttori di case farmaceutiche non esitano ad accreditare con accurate operazioni di marketing questi comuni fenomeni fisiologici come malattie.
  • Questa visione biomedica della vita e della salute rischia di ridurre a malattia ogni situazione esistenziale non accettata e rischia di trasformare il capriccio e l’assurdità di superare i propri limiti ontologici in diritto positivo così da pretendere un diritto alla salute come diritto ad essere sani e felici. Cioè se la salute è un diritto, e tale diritto è impossibile da ottenersi, “il malato” percepisce un’ingiustizia sociale per il fatto di non godere del diritto alla salute.

Quali sono le ragioni culturali che ci hanno portato a vivere questo modello di salute?

Le radici culturali di questo modello affondano nell’aspirazione di escludere Dio dalla realtà della vita e nell’illusione che la Ragione, la scienza e la Tecnica,  la volontà di potenza potessero liberare l’uomo dai limiti che la malattia e la morte inesorabilmente pongono di fronte a lui. Nella storia così, l’Illuminismo, l’idealismo tedesco, il superonismo nicciano , il tecnicismo scientista hanno promesso assoluta autonomia e libertà (era la stessa promessa con cui il serpente ha sedotto Eva). Ma l’inganno intrinseco a questa prometeica promessa ha prodotto il disastro e la disperazione che nascono dalla pretesa di assolutizzare il proprio io sciogliendolo dai legami con la Trascendenza e dalla successiva consapevolezza dell’impossibilità di farlo (Kierkegaard).

Il dolore e la sofferenza in realtà sono legati alla nostra condizione esistenziale. Non sono cose che ci cadono addosso. Non sono  casualità che colpiscono i più sfortunati. E’ la condizione di tutti gli esseri umani (non voglio certo scivolare nelle posizioni di Schopenhauer) che segna anche gran parte del tempo in cui viviamo. E dunque dobbiamo fare i conti con il dolore e la sofferenza, senza tentativi inutili di catarsi né di sopravvalutazione.

Dolore: brusca reazione di fronte ad un attacco all’integrità del nostro organismo. E’ un dato oggettivo anche se di difficile misurazione.

Sofferenza: è soggettiva ed indica una situazione psicologica che non è necessariamente legata alle condizioni fisiche. Si può sentire dolore ma non soffrire oppure, ed accade spesso, si può soffrire molto pur senza avere dolore.

Il dolore e la sofferenza non sono punizioni di Dio né casuali condanne che ci piovono addosso. Sono condizioni esistenziale con le quali dobbiamo convivere ed attraverso le quali crescere. Vanno certamente combattuti il dolore e la sofferenza ma abbiamo anche la possibilità di usarle queste particolari determinazioni dell’essere:

  • Il dolore fisico ad esempio è un campanello di allarme, è una spia che qualcosa nel nostro organismo non funziona o che siamo sottoposti ad uno stimolo ambientale nocivo (fuoco). Chi non sente il dolore è esposto a gravi rischi per la salute.
  • Ma anche nella accezione esistenziale e psicologica, e dunque parliamo di sofferenza, il dolore può diventare un fattore di crescita post-traumatico. Molti studi dimostrano come crisi personali importanti abbiano fatto nascere delle risorse nelle persone che hanno fatto cambiamenti positivi nella loro vita. La sofferenza non ti getta dalla rupe ma, sul ciglio della rupe ti offre quella corda che ti dà la possibilità di fare ciò che prima non avresti mai potuto fare e di comprendere ciò che prima non avresti mai compreso. Il dolore e la sofferenza possono essere una luce che ci portano all’espansione.
  • Il dolore e la sofferenza hanno la capacità di farci godere delle cose. In una logica dialettica, se non ci fosse il dolore non ci sarebbe il benessere, se non ci fosse la sofferenza non ci sarebbe gioia. Nell’uno c’è l’altro.
  • Il dolore, la malattia, la sofferenza ed anche la morte hanno un valore redentivo, un fattore di crescita perché offrono l’occasione all’uomo di volgere lo sguardo sulla realtà, sulla realtà di se stesso, sulla realtà di essere creatura limitata, imperfetta, fragile e di avere bisogno del Creatore (il male ontologico di Agostino). Attraverso la sofferenza l’uomo ha l’occasione di tornare alla sua originaria aspirazione alla pienezza di vita che non coincide con la sanità biomedica ma con la santità. Lo scopo della vita non è la sua preservazione ma la sua comunicazione. Il cuore dell’esistenza umana non è mercificare ogni cosa, reificando persino i rapporti umani e trasformando la relazione in possesso secondo una logica del profitto (così bene denunciato dalla scuola di Francoforte), ma attribuire alle cose, alla natura, all’uomo stesso il senso ed il significato originari alla luce dell’amore di Dio. E’ necessario passare dal to cure al to care, dalla cura tecnico specialistica alla cura morale, al farsi carico dell’altro, al sevizio dell’altro e per l’altro, all’accompagnamento empatico. Heidegger ricorda la favola di Iginio: Cura camminava sul greto di un torrente e vedendo l’argilla informe pensò di modellarla. Per infondere lo spirito chiese l’intervento di Giove. Dopo avergli inculcato lo spirito, Giove pose il problema che nome dargli e a chi affidarlo. Saturno riflette un po’ e dice: “lo chiameremo uomo, da humus che significa terra, quando morirà il corpo ritornerà alla terra e lo spirito ritornerà a Giove”. Ma alla domanda, fin quando sarà in vita a chi sarà affidato? Saturno rispose: “a Cura”. Secondo questa nuova prospettiva la pienezza di vita si realizza proprio nella ricerca di un’autentica comunicazione con l’altro che diventa non merce né ostacolo ma ricchezza e risorsa. Ed a partire da questo desiderio di pienezza di vita che si capisce il concetto di salute: essa è la stessa possibilità di aspirare alla pienezza di vita. La salute è benessere, cioè la certezza di camminare verso l’autentica realizzazione di sé.

Salute: possibilità di rispondere ad un desiderio a) non insolito, b) possibile ai più, c) adeguato allo stato del soggetto. Esiste un modo di rispondere che varia con l’età: il lattante non ha lo stesso modo di rispondere, né di desiderare che ha un adulto; e quest’ultimo avrà caratteristiche diverse dal vecchio, come diversi saranno i desideri una donna e di un uomo. Il lattante desidera correre e adempiere ai bisogni fisiologici, l’adulto realizzarsi professionalmente e sentimentalmente, il vecchio camminare autonomamente ed arginare gli acciacchi dell’età. Il problema è quando un vecchio desidera fidanzarsi o un bambino realizzarsi professionalmente. Anche il malato di mente ha i suoi desideri anche se non sono formulati correttamente ed in modo comprensibile. Salute e benessere sono commisurati al desiderio e non ad uno stato fisico statico e performante. La salute è la possibilità di rispondere ad un desiderio, al desiderio della pienezza di vita che è possibile a qualsiasi età, in qualsiasi condizione, all’interno del divenire umano e del continuo cambiamento delle condizioni di vita e di esistenza. La vera salute è l’incontro con Dio che è la pienezza di vita. Il contrario di salute non è malattia ma disperazione, cioè mancanza di speranza, assenza di desiderio.

Ecco allora che, per chiudere, vorrei riformulare la definizione di salute in chiave esistenziale ed in opposizione al modello post moderno da cui siamo partiti:

Salute: “equilibrio dinamico tra corpo, psiche e spirito e tra persona e ambiente” Una definizione che tiene conto della dimensione unitotale della persona e del suo desiderio e bisogno di comunicare con gli altri.

La malattia è solo squilibrio e la sofferenza ne diventa la inevitabile manifestazione.

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