PACE E PACIFISMO : LE DUE PIAZZE . DUE LETTERE E UN SILENZIO ASSORDANTE .LA LIBERTA’ DI DISSENTIRE- DI VALTER MARCONE
Redazione- Pace e pacifismo su due piazze, Roma e Milano. Consenzienti e dissenzienti su armi all’Ucraina, su negoziato ad ogni costo, su azione diplomatica e trattativa ad opera del contesto internazionale . Una opposizione divisa, una sinistra italiana spaccata. La narrazione di due manifestazioni e considerazioni sul modo di raccontare la guerra ,la libertà di dissentire attraverso documenti come due lettere e un reportage su un silenzio assordante , quello del destino di Mariupol.
Iniziamo con la cronaca delle manifestazioni di Roma e Milano .Sabato 5 novembre si è tenuta a Roma una grande manifestazione nazionale per la pace, per chiedere la messa al bando delle armi nucleari ed esprimere solidarietà al popolo ucraino e a tutte le vittime delle guerre. La manifestazione ha chiamato a raccolta la società civile coordinata in particolare della Rete italiana pace e disarmo e guidata da Europe for Peace, coalizione di oltre 400 organizzazioni, associazioni, reti, sindacati e comunità, che già da alcuni mesi promuove degli eventi per protestare contro il conflitto ucraino e quelli nel resto del mondo. Tra le realtà aderenti, Arci, Acli, Agesci, Coopi, Federsolidarietà – Confcooperative, Legacoopsociali, ActionAid, Amref, Ancc Coop, Anpas, Ciai, Cbm, Cittadinanzaattiva Onlus, Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia, Fish, Federazione italiana per il superamento dell’handicap, Fondazione Arché, Fondazione Ebbene, Fondazione Exodus, Fondazione Albero della vita, Intersos, Mcl – Movimento cristiano lavoratori, Save the children Italia, SOS Villaggi dei bambini Italia e We World e il Mean (Movimento europeo di azione nonviolenta)
Sul palco hanno parlato tra gli altri Don Luigi Ciotti, Maurizio Landini e il fondatore della comunità di S. Egidio Andrea Riccardi .Gli organizzatori della marcia romana, come scrive Il Post , si sono allontanati dai tentativi delle forze politiche e in particolare del M5S di “mettere il cappello” sulla manifestazione, come si dice in gergo, e hanno chiesto che non fossero esposte bandiere di partito. Inoltre hanno parzialmente modificato la loro posizione – anche se lo negano – contribuendo a ridurre l’impressione di un’equidistanza tra le posizioni ucraine e quelle russe. Gli slogan della manifestazione, ora, sono sì pacifisti ma anche a sostegno del popolo ucraino, per cui a «Cessate il fuoco subito» si affianca «Solidarietà con il popolo ucraino e con le vittime di tutte le guerre».
Nelle stesse ore a Milano, l’Italia che riconosce l’impossibilità di passare dal tavolo delle trattative con Vladimir Putin, e capisce che non c’è soluzione che passi dalla caduta di Kyjiv. è stato organizzato dal Terzo Polo (Azione e Italia Viva), che nelle premesse aveva detto «sarà una manifestazione senza bandiere di partito», secondo appunto Carlo Calenda che lo ha scritto sui suoi profili social, chiedendo «la partecipazione di tutte le forze democratiche del Paese». «Sabato prossimo» – aveva detto a Linkiesta il senatore Ivan Scalfarotto, di Italia Viva – «esprimeremo un sostegno senza tentennamenti a uno Stato democratico che da mesi viene attaccato da uno Stato autoritario e imperialista». Dice il Terzo Polo a differenza dei manifestanti di Roma: “«Lasciare mano libera a Putin, non sostenendo l’Ucraina con tutti i mezzi possibili, significherebbe avvallare la possibilità da parte del più forte di violare ogni regola di convivenza fra i Paesi», e continua Gianmaria Radice, coordinatore di Italia Viva sul territorio di Milano e provincia. «Se Putin ferma le armi si può aprire un negoziato, se Zelensky rimane senza armi sparisce l’Ucraina. Solo un forte sostegno politico, economico e anche militare può quindi aprire la strada a un negoziato serio».La manifestazione è soprattutto un modo per ribadire che l’Italia non è quella che chiede la pace senza se e senza ma, che «tacciano le armi», come dice e ripeterà a Roma Giuseppe Conte. «L’approccio dei Cinquestelle non è una via percorribile», ha detto a a Linkiesta Giulia Pastorella, vicepresidente di Azione e deputata alla Camera. «Mentre a Roma si manifesterà di fatto per chiedere il disarmo e la resa dell’Ucraina, noi scenderemo in piazza a Milano per ribadire il sostegno agli ucraini contro l’invasore russo». (1)«I gruppi milanesi e lombardi di Più Europa si stanno attrezzando per esserci», ha detto a Linkiesta Benedetto Della Vedova, segretario nazionale del partito. «Sulla questione ucraina – aggiunge –siamo schierati, su queste posizioni, dal 24 febbraio. Per questo per me non è una contromanifestazione, ma l’unica manifestazione possibile, quella giusta».
Dunque una sinistra divisa su due piazze. C’è chi dice che queste manifestazioni sono la ricchezza comunque di un fermento che matura la discussione su la guerra russo- ucraina e mette all’attenzione tutti i problemi che tale guerra pone. Due città, due piazze, ma soprattutto due modi diversi di intendere e chiedere la “pace”.
Antonio Bravetti (2) su l’agenzia Dire scrive : “Il corteo della capitale, che ha la benidizione del Vaticano, vedrà partecipare molte associazioni pacifiste e partiti del centrosinistra. Parteciperanno numerosi esponenti dell Movimento Cinquestelle, a partire dal presidente Giuseppe Conte, uno dei primi politici a chiedere una “grande manifestazione nazionale per la pace”. A Milano saranno in piazza al grido di ‘Slava Ukraini’ i politici del terzo polo: Carlo Calenda, Matteo Renzi, Pier Ferdinando Casini, Letizia Moratti. “ A Milano non chiederemo la resa dell’Ucraaina” dice Calenda, accusando i manifestanti romani di essere troppo vaghi nella loro richiesta di “cessate il fuoco”.
Sui modi di intendere la pace e sulla narrativa che in questi mesi è stata fatta sulla guerra voglio proporre ai lettori alcuni documenti. Chiaramente non ci sono commenti personali o intenti di parte . Voglio solo presentare la ricchezza delle posizioni perchè il lettore possa farsi una sua opinione . Resta per quello che mi riguarda personalmente una sola amara considerazione che la Federazione russa per opera del suo capo Vladimir Putin abbia deciso di invadere il territorio di un paese indipendente come l’Ucraina. Una invasione che ha prodotto una strenua resistenza e quindi migliaia di morti soprattutto tra la popolazione civile. Tanto che le posizioni sono incrudelite da una parte dalla disillusione di poter avere una vittoria facilissima e dall’altra dall’alto prezzo che il popolo ucraino sta pagando in vite umane. Una situazione sul terreno dunque ricca di problemi che agitano appunto le idee, le opinioni di quanti hanno a cuore la pace.
Intanto il Presidente Sergio Mattarella ha detto testualmente come riporta l’agenzia Adnkronoss (https://www.adnkronos.com/tag/ucraina-russia/) : “ “La guerra scatenata dalla Federazione Russa contro l’Ucraina sta riportando indietro di un secolo l’orologio della storia. Non possiamo arrenderci a questa deriva.Da qui il sostegno senza riserve a Kiev”. Lo ha affermato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della cerimonia al Quirinale di consegna delle decorazioni dell’Ordine militare d’Italia’.”La Repubblica -con i Paesi democratici con cui si è alleata per costruire un ordine internazionale più equo e inclusivo- ha testimoniato fermamente, con la sua politica estera, la vocazione di pace, in coordinamento – ha ricordato il capo dello Stato – con le Nazioni Unite e con le iniziative dell’Unione europea e della Nato. Nello svolgimento di questa politica le Forze Armate hanno svolto un ruolo rilevante”. Mattarella ha quindi evidenziato “la tenace volontà della Repubblica di rappresentare un fattore di stabilità internazionale, di promozione di diritti di libertà e di rispetto dei valori universali dei diritti dell’uomo e dei popoli. Di chi, con determinazione, sposa la causa del dialogo e della cooperazione, senza mai rinunciare alla pacata e salda difesa dei principi su cui si basa quell’ordinamento internazionale, ispirato alla eguaglianza tra Stati e popoli, che caratterizza l’Organizzazione delle Nazioni unite”.
Scriveva Alessandro Stille su Tpi.it “L’invasione russa dell’Ucraina sarà uno di quei momenti – come la caduta del Muro di Berlino o gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 – che segnano la fine di un periodo della storia e l’inizio di uno nuovo. Ma cosa cambierà, nel futuro che ci attende? Quel che è certo è che stiamo entrando in una nuova fase della globalizzazione, mentre vi sono meno certezze su cosa ciò significhi per le democrazie del mondo. La prima fase della globalizzazione è iniziata negli anni Ottanta, con la caduta del Muro di Berlino e il riconoscimento che il sistema chiuso dell’Unione Sovietica non poteva competere economicamente. In questa prima fase euforica della globalizzazione sono sorte nuove democrazie, dall’Estonia alla Polonia, dal Sudafrica al Brasile. I Paesi che allora erano più poveri, come la Cina e l’India, hanno aperto le loro economie, e si pensò che man mano che sarebbero diventati più ricchi sarebbero diventati anche più democratici. Qualcuno ha creduto che fossimo arrivati alla Fine della Storia e che la democrazia liberale, fondata su un’economia capitalista, fosse ormai l’unico modello politico possibile. Sembrava anche che fossimo vicini al raggiungimento di una sorta di pace capitalista, in cui gli Stati sarebbero stati talmente occupati nel fare soldi che non avrebbero avuto tempo – o interesse – per fare la guerra. (3)
Uno scenario quello rappresentato da Stille che sollevava una serie di interventi come quello di Santoro a Letta e la relativa risposta .Argomento che lo stesso Michele Santoro ha poi di seguito sviluppato e precisato in alcuni interventi in programmi televisivi ma anche in un incontro nel teatro Ghione di Roma dove ha riunito esponenti della cultura, giornalismo e spettacolo per “Opporsi alla deriva verso il pensiero unico e la resa dell’intelligenza” ( 4)
Lettera di Michele Santoro ad Enrico Letta
Caro Segretario Letta,
osservo con sgomento gli attacchi che il suo partito rivolge contro quelle poche voci dissonanti, giornalisti e intellettuali, che osano sollevare qualche interrogativo sulla guerra in corso in Ucraina.
Chi le scrive a 18 anni era in piazza contro l’invasione da parte dei carrarmati russi della Cecoslovacchia; e quando, pochi mesi dopo, Jan Palach si diede alle fiamme in piazza San Venceslao a Praga, occupava l’università con un gruppetto esiguo di studenti.
Non ho mai avuto simpatie per Putin. Una mia trasmissione è stata tra le poche voci a denunciare gli orrori dei massacri in Cecenia e a considerare con disprezzo chi definiva una “democrazia con qualche difetto” la Russia di oggi.
Lei sa che, invece, padri nobili del suo partito hanno giustificato l’intervento armato del patto di Varsavia o hanno civettato a distanza con Putin sul superamento della democrazia. Il rispetto dei confini nazionali e dell’autodeterminazione dei popoli, le regole internazionali, esistono per molti a giorni alterni. L’Iraq di Saddam e la Libia di Gheddafi, per esempio, erano stati sovrani ma per rovesciare i dittatori si potevano bombardare. Come vede, Putin ha preso parecchie lezioni dalla Nato. I bombardamenti di Belgrado erano “illegali ma legittimi”; la modifica violenta dei confini della Serbia e la creazione di uno stato indipendente nei territori abitati in maggioranza dagli albanesi “erano l’unica soluzione per tutelare i diritti di una minoranza”. “L’Operazione Arcobaleno” terminò con l’allargamento della Nato ma “esclusivamente per ragioni umanitarie”.
Invece, i russofoni separatisti in Ucraina sono “servi di Putin”, non hanno la stessa dignità dell’UCK di Hashim Thaçi, che grazie a quella “Operazione” divenne Primo Ministro, Ministro degli Esteri e Presidente della Repubblica del Kosovo. Oggi è sotto processo per crimini di guerra contro l’umanità davanti al Tribunale dell’Aia. Dettagli. Era proprio necessaria la nascita di quello Stato? Non bastava una vera autonomia amministrativa garantita da osservatori internazionali dell’Onu, la stessa che si sarebbe dovuta concedere al Donbass dopo una guerra ignorata che ha già fatto quattordicimila morti?
I principi vanno, vengono e oscillano come il dollaro. Putin va processato per crimini di guerra, giusto. E Bush, che ha provocato più di un milione di vittime in Iraq, no? Denazificare non è come deterrorizzare?
Abbiamo una legge che impedisce a volontari di andare a combattere in un paese straniero. Perché? L’Italia che bandisce la guerra considera un reato partecipare a una guerra in un paese straniero: ci potrebbe far apparire come cobelligeranti. Mandare armi come ci fa apparire? Allo stesso modo degli Stati Uniti.
Caro segretario Letta, vedo Lei e Draghi avvolgersi nella bandiera dell’Ucraina aggredita e rimanere inerti. Non avete pronunciato una sola parola per l’incredibile invito all’escalation di Biden. In compenso siete attivissimi nel ridurre al silenzio qualunque voce fuori dal coro. In nome della libertà avete steso sull’informazione un velo di uniforme conformismo che nemmeno ai tempi di Berlusconi. La Rai fa pena: il dolore dei civili scorre nei video come un flusso senza punti interrogativi. Non si deve certo nascondere il dolore, come fa Putin con le sue televisioni. Tuttavia nei telegiornali mancano i perché, le analisi, le valutazioni imparziali sull’andamento della guerra, mentre abbondano gli annunci di vittoria di Zelensky e le sue esortazioni a fare di più. Più armi, più guerra, più massacri. Il problema è per fare che cosa. Ha ragione o ha torto quando dice “non avete il coraggio”? Dovremmo rischiare una terza guerra mondiale e la distruzione del mondo? Per far fare a Putin la fine stessa di Saddam e di Gheddafi senza che prema il bottone rosso? Gli insulti di Zelensky, le accuse di codardia, meritano una risposta da parte sua, caro segretario Letta. Lo strazio dei massacri, l’orrore di questa invasione di cui Putin dovrà portare la colpa di fronte alla storia, devono essere interrotti da un accordo senza vincitori o la guerra deve finire con la caduta di Putin? Il suo partito gronda di sdegno e di indignazione ma non sembra avere una risposta per questa domanda assai semplice, una visione da interporre tra quella del Presidente americano e quella del Presidente russo. Infatti dobbiamo affidarci a Erdogan per una terza visione, per sperare in un cessate il fuoco. Erdogan, l’autocrate “buono” di turno che aderisce alla Nato. E l’Europa? È una parola che ormai si usa quando non si sa bene cosa dire, una cassa di missili affidata agli americani. Niente di più.
Risposta di Enrico Letta a Michele Santoro
Caro Michele,
nella tua lunga e appassionata lettera ho cercato, senza trovarla, una parola: “resistenza”. Il valore fondante della nostra Repubblica, il segno distintivo della vicenda della sinistra in Italia.
La resistenza contro l’aggressore di un popolo che combatte casa per casa per la sua libertà. Che è anche la nostra libertà di cittadini italiani ed europei. Da un lato un esercito invasore, dall’altro un popolo invaso.
Io sto con quel popolo. E il PD è e sarà sempre dalla parte dei popoli oppressi: dalla parte di Jan Palach proprio come te. Prima ancora, nel giudizio storico, contro i carri armati russi, a Budapest come a Praga, o sotto il muro di Berlino per festeggiare la ritrovata libertà.
Se per il popolo ucraino oggi oppresso – proprio ora sotto le bombe e i missili – c’è anche solo una possibilità di negoziato, lo si deve a un atto di resistenza fiera e senza compromesso. Lo si deve alla ribellione di chi non si consegna, non si arrende, non si inginocchia. Chi siamo noi per dire loro di inginocchiarsi? La lista degli errori dell’Occidente non può essere un argomento sufficiente per persuaderli alla resa.
E non possiamo nemmeno negare che se Zelensky si fosse arreso, con la nostra colpevole inerzia sullo sfondo, oggi non ci sarebbero né un tavolo delle trattative, né forse una parvenza di speranza per il futuro della democrazia.
Del resto, non solo in Ucraina ma anche in Polonia, a Vilnius o a Praga, a Stoccolma o Helsinki, non ci sono processi alla Nato, ma appelli alla protezione della Nato e dell’Europa.
Un’Europa che peraltro ha avuto una reazione ferma, intransigente, finalmente degna.
Dici che non esiste, l’Europa. Io dico che esiste eccome e che anzi sta dimostrando, come diceva Jean Monnet, di trovare dentro la crisi le ragioni più profonde della propria unità. È accaduto con la pandemia, con un piano di ricostruzione finanziato con debito comune. Accade oggi, con la guerra. Questo sono le sanzioni. Questo è il sostegno alla resistenza ucraina. Questo è il sì, finalmente senza ambiguità, all’accoglienza di milioni di profughi. Questa è anche, per inciso, la reazione ferma e unitaria agli accenti troppo marcati di Biden sul cambio di regime, che in tanti in Europa abbiamo stigmatizzato, me compreso.
Atti politici inequivocabili coi quali a Putin diciamo che non si cede ai ricatti.
Se abbiamo fatto errori in passato, il primo è nell’aver sottovalutato per anni la natura di Putin e dopo il 2014 l’aggressività di un regime che invadeva Paesi sovrani, soffocava il dissenso e violentava la verità.
A proposito di verità: bisogna dire con chiarezza quanto pervasiva sia stata per anni e anni in Occidente la propaganda di Putin. Davvero avvaloriamo una par condicio delle fonti che mette sullo stesso piano la Tass e Reuters? Sputnik e Le Monde o il Guardian? L’ultimo dei media occidentali ha una credibilità infinitamente più alta di quelli che sono solo portavoce di Putin nella propaganda di Stato.
E a proposito di pluralismo: in Russia c’è un regime che i giornalisti li ammazza e i dissidenti li incarcera; l’Italia è certamente il Paese europeo dove più intenso è il dibattito e dove le voci critiche rispetto alle scelte del governo hanno più spazio rispetto a quelle favorevoli.
L’idea che ci sia qui da noi un tentativo di oscurantismo nei media, per di più avallato o alimentato da PD, è falsa e inaccettabile. Perché un conto sono le posizioni sull’invasione della Russia, sulle quali continueremo a confrontarci, un conto il presunto soffocamento delle voci “libere”. Che in verità sono squillantissime su tutti i nostri media.
Per quanto ci riguarda l’indignazione, più che a un maccartismo immaginario, la continueremo a riservare a un’aggressione che in una notte, tra il 23 e il 24 febbraio scorsi, ha portato milioni di ucraini a non svegliarsi più in casa propria. Che ha causato la morte di migliaia di civili ucraini e di migliaia di giovani militari russi. Persone che hanno terminato la propria esistenza per colpa, prima di tutto, dell’imperialismo di Vladimir Putin e del suo regime.”
Queste due posizioni aprivano in qualche modo una fitta ed interessante discussione raccolta da alcuni storici di professione ma soprattutto di inviati di guerra che stigmatizzavano il modo in cui la guerra veniva e viene raccontata.
Undici storici corrispondenti di grandi media hanno lanciato allo stesso tempo l’allarme sui rischi della narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto: “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin”.
A loro si aggiungono gli inviati di guerra . L’ex inviato del Corriere Massimo Alberizzi: “Questa non è più informazione, è propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni”. Toni Capuozzo (ex TG5): “Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori. Trattare così il tema vuol dire non conoscere cos’è la guerra”
Affermano gli inviati quindi “Osservando le televisioni e leggendo i giornali che parlano della guerra in Ucraina ci siamo resi conto che qualcosa non funziona, che qualcosa si sta muovendo piuttosto male”. Inizia così l’appello pubblico di undici storici inviati di guerra di grandi media nazionali (Corriere, Rai, Ansa, Tg5, Repubblica, Panorama, Sole 24 Ore), che lanciano l’allarme sui rischi di una narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto nel giornalismo italiano “Noi la guerra l’abbiamo vista davvero e dal di dentro: siamo stati sotto le bombe, alcuni dei nostri colleghi e amici sono caduti”, esordiscono Massimo Alberizzi, Remigio Benni, Toni Capuozzo, Renzo Cianfanelli, Cristiano Laruffa, Alberto Negri, Giovanni Porzio, Amedeo Ricucci, Claudia Svampa, Vanna Vannuccini e Angela Virdò. “Proprio per questo – spiegano – non ci piace come oggi viene rappresentato il conflitto in Ucraina, il primo di vasta portata dell’era web avanzata. Siamo inondati di notizie, ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi“, notano i firmatari. “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo”.
Gli inviati, come ormai d’obbligo, premettono ciò che è persino superfluo: “Qui nessuno sostiene che Vladimir Putin sia un agnellino mansueto. Lui è quello che ha scatenato la guerra e invaso brutalmente l’Ucraina. Lui è quello che ha lanciato missili provocando dolore e morte. Certo. Ma dobbiamo chiederci: è l’unico responsabile? Noi siamo solidali con l’Ucraina e il suo popolo, ma ci domandino perché e come è nata questa guerra. Non possiamo liquidare frettolosamente le motivazioni con una supposta pazzia di Putin“. Mentre, notano, “manca nella maggior parte dei media (soprattutto nei più grandi e diffusi) un’analisi profonda su quello che sta succedendo e, soprattutto, sul perché è successo”. Quegli stessi media che “ci continuano a proporre storie struggenti di dolore e morte che colpiscono in profondità l’opinione pubblica e la preparano a una pericolosissima corsa al riarmo. Per quel che riguarda l’Italia, a un aumento delle spese militari fino a raggiungere il due per cento del Pil. Un investimento di tale portata in costi militari comporterà inevitabilmente una contrazione delle spese destinate al welfare della popolazione. L’emergenza guerra – concludono – sembra ci abbia fatto accantonare i principi della tolleranza che dovrebbero informare le società liberaldemocratiche come le nostre”. (5)
Manifestazioni , opinioni, idee, posizioni contrastanti, che però di fronte al racconto della realtà impallidiscono.
Ecco perchè voglio riportare la traduzione di un reportage su Mariupol le cui vicende per giorni hanno fatto inorridire chi ascoltava i comunicati e leggeva i quotidiani per la brutalità di quanto è avvenuto .
La traduttrice Mimosa Martini dice : Ho tradotto questo racconto dei 20 giorni trascorso a Mariupol dai due giornalisti della Associated Press.
Un racconto molto forte che vi invito a leggere. Perché è la testimonianza vivida di cosa accade alla popolazione civile prigioniera dei bombardamenti, destinata a morire. E la testimonianza di cosa vuol dire, anche da un punto di vista profondamente emotivo trovarsi e infilarsi da giornalista, in queste situazioni belliche, per amore dell’informazione.
20 giorni a Mariupol: I giornalisti che hanno documentato l’agonia della città
MARIUPOL, Ucraina (AP) – I russi ci davano la caccia. Avevano una lista di nomi, inclusi i nostri e si stavano avvicinando.
Avevamo documentato l’assedio della città ucraina per più di due settimane ed eravamo gli unici giornalisti internazionali rimasti in città. Eravamo all’interno dell’ospedale quando degli uomini armati hanno fatto irruzione nei corridoi. I chirurghi ci hanno passato dei camici bianchi per camuffarci.
Improvvisamente all’alba una dozzina di soldati hanno gridato: “Dove sono i giornalisti, è per il vostro bene, cazzo!”
Ho guardato le loro insegne sulle maniche, erano blu per Ucraina e ho cercato di calcolare le probabilità che fossero russi mascherati da ucraini. Mi sono fatto avanti per identificarmi. “Siamo qui per portarvi via”, hanno detto.
Ci siamo messi a correre per le strade dopo aver abbandonato i medici che ci avevano dato rifugio, le donne incinte che erano state bombardate e le persone che dormivano nei corridoi perché non avevano altro posto dove andare. Lasciarmeli tutti alle spalle mi ha fatto sentire malissimo.
Nove minuti, forse dieci, un’eternità attraverso strade e interi condomini distrutti dai bombardamenti. Quando i missili si schiantavano vicino a noi ci gettavamo per terra. Il tempo veniva misurato con l’’intervallo tra un colpo e l’altro, con la tensione dei nostri corpi e il fiato da trattenere. Le onde d’urto in successione mi scuotevano il petto e le mani diventavano sempre più fredde.
Abbiamo raggiunto un ingresso e delle auto blindate ci hanno sballottato fino a un sotterraneo oscurato. Solo allora abbiamo saputo da un poliziotto che conoscevamo perché gli ucraini avevano rischiato le loro vite per tirarci fuori dall’ospedale.
L’agente che ci aveva pregati di far vedere al mondo la sua città in agonia ora ci implorava di andarcene. Ci spingeva verso le migliaia di automobili malconce che si preparavano a lasciare Mariupol.
Era il 15 marzo. Non sapevamo se ce l’avremmo fatta a uscirne vivi.
Da adolescente sono cresciuto in Ucraina nella città di Kharkiv, meno di 40 chilometri dal confine russo dove imparare a usare una pistola fa parte del curriculum scolastico. Mi sembrava inutile. L’Ucraina, mi dicevo, è circondata da amici.
Da allora ho coperto le guerre in Iraq e in Afghanistan ma anche nel territorio conteso del Nagorno Karabakh cercando di mostrare al mondo la devastazione da vicino. Ma quando quest’inverno prima gli americani, poi gli europei, hanno evacuato il personale delle loro ambasciate da Kyiv e ho segnato sulle mappe lo schieramento delle truppe russe appena oltre la mia città, il mio unico pensiero è stato: “Povero paese mio”.
Nei primi giorni di guerra i russi hanno bombardato l’enorme Piazza della Libertà di Kharkiv, dove avevo bighellonato fino all’età di 20 anni.
Sapevo che i russi avrebbero considerato la città portuale di Mariupol come un obiettivo strategico perché è localizzata sul Mare di Azov. Per questo la sera del 23 febbraio, insieme al collega Eugeniy Maloetka, un fotografo ucraino della Associated Press con il quale lavoro da tempo, siamo saliti sul suo vecchio furgone Volkswagen per andarci.
Lungo la strada ci siamo attivati per procurarci delle ruote di scorta e abbiamo trovato online un uomo disposto a venderne in piena notte. Quando a lui e al cassiere di un supermarket aperto 24 ore abbiamo spiegato che ci stavamo preparando per la guerra ci hanno preso per matti.
Siamo entrati a Mariupol alle 3.30 del mattino. La guerra ha avuto inizio un’ora dopo.
Un quarto circa dei 430 mila abitanti di Mariupol sono andati via in quei primi giorni, quando ancora era possibile. Ma in pochi pensavano che la guerra stesse arrivando. Con il tempo si sono resi conto che si erano sbagliati. Ma era già troppo tardi.
Una bomba alla volta i russi hanno tagliato l’elettricità, l’acqua, le scorte alimentari e infine, mezzo fondamentale, i telefoni cellulari e le torri della radio e della televisione. I pochi altri giornalisti presenti in città se ne sono andati prima che fossero troncate le ultime comunicazioni e che la città venisse bloccata.
L’assenza di informazione in un assedio fa raggiungere due obiettivi.
Il primo è il caos. La gente non sa cosa sta succedendo e va nel panico. All’inizio non riuscivo a capire come mai Mariupol fosse caduta così rapidamente. Adesso so che è per l’assenza di informazioni.
Il secondo obiettivo è l’impunità. Senza informazioni in uscita dalla città, senza immagini di immobili distrutti e di bambini che muoiono, le forze russe potevano fare quello che volevano. Se non fosse stato per noi non ci sarebbe niente.
Ecco perché abbiamo corso un simile rischio, per essere in grado di diffondere nel mondo quello che avevamo visto. Ed è questo che ha imbestialito la Russia, tanto da darci la caccia.
Mai come in questa occasione ho sentito che rompere il silenzio fosse tanto importante.
Le morti sono arrivate velocemente. Il 27 febbraio abbiamo visto un medico cercare di salvare una bambina colpita da una scheggia. È morta.
Un secondo bambino è morto, poi un terzo. Le ambulanze non sono più andate a prendere i feriti perché la gente non poteva chiamarle non avendo segnale e i mezzi non potevano più orientarsi nelle strade bombardate.
I medici ci imploravano di filmare le famiglie che trasportavano da sole morti e feriti e ci hanno fatto usare la corrente sempre più debole del loro generatore per ricaricare l’attrezzatura. Nessuno sa cosa sta succedendo in città, ci dicevano.
Il bombardamento ha colpito l’ospedale e le case intorno. Ha mandato in frantumi i vetri del nostro furgone, scavato un buco sulla fiancata e fatto esplodere una gomma. Qualche volta uscivamo per andare a filmare una casa in fiamme ma tornavamo di corsa indietro tra le esplosioni.
C’era ancora un posto in città dove prendeva la connessione, fuori da una drogheria su viale Budivel’nvkiv. Una volta al giorno guidavamo fin lì e ci accovacciavamo dietro alle scale per scaricare foto e video da spedire nel mondo. Le scale non sarebbero state una buona protezione ma sembravano più sicure che stare fuori all’aperto.
Il segnale è svanito a partire dal 3 marzo. Abbiamo provato a spedire i nostri video dalle finestre del settimo piano dell’ospedale. È da lassù che abbiamo visto l’ultimo spicchio di Mariupol, città della solida media borghesia, crollare.
Il centro commerciale del porto era stato saccheggiato e ci siamo diretti da quella parte in mezzo ai colpi di artiglieria e mitragliatrici. Decine di persone correvano e spingevano i carrelli della spesa carichi di apparecchi elettronici, cibo e vestiti.
Un missile è esploso sul tetto del negozio, sbalzandomi all’esterno sul selciato. Mi sono contratto, pronto al secondo colpo e mi sono maledetto mille volte perché la mia videocamera non era accesa per registrare tutto questo.
Ed eccolo un altro colpo che colpisce in pieno la palazzina accanto a me con un suono orribile. Mi sono infilato dietro un angolo per ripararmi.
Un adolescente è passato spingendo una sedia da scrivania con le ruote carica di apparecchiature elettroniche e scatole che sporgevano dai lati.
“I miei amici erano lì dentro e la bomba è caduta a 10 metri da noi”, mi ha detto,” non ho idea di cosa sia capitato a loro”.
Siamo fuggiti verso l’ospedale. Dopo 20 minuti arrivarono i feriti, alcuni infilati nei carrelli della spesa.
Per alcuni giorni l’unico legame che avevamo con il mondo esterno era tramite un telefono satellitare. E l’unico punto dove il telefono prendeva era all’aperto, proprio vicino al cratere di una bomba. Mi sedevo e provavo a farmi più piccolo possibile mentre cercavo di prendere la linea.
Tutti chiedevano: “per favore dicci quando la guerra finirà”. Io non avevo risposte.
Ogni singolo giorno circolava la notizia che l’esercito ucraino sarebbe venuto a rompere l’assedio. Ma non è arrivato nessuno.
Intanto ho visto con i miei occhi i morti nell’ospedale, i cadaveri per le strade, decine di corpi sepolti in una fossa comune. Ho visto così tanta morte che filmavo senza mai riuscire a catturarla tutta.
Il 9 marzo un doppio bombardamento ha strappato la plastica che ricopriva i finestrini del nostro furgone. Ho visto il proiettile appena un soffio prima che il dolore mi perforasse il timpano e stracciasse volto e pelle.
Abbiamo visto il fumo innalzarsi dall’ospedale per partorienti. Quando siamo arrivati i soccorritori stavano ancora estraendo donne incinte coperte di sangue dalle macerie.
Le nostre batterie erano quasi scariche e non avevamo linea per inviare le foto. Mancava poco al coprifuoco. Un agente di polizia ci ha sentiti parlare di come far uscire le notizie del bombardamento dell’ospedale.
“Questo cambierà il corso della guerra”, ha detto. Ci ha dato di che caricare la batteria e una connessione internet.
Avevamo filmato così tanti morti e così tanti bambini uccisi, una fila infinita. Non capivo perché pensasse che ancora più morti potessero cambiare alcunché.
Sbagliavo.
Al buio abbiamo inviato le immagini mettendo in linea tre telefoni cellulari con i filmati divisi in tre parti per accelerare il procedimento. Ci sono volute ore ben oltre il coprifuoco. Il bombardamento andava avanti ma i poliziotti che ci erano stati assegnati per scortarci attraverso la città aspettavano pazienti.
Poi il nostro collegamento con il mondo fuori da Mariupol fu di nuovo tagliato.
Siamo andati di nuovo nel seminterrato di un albergo con l’acquario ora pieno di pesci rossi morti. Nel nostro isolamento non sapevamo nulla della crescente campagna di disinformazione che faceva la Russia per screditare il nostro lavoro.
L’ambasciata russa a Londra aveva pubblicato due tweet dicendo che le foto di AP erano false e che una delle donne incinte era un’attrice. L’ambasciatore russo ha portato copie delle foto alla riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per ripetere le sue bugie sull’attacco all’ospedale per partorienti.
Nel frattempo a Mariupol eravamo sopraffatti da gente che ci chiedeva le ultime notizie sulla guerra. Tantissime persone sono venute da me dicendomi: per favore filma me e la mia famiglia così fuori città sanno che siamo ancora vivi.
Il segnale della radio o della televisione ucraine a Mariupol non funzionava più. L’unica radio che si riusciva a prendere trasmetteva le bugie russe: che gli ucraini tenevano Mariupol in ostaggio, che sparavano ai palazzi e che stavano producendo armi chimiche. La propaganda era così potente che c’era chi ci credeva nonostante avesse le prove della verità sotto gli occhi.
Il messaggio veniva ripetuto senza sosta in stile sovietico: Mariupol è circondata. Abbandonate le armi.
L’11 marzo, con una breve telefonata senza dare dettagli, il caporedattore ci ha chiesto se potevamo trovare la donna che era sopravvissuta al bombardamento dell’ospedale per provarne l’esistenza. Lì ho capito che il filmato doveva essere stato così potente da provocare la reazione del governo russo.
Le abbiamo trovate in prima linea nell’ospedale, alcune con i neonati, altre in travaglio. Abbiamo anche appreso che una di loro aveva prima preso il bambino poi la sua stessa vita.
Siamo saliti al settimo piano per inviare il video con un debole collegamento a internet. Da lassù ho visto una lunga fila di carriarmati allinearsi intorno al complesso dell’ospedale, ognuno segnato con la lettera Z che è diventata il simbolo della Russia per la guerra.
Eravamo circondati: decine di medici, centinaia di pazienti, e noi.
__
I soldati ucraini che proteggevano l’ospedale erano scomparsi. E il percorso fino al nostro furgone con dentro il cibo, l’acqua e l’attrezzatura era sotto il tiro di un cecchino russo che aveva già colpito un medico che si era avventurato all’esterno.
Erano trascorse molte ore di buio quando abbiamo udito le esplosioni all’esterno. È stato quando i soldati sono venuti a prenderci gridando in ucraino.
Non l’ho vissuta come una liberazione. Era come se ci avessero spostato da un pericolo a un altro. In quel momento non c’era un solo posto sicuro a Mariupol e non esisteva sollievo. Si poteva morire in ogni istante.
Provai infinita gratitudine per quei soldati ma mi sentivo anche intorpidito. E provavo vergogna perché me ne stavo andando.
Ci siamo stipati dentro una Hyundai con una famiglia di tre persone e infilati in un ingorgo di 5 chilometri per uscire dalla città. Circa 30 mila persone sono riuscite a scappare da Mariupol quel giorno, così tanti che i soldati russi non facevano in tempo a controllare a fondo l’interno delle auto con i finestrini coperti da brandelli di plastica svolazzanti.
.
Erano tutti nervosi, combattevano, si gridavano addosso l’uno con l’altro. Ogni minuto c’era il passaggio di un aereo o un bombardamento. Il terreno tremava.
Abbiamo attraversato 15 check point russi. Ad ognuno di essi la madre seduta davanti si metteva a pregare con foga con la voce così alta che sentivamo ogni parola.
Ad ogni attraversamento, al terzo, al decimo, al quindicesimo, tutti presidiati da soldati con armi pesanti, la mia speranza che Mariupol ce la facesse a sopravvivere andava svanendo. Ho capito che solo per raggiungere la città l’esercito ucraino avrebbe dovuto sfondare troppo territorio presidiato. E che non sarebbe successo. Al tramonto siamo arrivati presso un ponte distrutto dagli ucraini per fermare l’avanzata russa. Un convoglio con 20 mezzi della Croce Rossa era ancora bloccato lì. Siamo usciti tutti insieme dalla strada e ci siamo avviati per i campi e i sentieri sterrati.
Le guardie al check point numero 15 parlavano il russo grezzo del Caucaso. Hanno ordinato al convoglio di spegnere i fari per celare gli armamenti e i mezzi in sosta sui lati della strada. Sono riuscito intravedere solo la Z bianca dipinta sui veicoli.
Appena superato il sedicesimo check point abbiamo sentito delle voci. Voci ucraine. Ho provato un sollievo travolgente. La madre seduta davanti in macchina è scoppiata in lacrime. Eravamo fuori.
Siamo ancora sommersi da messaggi di persone che vogliono conoscere la sorte dei loro cari che abbiamo fotografato e filmato. Ci scrivono con disperazione e confidenza, come se non fossimo degli estranei, come se potessimo aiutarli.
Quando un bombardamento russo ha colpito un teatro dove centinaia di persone si erano rifugiate la scorsa settimana, sarei stato in grado di localizzare con esattezza dove era necessario andare per avere notizie di sopravvissuti, per ascoltare in prima persona cosa significava rimanere intrappolati per ore infinite sotto montagne di macerie. Conosco quell’edificio e le case distrutte che lo circondano. Conosco le persone che sono intrappolate là sotto.
Domenica le autorità ucraine hanno detto che la Russia ha bombardato una scuola d’arte di Mariupol con almeno 400 persone dentro.
Ma non possiamo andarci più
Questo racconto è stato fatto da Chernov al reporter dell’Associated Press Lori Hinnant, che lo ha scritto da Parigi. Collaborazione di Vasylisa Stepanenko.
(1)https://www.linkiesta.it/2022/10/milano-manifestazione-5-novembre-ucraina/
(2)https://www.dire.it/04-11-2022/824987-la-sfida-delle-piazze-per-lucraina-pacifisti-divisi-tra-roma-e-milano/
(4)Noi condanniamo senza se e senza ma l’invasione dell’Ucraina. Putin dovrà risponderne al suo popolo e alla Storia. Per porre fine al massacro abbiamo di fronte due strade: affidarsi alla forza delle armi o mobilitarsi con un’azione nonviolenta per una trattativa immediata e una soluzione diplomatica.
Pensiamo che le armi siano la risposta sbagliata. Il nemico più grande è la guerra, la pretesa di sconfiggere Putin con una escalation militare, scalzandolo dal potere, comporta innumerevoli morti, sofferenze atroci tra i civili e un futuro di miseria per una moltitudine di persone. Più di tutto ci preoccupa il possibile impiego di armi nucleari, che rappresentano una minaccia per l’insieme della vita sulla terra e una possibile sentenza di morte per l’umanità. La parola pace è censurata. L’informazione non esprime la varietà di posizioni presenti tra l’opinione pubblica. La maggioranza contraria all’invio di armi viene sistematicamente ignorata.
Per i media non c’è alternativa alla guerra, che rappresentano come uno scontro tra buoni e cattivi, dove la somma degli orrori cancella il “chi, dove, come, quando e perché”. Il sangue delle vittime deve chiamare altro sangue per giustificare la necessità di una sconfitta definitiva dell’aggressore. È ora di dire basta alle armi e di agire in maniera nonviolenta, a partire dall’accoglienza dei profughi di ogni guerra. Creiamo una comunità determinata a far sentire la propria voce.
La nostra iniziativa è una protesta per opporsi alla deriva verso il pensiero unico e la resa dell’intelligenza. Sarà un evento dal vivo in teatro – lunedì 2 maggio 2022 dalle ore 21 alle ore 23,30 al teatro Ghione di Roma – e una diretta streaming con la quale chiunque potrà interagire grazie ai social. Qualunque radio, emittente televisiva o canale social potrà liberamente trasmettere la nostra iniziativa che sarà autofinanziata con il crowdfunding.
Elenco partecipanti
Luciana Castellina, Ascanio Celestini, Emily Clancy, don Fabio Corazzina, Jasmine Cristallo, Fiammetta Cucurnia, Donatella Di Cesare, Sara Diena, Elio Germano, Sabina Guzzanti, Fiorella Mannoia, Tomaso Montanari, Moni Ovadia, Michele Santoro, Vauro Senesi, Cecilia Strada, Marco Tarquinio
(5 )Noi siamo o siamo stati corrispondenti di guerra nei Paesi più disparati, siamo stati sotto le bombe, alcuni dei nostri colleghi e amici sono caduti durante i conflitti, eravamo vicini a gente dilaniate dalle esplosioni, abbiamo raccolto i feriti e assistito alla distruzione di città e villaggi.
Abbiamo fotografato moltitudini in fuga, visto bambini straziati dalle mine antiuomo. Abbiamo recuperato foto di figli stipate nel portafogli di qualche soldato morto ammazzato. Qualcuno di noi è stato rapito, qualcun altro si è salvato a mala pena uscendo dalla sua auto qualche secondo prima che venisse disintegrata da una bomba.Ecco, noi la guerra l’abbiamo vista davvero e dal di dentro. Proprio per questo non ci piace come oggi viene rappresentato il conflitto in Ucraina, il primo di vasta portata dell’era web avanzata.
Siamo inondati di notizie ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico.
Inondati di notizie, dicevamo, ma nessuno verifica queste notizie. I media hanno dato grande risalto alla strage nel teatro di Mariupol ma nessuno ha potuto accertare cosa sia realmente accaduto. Nei giorni successivi lo stesso sindaco della città ha dichiarato che era a conoscenza di una sola vittima. Altre fonti hanno parlato di due morti e di alcuni feriti. Ma la carneficina al teatro, data per certa dai media ha colpito l’opinione pubblica al cuore e allo stomaco.
La propaganda ha una sola vittima il giornalismo.
Chiariamo subito: qui nessuno sostiene che Vladimir Putin sia un agnellino mansueto. Lui è quello che ha scatenato la guerra e invaso brutalmente l’Ucraina. Lui è quello che ha lanciato missili provocando dolore e morte. Certo. Ma dobbiamo chiederci: ma è l’unico responsabile?
I media ci continuano a proporre storie struggenti di dolore e morte che colpiscono in profondità l’opinione pubblica e la preparano a un’inevitabile corsa verso una pericolosissima corsa al riarmo. Per quel che riguarda l’Italia, a un aumento delle spese militari fino a raggiungere il 2 per cento del PIL.
Un investimento di tale portata in costi militari comporterà inevitabilmente una contrazione delle spese destinate al welfare della popolazione.
L’emergenza guerra sembra ci abbia fatto accantonare i principi della tolleranza che dovrebbero informare le società liberaldemocratiche come le nostre. Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina.
Noi siamo solidali con l’Ucraina e il suo popolo, ma ci domandino perché e come è nata questa guerra. Non possiamo liquidare frettolosamente le motivazioni con una supposta pazzia di Putin.
Notiamo purtroppo che manca nella maggior parte dei media (soprattutto nei più grandi e diffusi) un’analisi profonda su quello che sta succedendo e, soprattutto, sul perché è successo.
Questo non perché si debba scagionare le Russia e il dittatore Vladimir Putin dalle loro responsabilità ma perché solo capendo e analizzando in profondità questa terribile guerra si può evitare che un conflitto di questo genere accada ancora in futuro.
Massimo Alberizzi ex Corriere della Sera
Remigio Benni ex Ansa
Giampaolo Cadalanu – Repubblica
Tony Capuozzo ex TG 5
Renzo Cianfanelli Corriere della Sera
Cristano Laruffa Fotoreporter
Alberto Negri ex Sole 24ore
Giovanni Porzio ex Panorama
Amedeo Ricucci RAI
Eric Salerno ex Messaggero
Giuliana Sgrena Il Manifesto
Claudia Svampa ex Il Tempo
Vanna Vannuccini Ex Repubblica
Angela Virdò ex Ansa