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” LA VITA E LA MORTE ” – DOTT.RE MARCO CALZOLI

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         Redazione-   Assmann, nel suo volume intitolato La morte come tema culturale (2002), sosteneva che nell’antico Egitto la morte non fosse vista in maniera univoca bensì secondo tre tendenze:

  • la morte come nemico
  • la morte come ritorno a casa
  • la morte come mistero.

          Il pensiero egiziano non aveva una concezione lineare del tempo, ma ciclico: il mondo percorre dei grandi periodi nei quali ritorna su sé stesso dopo moltissimo tempo. La morte veniva considerata come una parte necessaria al ciclo: essa era come la nave che approda al porto, cioè come la fine del viaggio, nel ritorno al mondo al di là.

          Nell’antico Egitto ingenti risorse erano destinate al culto degli dei, ma altrettante anche al culto dei morti. Il morto doveva avere qsr.t nfr.t, cioè “una buona sepoltura”, che si concretizzava:

  • luogo sicuro in cui seppellire il corpo
  • cappella per le offerte
  • testi funerari per la perpetuazione dei riti. Sulle pareti della cella funeraria erano scritti dei testi funerari, oppure erano inseriti dentro la sepoltura su rotoli di papiro: avevano la funzione di far continuare il rito funerario anche dopo la morte per guidare il defunto alla rigenerazione.

         Fondamentale che il corpo fosse conservato integro per la sopravvivenza del Ba. Vale a dire che la mummificazione del corpo permetteva la sussistenza del Ba. Il Ba non è tanto una delle parti dell’anima, come si suole dire, ma una entità che faceva parte dell’uomo e che sopravviveva dopo la morte del corpo fisico. Il Ba del defunto aveva il potere di lasciare il corpo e di andare in mondi paralleli. Da una parte il Ba sentiva la necessità di andare in mondi diversi per nutrirsi mediante le offerte tributate al defunto ma dall’altra parte il Ba voleva ritornare nel corpo per reintegrarsi.

         Le offerte di fiori e di cibo erano necessarie certamente al Ba ma anche fondamentali per l’integrità del Ka, un’altra entità dell’uomo che era visto come il doppio animico della persona. Il Ka del defunto entrava nella statua all’ingresso della sepoltura, sotto la quale i vivi tributavano offerte al morto.

          Senza un Ka integro il defunto non poteva giungere allo stato di Akh, ossia di “morto trasfigurato”.

          Ogni persona tendeva a diventare Akh, cioè un risorto, ma solo pochi vi riuscivano. Ottenevano questo traguardo solamente coloro che nella vita terrena erano stati giusti.

        Nella formula 125 del Libro dei Morti è sintetizzato quello che succedeva dopo la morte:

  1. Dichiarazione di innocenza del defunto e pesatura del cuore (vale a dire l’anima)

  1. Se la bilancia è in equilibrio, il defunto è detto maa Xrw, ossia “giusto di voce”, vale a dire “giustificato”: egli durante la vita terrena ha agito in conformità alla Maat, alla giustizia, riflesso dell’ordine cosmico

  1. In caso contrario, Ammut divorerà il suo cuore e così al defunto è negato l’accesso all’Aldilà.

          Jan Zandee, nel suo studio intitolato Death as an enemy according to ancient Egyptian conceptions (1977), sosteneva come il sonno era visto quale una sorta di morte, nel quale il vivo andava temporaneamente nell’Aldilà, ove incontrava dei e defunti. Nell’egiziano antico verbi come “essere stanco” (wrD, nnj, bagj) e “dormire” (sDr, nm’ e soprattutto qd) sono usati anche per indicare il sonno della morte. È interessante la formula del Libro dei Morti 41; 111.6: “Io vivo veramente, dopo essermi addormentato”, nella quale il defunto si paragona a un dormiente. Testi delle Piramidi 1975.a – b: “Tu vai via e ritorni, tu ti addormenti e ti risvegli, tu cadi e risorgi”. Testi dei Sarcofagi I, 306.a: “O stanco, o stanco che dormi, o stanco in questo posto che non conosci”.

           Ebbene, per Zandee gli egiziani consideravano la morte anche una nemica della vita, anche se era necessaria per diventare Akh. Inoltre, non vi era reale separazione tra vita e morte, in quanto i morti potevano ritornare sulla terra da Akh e i vivi potevano stringere rapporti con i defunti soprattutto nel sonno. Le Lettere ai Morti testimoniano di un vivo scambio comunicativo tra vivi e morti per ottenere favori reciproci.

         Gli antichi egiziani dormivano su stuoie sul terreno e spesso usavano un poggiatesta, il quale aveva potere protettivo. Nel sonno, infatti, andando temporaneamente nell’Aldilà, si potevano incontrare anche divinate negative e defunti molesti. Il termine egiziano per poggiatesta è wrs, dalla stessa radice del verbo rs “essere sveglio”, “svegliarsi” e rsw.t, “sogno”. Il Libro dei Morti 166 conserva la formula per il poggiatesta, che veniva adoperato sia in contesto domestico che funerario.

          Le divinità raffigurate più spesso sui poggiatesta sono Bes-Aha e Taweret, anche protettori dei nascituri e delle donne incinte. Bes venne venerato per tutta la storia antico-egiziana, costituisce una forma ”popolare” del dio solare, spesso associato ad Hathor. Dotato di molteplici occhi, Bes protegge i dormienti la notte. Queste divinità protettrici sono raffigurate armate, in assetto di protezione. Invece le immagini di Taweret, la Grande Dea, risalgono sin al III millennio a.C. Era identificata con Ipet, dea nutrice, simbolo di fertilità e associata all’inondazione del Nilo.

          Neith era una divinità molto antica, il suo culto risorge durante la XXVI dinastia. Era la controparte del dio dei flutti primordiali, patrona della caccia e della guerra, appare solo raramente sui poggiatesta di epoca saitica come custode del sonno.

  1. Altenmüller (Die Apotropaia und die Götter mittelägyptens: Eine typologische und religiongeschichtliche Untersuchung der sogenannten “Zaubermesser” des Mittleren Reichs, 1965) compie un importante studio riguardo gli Apotropaia (detti anche magic wands), oggetti che dovrebbero aver avuto funzione analoga a quella dei poggiatesta, sia in contesto domestico che funerario. Hanno le stesse raffigurazioni dei poggiatesta: Bes-Aha, Taweret; e stesse formule di protezione.

            Tutte le religioni affrontano in qualche modo il tema della morte. Secondo gli storici delle religioni, è tale un culto che abbia almeno due caratteristiche: riconoscimento di due realtà (qui e ora, mondo terreno e mondo ultraterreno) e istanza salvifica. Quindi giocoforza ogni religione si scontra con il problema della morte.

              Il cristianesimo da duemila anni proclama la Buona Novella, in greco euanghelion, “vangelo”, cioè la vittoria di Cristo sulla morte, che Egli ha ottenuto su sé stesso e su ogni battezzato. Dopo la risurrezione di Cristo, infatti, ogni uomo salvato va in paradiso, il regno di beatitudine che Dio concede a quanti credono alle parole di Cristo. Invece coloro che non accolgono Gesù sono destinati all’inferno. L’inferno ha una pena del danno (la separazione definitiva da Dio) e una pena del senso (una punizione per i peccati). Coloro che sono salvati, prima di accedere al paradiso, possono trascorrere un periodo in purgatorio, nel quale si purificano con “fiamme d’amore” (Caterina da Genova) in attesa del definito incontro con Dio.

            Secondo la dottrina cristiana la morte consiste nella separazione dell’anima dal corpo: l’anima va nell’Aldilà dove gioirà o soffrirà in eterno sulla base del “giudizio particolare” riservato a ogni defunto. Alla fine dei tempi ci sarà il “giudizio universale” che ratificherà il giudizio particolare. La differenza tra i due giudizi sta che nel primo solo l’anima andrà definitivamente nel paradiso o nell’inferno  (il purgatorio è uno stato temporaneo che prefigura il paradiso), invece nel giudizio universale ci sarà anche la risurrezione dei corpi, i quali si uniranno all’anima per gioire o soffrire eternamente. Gli uomini durante la vita sulla terra hanno compiuto buone azioni o crimini anche con il corpo, quindi è giusto che alla salvezza o alla condanna partecipino anche i corpi.

         Gesù disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?” (Giovanni 11, 25-26).

           “Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore” (1Tessalonicesi 4, 16-17).

            “Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8, 38-39).

“Dove andare lontano dal tuo spirito,

dove fuggire dalla tua presenza?

Se salgo in cielo, là tu sei,

se scendo negli inferi, eccoti” (Salmo 139, 7-8).

         Dio è il Signore assoluto della storia e dello spazio. San Girolamo (PL 26, 1233) diceva: “Nessuna altezza è più alta di te, nessuna profondità è più profonda di te: Oriente e Occidente sono contenuti nella tua mano”.

           Il Salmo 139 compie un merismo, presenta due realtà antitetiche e opposte (cieli/inferi) con lo scopo di includere anche tutto ciò che sta nel mezzo. Vale a dire che per il salmista Dio è il padrone assoluto di tutto quanto esiste. Corano 13, 16: Dio è il signore del cielo e della terra, che nell’originale arabo suona rabbu l-samāwāti wal-arḍi.

           Se l’uomo vuole salire (nsq, un hapax) fino ai cieli, lì trova Dio. Il suo volo è indicato nell’originale ebraico con sfumatura quasi prometeica, gli esegeti parlano di una folle ascensione, impossibile all’uomo. Elia venne rapito nei cieli ma per volontà di Dio. Nei cieli Dio è presente con la sua corte, l’uomo da solo non può ascendere alla presenza di Dio. Ma se anche ascendesse, riuscisse da solo a varcare lo spazio divino e a trascendere del tutto i limiti creaturali, lì troverebbe nientemeno che Dio.

            Invece la discesa agli inferi (da non confondere con l’inferno cristiano: per l’Antico Testamento gli inferi, cioè lo Sheol, sono semplicemente l’Ade greco dei morti, ciò che a Qumran era detto “luogo della morte”, ‘tr mwt) è indicata dal verbo ebraico jsh’, che letteralmente significa “distendersi, giacere a letto”: anche il salmista immagina la morte come un sonno, esattamente come facevano gli antichi egiziani, ma anche i greci (che facevano coincidere upnos e thanatos), e prima ancora i mesopotamici (in accadico la morte può essere descritta con verbi come “addormentarsi”, shalātu, “riposare”, nalu, pashaku).

            Giobbe 11, 8: la perfezione di Dio è più alta dei cieli e più profonda degli inferi. Letteralmente in testo masoretico ha il sintagma “innalzamenti dei cieli” (gabehe shamaim), invece la Vulgata presenta excelsior caelo est (è più alta del cielo), che presuppone un originale ebraico gebohah mi-shamaim.

             Per molti l’ebraico shamaim, “cieli”, sarebbe un duale, in quanto anticamente si credeva che il cielo fosse diviso in due da una calotta, quindi abbiamo il cielo sotto la calotta e il cielo al di sopra.

             L’uomo è in continua trasformazione. Il senso della presenza delle divinità tra noi, che eseguono gli ordini di Dio, è quello di trasformare l’essere umano. L’uomo si incarna nella dimensione terrena per compiere il passaggio in una superiore, dopo la morte. Gli angeli aiutano l’uomo a trovare la propria anima, cioè a reintegrarsi nella natura divina primigenia.

          Orfismo, gnosticismo, platonismo hanno una visione dualista del mondo: l’uomo decade nella condizione umana e, dopo la morte, si reintegra in una natura superiore. È in sostanza anche una lettura che i guru fanno del Ramayana, un poema induista. Rama vede rapita la propria amata, Citta, dal demone Rava. Il compito di Rama è quello di ritrovare Citta e in ciò lo aiuta un esercito di scimmie. I guru dicono che Rama è il prototipo dell’essere umano, il quale incarnandosi in un mondo inferiore, cioè vivendo la condizione terrestre, perde l’amata, cioè l’anima, vale a dire che dimentica la sua origine nobile, divina. Il compito sulla terra è quello di riconquistare la dignità perduta.

          Dopo la morte, se l’essere umano ha conseguito meriti, risorge per una risurrezione di gloria. È il mito degli Akh dell’antico Egitto e la rivelazione del paradiso nelle religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo, Islam).

           Nella sezione dello Zohar, il più importante testo cabalistico, relativa alla parashà Shelach lekhà, è scritto che il serpente cambia pelle e urla di dolore; quindi quando l’uomo colpisce la terra con un bastone, il serpente gli fa un’eco. Cosa significano queste parole così criptiche? Secondo noi, lo Zohar vuole dire che il serpente è il simbolo dell’uomo. L’uomo come il serpente cambia pelle, cioè vive una esperienza di trasformazione, dopo la morte. Il verbo “colpire”, N-Q-SH, dà come anagramma “baciare”, N-SH-Q, l’uomo deve essere “colpito” per “baciare”, cioè per passare ad uno stato migliore. Deve morire pe risorgere. Per aspera ad astra.

            L’uomo di solito teme la morte, ma la morte altro non è che il passaggio alla gloria. Gesù nella passione subì sofferenze fisiche perché colpito e crocifisso, morali perché abbandonato dagli apostoli, spirituali per abbandonato da Dio stesso, ma erano necessarie per giungere alla gloria della risurrezione. Per questo Giovanni nel suo vangelo intarsia la passione di Gesù con termini regali, e addirittura usa una connotazione molto significativa: Giovanni adopera il termine greco Doxa, “gloria”, per indicare due momenti uniti in un solo scopo, la passione e la resurrezione. La Gloria di Cristo non è solo la sua risurrezione ma anche la passione stessa.

           E ogni essere umano è chiamato a rivivere i patimenti di Cristo per ottenere la sua risurrezione. Il paradiso costa lacrime e sangue, dice la sapienza popolare, cogliendo nel vivo il senso della esperienza dell’uomo sulla terra. La liturgia cattolica canta che la croce di Cristo è “trono, talamo e altare”. Anche la croce viene illuminata dalla gloria futura.

          Lo Zohar insegna a più riprese che l’unica cosa che Dio ha creato è Lui medesimo. Il mondo altro non è che Dio stesso, le apparenze celano con un Velo Nero l’essenza della realtà che è Una sola, Dio. Quindi anche la sofferenza è una manifestazione di Dio, che però sfugge all’uomo della strada, che si sofferma sul patimento immediato dimenticando il senso recondito del dolore. Il dolore è la Via di Mem di cui parla il Sefer Yetzirah, un altro testo capitale del pensiero cabalistico, per il quale il male è semplicemente una strada voluta da Dio e che conduce a Dio, come ce ne sono altre.

              Nel mondo ugaritico solo gli dei sono immortali, invece gli uomini devono morire. Anzi nel poema di Aqhat, la dea Anat ha offerto a Aqhat la vita eterna in cambio del suo arco, ma Aqhat la respinge dicendo che gli uomini devono morire. Invece nelle religioni abramitiche Dio stesso concede agli uomini la vita eterna e anzi, nel cristianesimo, persino una divinizzazione come partecipazione alla natura divina, come messo particolarmente in risalto dalle chiese orientali.

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 50 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.

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