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PSICODINAMICA E DEMENZA-PROF.RE RICCARDO ROMANDINI

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Alzheimer la malattia che distrugge la vita degli ammalati

e sprofonda nella desolazione le loro famiglie.

Redazione-La principale debolezza psichica nella vecchiaia, riguarda indubbiamente le strutture ioiche, vale a dire che la persona anziana presenta i segni di una “debolezza dell’ Io”. Questo è una funzione psichica che permette di equilibrare gli impulsi e le tendenze istintive (l’ Es) con le norme etiche e morali che si sono organizzate durante lo sviluppo (Super-Io).

Compito dell’ Io è anche quello di analizzare la realtà e darle un significato in accordo con le esperienze personali, accelerando o rallentando le risposte, secondo il livello di tensione o di ansia determinato dalle esperienze.

Nella “psicologia dell’ Io” questo si concettualizza come apparato di integrazione, di regolazione, di adattamento e di volizione che utilizza sia meccanismi inconsci (istintivi e preoperatori), sia funzioni consce (cognitive e razionali).

Il tema della demenza, in più della metà dei casi, si riferisce alla malattia di Alzheimer, ma, quando analizziamo questa sindrome, classificata come malattia neurodegenerativa cronica, ci troviamo di fronte ad una notevolisssima variabilità sintomatologica e di gravità. Nell’Alzheimer si differenziano schematicamente tre fasi, delle quali, se la prima si può confondere per molti aspetti con le problematiche più o meno evidenti delle persone anziane, e se la terza fase pùò essere inquadrata come perdita totale della autosufficienza, proprio la seconda diventa la più caratteristica e, si potrebbe dire, identifica il quadro della malattia. Sono i casi che presentano, accanto alla grave perdita delle funzioni mnestiche, i disturbi cognitivi, i comportamenti inadeguati e pericolosi, il vagabondaggio, l’aggressività, la produzione di neologismi.

Se nell’anziano e nella prima fase della malattia, le funzioni ioiche sono indebolite, dobbiamo pensare che, in una demenza conclamata, queste risulteranno non solo pauperizzate, ma anche frammentate e disintegrate.

La percezione della realtà risulta approssimata e difettosa ed i limiti tra il mondo interno e quello esterno piuttosto vaghi e nebulosi. Ciò comporta una totale inadeguatezza delle risposte, anche perchè i meccanismi difensivi legati all’ansia e all’angoscia risultano ugualmente disarticolati dal significato degli stimoli. Il soggetto demente, per controllare l’imput sensoriale, utilizza meccanismi di negazione, di spostamento, di proiezione e di confabulazione, i quali conducono al disconoscimento della realtà e a “comportamenti-problema” che si strutturano come isolamento, reattività, insofferenza, irritabilità, esplosività.

L’alto livello di aggressività e gli intensi desideri distruttivi sono in agguato in queste personalità riconducibili ad uno schema ossessivo-compulsivo, che giustifica atteggiamenti a volte farseschi di costrizione alla pulizia, all’ordine, alla sottomissione agli obblighi di “figlia” o di “genitore” o di “ruolo”. La perdita delle capacità razionali e cognitive fa riemergere modelli mentali arcaici nei quali predominano le dimensioni Super-egoiche, da cui derivano i particolari e caratteristici comportamenti.

La rigidità mentale, la ripetitività, la tendenza all’ordine e alla meticolosità, che si evidenziano come difesa di tipo ossessivo, erano state messe in evidenza, insieme a retrazione e a negazione, da Kurt Golstein (1975) in pazienti con danno organico cerebrale. Le modalità stereotipe, la riservatezza, la perdita dell’iniziativa e della spontaneità, seppur osservate nei pazienti Alzheimer, a nostro modo di vedere, non sono gli elementi veramente caratteristici. Il quadro più frequentemente osservabile, seppure in una vasta variabilità, dimostra, assieme ad una totale incapacità di comprendere le situazioni ed i vissuti, queste componenti:

a) – perdita della mimica. I pazienti si offrono come immagini ieratiche, immersi in un mondo proprio, lontano dalla realtà che li circonda;

b) – è frequentissima una deambulazione ossessiva, afinalistica, che si interrompe o muta, prescindendo dalla vita che si muove intorno;

c) – questi atteggiamenti di isolamento possono essere facilmente modificati dall’intervento esterno che risulta del tutto sgradito e provoca:

1 – reazioni emotive più o meno intense, accompagnate da una mimica

incoerente;

2 – veri e propri scoppi di espressioni verbali incomprensibili;

3 – reazioni di fastidio, di retrazione e di opposizione;

4 – risposte a carattere aggressivo;

d) – in particolari momenti della giornata ed in relazione ad abitudini preesistenti, compaiono reazioni emotive, di ansia e di angoscia, accompagnate da una intensa partecipazione somatica (rossori, pianti sfrenati, tachicardia, alterazione profonda dell’espressione del volto). Queste reazioni si strutturano come frustrazione per non poter compiere “obblighi importanti” (si osservano per lo più vicino alla porta dove l’uscita è interdetta): andare ad accudire i figli, a visitare la mamma, a preparare il pranzo. Va sottolineato che questi comportamenti si osservano principalmente subito dopo il pranzo, la sera all’imbrunire e prima di coricarsi e, in minor misura, durante la mattina;

e) – spesso i pazienti Alzheimer sono “sensibili” alle regole e, quando vedono avvicinarsi le assistenti, cessano i loro comportamenti fastidiosi;

f) – quando ottengono ciò che hanno richiesto ossessivamente, sono più distraibili e possono essere riportati facilmente ad uno stato di tranquillità;

g) – si infastidiscono se qualche altro paziente vicino a loro attua comportamenti reiterativi ed ossessivi;

h) – questi malati non riconoscono i loro compagni, nè i medici, nè le assistenti, ma, da questo punto di vista, si osserva un riconoscimento, per così dire, di “presenza”: “… io non so chi tu sia, ma so che sei tu!”. Normalmente non vengono riconosciuti i ruoli, ma c’è un senso di rispetto e di grata sottomissione ai caregivers.

Queste osservazioni, possono far riferimento a caratteristiche o a peculiarità che rispecchiano cambiamenti delle funzioni psicologiche.

Quando si parla di Alzheimer si intende un disturbo profondo delle funzioni primarie della psiche, per il quale il rapporto tra il soggetto ed il mondo esterno perde ogni caratteristica di oggettività. Il significato dell’esperienza non risulta condivisibile poichè viene organizzato attorno a parametri riferiti ad una dimensione soggettiva, privata e solipsistica.

1 – Prima di tutto si può osservare un’alterazione delle capacità di astrazione; i pazienti sono costretti alla dimensione di stimolo-risposta ed alla personalizzazione, perdendo così quella prospettiva di “ordine”, garantita dal teorema dell’astrazione e del simbolico.

2 – Si evidenzia una mancanza di capacità discriminatoria che non permette il riconoscimento dell’invasività dei ricordi. Per questo, l’illusorio prevarica l’esperienza che perde, nei suoi confronti, ogni valore: emergono le immagini del passato che presuppongono un rapporto con i genitori e soprattutto con la madre che acquista un vago, ma pregnante senso di accudimento. Proprio questo meccanismo spiega l’emozione che suscitano fotografie di bambini piccoli, di madri che allattano, di cuccioli di piccoli animali domestici.

3 – La perdita della percezione dell’insieme conduce a scariche emotive e alla captazione solo parziale delle situazioni vissute.

4 – L’incapacità di decifrare una percezione globale porta all’angoscia dell’insuccesso, alla ripetitività dei gesti, alla deambulazione ossessiva ed inoltre al sorgere di sentimenti di incapacità, di inadeguatezza e di indegnità. Si stabiliscono anche, come reazioni, l’evitamento, il rifiuto, l’isolamento, la rigidità, la tendenza all’ordine e la meticolosità già descritte.

5 – La perdita dell’attenzione e della tenuta sui compiti riproduce il quadro di una intensa stancabilità e, quindi, un facile abbandono della progettualità che simula disinteresse, apatia e rifiuto.

Tutto questo può essere ricondotto ad un processo di regressione psicologica attuata nel tentativo di mantenere l’autostima che presuppone un ritorno a livelli di funzionamento psichico, caratteristici di un Io non pienamente sviluppato.

La perdita della funzione dell’ Io conosciuta come “senso di realtà”, porta a disorientamento spaziale, a confini corporei poco chiari, a difficoltà di discriminazione. Le crisi di ansia o angoscia sopra descritte sono l’espressione di questa particolare incapacità di dare senso a sentimenti interiori. L’illusoria lontananza dai propri figli o dalla madre dà energia alle espressioni emotive ed è sufficiente l’intervento rassicurante dell’ assistente per dissolvere le crisi , tanto pù intense quanto più rigido sia stato l’atteggiamento contenitivo dei caregivers.

Queste espressioni comportamentali alterate sono generalmente riferite ad allucinazioni, dal momento che non vengono ancorate ad un preciso fatto percettivo: resta qualche dubbio poichè sembrano sorgere come risposta a particolari situazioni. Le violente crisi d’ansia che sorgono dopo il pranzo o dopo la cena vengono elaborate e partendo dalla percezione intima di soddisfazione alimentare; altre volte lo stimolo può essere vagamente riconosciuto in fugaci apparizioni di persone.

La discriminazione tra allucinazioni, illusioni e interpretazioni deliranti, risulta, in questi casi, difficile proprio perchè in tali espressioni, che potremmo definire con i tedeschi “esperienze deliranti primarie”, si intrecciano, in modo inestricabile, l’intuizione delirante, l’interpretazione, l’illusione e le false percezioni. Le espressioni semeiologiche descritte sembrano acquisire una espressività del tutto particolare, per comprendere la quale bisognerebbe forse prendere in considerazione come la patologica compromissione delle strutture corticali, propria della malattia, influisca sulla strutturazione dei meccanismi mentali. La grande partecipazione emotivo-affettiva che accompagna le espressioni di automatismo mentale fanno pensare più a crisi sottocorticali che a partecipazioni funzionali della corteccia.

Riportando ad una diminuzione strutturale la tensione tra pressione istintivo-pulsionale e meccanismi adattivo-contenitivi di tipo cognitivo-razionale, possiamo pensare ad una contrapposizione tra pulsioni ed affetti da un lato ed un controllo corticale dall’altro. Le persone con disfunzioni cognitive su base organica (corticale) risulteranno incapaci di percepire accuratamente e di integrare efficacemente le emozioni che quindi potranno fluire liberamente invadendo la personalità.

I pazienti, che presentano un ridotto controllo corticale degli impulsi, si troveranno a dover sopportare da un lato un flusso emotivo particolarmente intenso e, dall’ altro, un imput e stimolazioni derivate dai rimproveri per le loro risposte eccessive e/o inadeguate che avranno determinato delusioni di fronte alle aspettative dei parenti e degli operatori. Non potendo valutare efficacemente le sequenze di causa-effetto determinate dai loro atteggiamenti e dai loro comportamenti, non potranno neppure giustificare le reazioni degli altri e, quindi, struttureranno sentimenti di vittimizzazione e di impotenza.

Si è fatto riferimento alle risposte esplosive presentate dai pazienti Alzheimer a semplici stimoli tattili o anche di affettuosa vicinanza, ma possiamo giustificarli se pensiamo che in nessun modo questi possono essere correttamente decifrati. Tale è il meccanismo che rende queste persone difficilmente trattabili e con le quali bisogna usare molta attenzione. Da un punto di vista psicodinamico, non riescono ad acquisire una “costanza degli oggetti” dal momento che l’ Altro diventa un persecutore. In questo modo, non possono acquisire una “capacità consolatoria” dal momento che non riescono ad introiettare figure affettivamente significative. Il risultato della contraddizione è quello di non riuscire a mantenere un valido senso di sè e, per altro, di non poter percepire correttamente i segnali sociali, così da dimostrare una notevole difficoltà a rapportarsi adeguatamente con gli altri.

Non bisogna dimenticare che questi pazienti vivono una realtà del tutto personale ed in un mondo proprio e che quindi il loro comportamento risulta insopportabile. A titolo di esempio si può ricordare un malato che, pensandosi operaio posto in fabbrica a compiere il suo lavoro per il quale sarebbe stato pagato, risultava estremamente fastidioso nella cucina del reparto toccando ogni cosa e mettendosi anche in situazioni di pericolo.

Queste osservazioni ci sembrano di particolare importanza ai fini di strutturare un intervento assistenziale corretto ed efficace. L’esperienza dei Nuclei Alzheimer ha portato ad osservare che le reazioni affettivo-allucinatorie diminuiscono notevolmente di frequenza e di intensità con il passare del tempo e l’instaurarsi di esperienze affettive valide e completamente nuove.

In questo modo si è potuto dimostrare ancora una volta che il nichilismo terapeutico nei confronti dei pazienti Alzheimer è del tutto ingiustificato. Seppure non si possa per nulla sperare in una guarigione, va sottolineato in primo luogo che oggi la medicina in generale non ha pretese curative, dal momento che nella maggioranza dei casi il risultato è una cronicizzazione; in secondo luogo poi bisogna soprattutto cercare di ottenere un decisivo miglioramento della qualità della vita. Da questo punto di vista, l’intervento psicoterapeutico deve tendere a ripristinare livelli accettabili di autostima e a permettere una modulazione efficace degli affetti.

Risulta lapalissiano che la psicoterapia di questi pazienti non possa essere di tipo verbale, ma di tipo espressivo-supportivo, dal momento che risultano troppo gravi le lacune mnestiche, imponenti i deficit cognitivi e addirittura impossibile la decodificazione del simbolismo delle parole. I migliori risultati si ottengono quando tutto il mondo che circonda queste persone funziona all’unisono, non postulando un elevato livello di aspettative, ma rispettando i tempi ele modalità di ciascun paziente. Dando valore alla persona per quello che è e soprattutto accettando le sue disabilità non solo cognitive, ma anche relazionali, si riesce a stabilire un livello di accudimento che dimensiona l’ “habitat” del rapporto. I fallimenti nell’ambito della verbalizzazione obbligano a stabilire un alto livello di empatia che porterà i pazienti alla accettazione dei caregivers, degli infermieri e dei medici. La limitazione della libertà di movimento, attraverso circuiti pre-organizzati e controllati, causa inizialmente reazioni di angoscia che tuttavia possono essere controllate da uscite non preordinate ed occasionali che non risultano mai eccessivamente lunghe dal momento che la facile stancabilità di questi pazienti induce una rapida richiesta di “tornare a casa”.

Particolare valore assume l’alimentazione: bisogna evitare una facile mal-nutrizione poichè i pazienti Alzheimer non riescono a decifrare perfettamente lo stimolo geusico o quello della fame. L’attenzione verso questi malati durante i pasti, la colazione e la merenda, è sempre un modello di accudimento capace di instaurare sentimenti ad alto contenuto affettivo.

Un aspetto importante è quello che riguarda l’animazione del nucleo Alzheimer. In questa attività sorgono momenti di grande afflato emotivo; le operatrici si trovano a poter veramente trasmettere delle sensazioni di rispetto, di tenerezza e di accoglimento. E’ raro il rifiuto a partecipare alle iniziative proposte e, al contrario, la comunicazione diventa più facile se veicolata dalla musica. Lo stimolo musicale induce a partecipare alla danza, permette l’articolazione di strofe strappate dal ricordo di vecchie canzoni e facilita l’instaurarsi di un’atmosfera gioiosa e giocosa. Molto spesso questi comportamenti sono automatici, infatti sono gli stessi pazienti ad iniziare da soli la danza. Con molta lentezza, ma con sicurezza, si struttura un clima affettuoso e compaiono le prime carezze; le pazienti cominciano a deambulare non più sole, ma in coppia; si formano piccoli gruppi che dialogano tra loro usando un linguaggio incomprensibile, ma il cui contenuto è palese dal momento che si captano le parole “mamma”, “figli”, “mia casa”, “paese”.

Gli stimoli emotivi e una vaga, ma intensa partecipazione empatica trascinano meccanismi cognitivi inconsci che permettono da un lato una maggiore autovalorizzazione, un migliore approccio con figure rese più significative e dall’altro una più valida capacità a decifrare alcuni aspetti ludico-partecipativi proposti dalle pratiche di animazione e dalla ROT, oltre che un legame più stretto con l’ambiente e con le persone che operano nel reparto.

Questa particolare attività, che potremmo chiamare psicoterapia espressivo-relazionale, facendo leva sulle capacità residue per lo più istintive, preoperatorie e precognitive,

– promuove l’autoaccettazione,

– minimizza i deficit ristabilendo possibilità di confronto,

– traduce il significato della realtà, rendendola accessibile e comprensibile,

– struttura canoni linguistici che, supportati da una intensa energia empatica,

diventano comprensibili e condivisibili.

Il miglioramento del livello della struttura Ioica conduce a qualche manifestazione d’ansia di fronte all’emergere di engrammi che si familiarizzano (per es. il medico o l’infermiera finalmente diventano oggetti riconosciuti), ma queste espressioni dovute alla frustrazione per perdite evidenziate, possono essere utilizzate dallo psicoterapeuta per aiutare i pazienti a perdonare se stessi e a rendere più accettabili le imposizioni Super-egoiche. In questi frangenti diventa di grandissimo aiuto non solo l’attenta ed efficace partecipazione delle infermiere e dei caregivers, ma anche e soprattutto la vicinanza affettuosa dei famigliari.

L’analisi psicodinamica della demenza mette in evidenza, come è stato ricordato, una importante debolezza dell’ Io che si evidenzia come infantilismo, pensiero concreto e preoperatorio, egocentrismo e incapacità di elaborare e di intendere gli stimoli del reale, posizioni paranoidi e incapacità di frenare gli impulsi primitivi. In questa dimensione, l’intervento psicoterapeutico deve tendere, prima di tutto, a ristabilire i valori funzionali dell’ Io, rinforzandone le difese.

Il primo passo consiste nel riuscire a sviluppare un senso di fiducia negli altri, nelle assistenti, nei medici, nello psicoterapeuta. Il miglioramento affettivo conduce ad una maggiore coscienza di ciò che succede, dei vissuti e si può osservare un ripristino cognitivo che si evidenzia come più valida comprensione della realtà, più efficace contenimento degli impulsi distruttivi, minor tendenza alla fuga, riduzione delle crisi di angoscia, dell’atteggiamento oppositivo e dell’aggressività. In questa fase, si osserva un miglioramento del controllo delle deiezioni, così che si riduce il consumo di pannoloni.

Queste osservazioni dimostrano quanto sia erronea la purtroppo frequente asserzione che per la demenza di Alzheimer non ci sia nulla da fare: in questi casi, molto di più che per qualsiasi altra malattia della sfera psicologica, necessitano studio, lavoro e partecipazione affettiva. Non bisogna dimenticare infatti le problematiche dei parenti e dei caregivers che devono supportare e assistere pazienti estremamente difficili, ogni giorno per le 24 ore.

Questo però è un altro discorso e, per il momento, ci fermiamo a considerare quanto importante sia,

per la demenza, imparare a conoscerla.

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