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” IL SACRO IN ORIENTE ” – DOTT.RE MARCO CALZOLI

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Redazione- Le più antiche culture dell’umanità delle quali abbiamo testimonianze storiche risalgono al III millennio a.C. Sono quella egiziana, quella sumerica e quella della Valle dell’Indo. Possiamo dire, relativamente alle prime due, che la storia umana inizia nella Mezzaluna Fertile, ovvero nel Vicino Oriente.

La culla della nostra civiltà sta in Oriente. Ricordiamo altresì che la identità europea, oltre ad essere greco-romana, è anche cristiana. Il cristianesimo si evolve dall’ebraismo: ebraismo e cristianesimo sono due religioni orientali che hanno plasmato l’attuale nostro modo di vedere la realtà. Oggi se noi occidentali, quando pensiamo a Dio, lo immaginiamo uno, personale e buono, lo dobbiamo al retaggio ebraico e cristiano. Non solo ma la identità europea, oltre a gravitare tra Grecia/Roma e Palestina, si è formata nel Medioevo anche grazie all’apporto islamico mediante la sua cultura filosofica e scientifica. Ricordiamo che ai tempi di Carlo Magno, quando Parigi era un villaggio sulle rive fangose della Senna e Rivoaltus (la futura Venezia) era un grumo di capanne in mezzo alla laguna, la metropoli di Baghdad era fiorente e tollerante.

Pensiamo a quanto la civiltà mesopotamica abbia influito sulla nostra. Pochi sanno che la cultura mesopotamica, come retaggio di quella classica e giudeo-cristiana, sta alla base per molti aspetti di quella occidentale. L’emblema dei sovrani è ancora oggi lo scettro, il quale compariva già nelle raffigurazioni dei re sumeri. Alcune parole della lingua italiana ci sono giunte, per la mediazione dell’arabo, dall’accadico, lingua semitica adoperata dai babilonesi e dagli assiri: sesamo, meschino, salamelecco. Se noi ancora oggi, quando ragioniamo, lo facciamo di solito secondo la logica discorsiva, per cui parola = pensiero, lo dobbiamo certamente alla filosofia di Aristotele, che fonda la logica occidentale, basandosi su Parmenide e Platone, ma in ultima analisi lo dobbiamo al concetto babilonese di Mummu.

La scrittura è nata in Egitto e in Mesopotamia (sumeri): secondo una certa ricostruzione le due civiltà si contendono l’inizio della scrittura. La scienza come la conosciamo noi è una elaborazione che nasce dalla cultura sumerica come estensione della scrittura primordiale. Però, secondo recentissimi studi, la civiltà sumerica sarebbe ancora più antica del III millennio, cioè sarebbe la prima dell’umanità ad avere testimonianze scritte. Infatti, la scrittura nascerebbe alla fine del IV millennio a.C. come dimostrano i reperti epigrafici in argilla degli strati arcaici della città sumerica di Uruk. Ebbene, i primi testi non sono solo a carattere contabile e economico, come oggi si sostiene secondo una visione che per alcuni andrebbe superata, bensì anche liste di parole (liste lessicali). Si tratta della proto-scienza in quanto queste liste di parole si evolveranno in un modo sistematico di elenco di argomenti in relazione ad un tema specifico. Vale a dire che gli antichi mesopotamici connettevano tutta una serie di parole associandole ad un tema. Per questa ragione la Mesopotamia non ci ha lasciato nessun trattato di teologia, ma una delle più alte espressioni della teologia mesopotamica la abbiamo nell’elenco dei titoli del dio Marduk con il quale si conclude, o quasi, il celebre poema babilonese Enuma Elish.

Le liste lessicali sono alla base non solo della scienza intesa come sapere specifico ma anche della letteratura. I paralleli intertestuali tra le liste lessicali mesopotamiche e la letteratura sono stati studiati per la prima volta da Civil, che osserva come alcune composizioni letterarie sumeriche contengano lunghe enumerazioni di lemmi, a volte seguite da un commento o da un’espressione formulare. Enumerazioni e commento possono a loro volta essere racchiusi in una cornice narrativa o descrittiva, o costituire il corpo del testo. A questo proposito, Civil conia il termine enumeration literature per definire questa caratteristica della letteratura sumerica, e ipotizza che i cataloghi usati in composizioni come Home of the Fish o Feeding Dumuzi’s Sheep possano derivare da liste lessicali arcaiche.

Il fenomeno, che ha caratterizzato e caratterizza tuttora quasi tutte le religioni e consistente nella richiesta alla divinità di qualche cosa o della giustizia, risale alla Mesopotamia. L’insigne semitista Furlani scrisse un interessante saggio sulla richiesta alla divinità di risolvere una questione. Questo atto è comune a tutto l’Oriente antico ma non solo, a quasi ogni forma di religione. È vistoso anche nella letteratura ebraica (Salmi di lamentazione). Dio o le divinità sono per eccellenza i garanti dei diritti degli umani e delle divinità inferiori, e lo sono tuttora.

Il celebre orientalista Morris Jastrow Jr. in un famoso articolo del 1910 sulla cosmoteologia babilonese dimostrava come in Mesopotamia Šamaš fosse non il Sole ma Saturno. In alcuni presagi babilonesi si legge: enuma(il)Šamaš ina tarbas Sin izziz (o ititiz), cioè “quando Šamaš si trova nell’alone della luna”. Poiché questo fenomeno può verificarsi solo di notte, Šamaš non può ovviamente essere il sole. In alcuni testi più espliciti si dice chiaramente: (Mul) Lu-Bat Sag-Uš(7) Mul (il) Šamaš šu-u, cioè “il pianeta Saturno è Shamash”. Pertanto è dalla Mesopotamia che sorge l’idea per la quale il pianeta Saturno è associato alla potenza e alla forza, come è il simbolismo di Šamaš. Nelle tradizioni religiose successive Saturno avrà sempre questa connotazione, assai importante. Nell’esoterismo e nella magia Saturno è la forza maschile, la potenza della generazione e della creazione. Anticamente Saturno era considerato il vero Re dei Cieli. Più si va a fondo nella questione, più ci si rende conto di come il posto del Sole, in origine, fosse detenuto da Saturno, ed anzi, ci si accorge di come i successivi dèi del Sole fossero in realtà manifestazioni tarde di Saturno, a cui il Sole si era venuto a sovrapporre.

In Mesopotamia quindi all’inizio gli astri più importanti, associati a divinità, sono Šamaš e la Luna, ma al terzo posto abbiamo Giove. Il nome più caratteristico di Giove è la Stella Bianca, che si riferisce al bagliore emesso dall’astro. Il nome è sempre scritto con il sumerogramma MUL.BABBAR e la resa accadica non è nota. Questo nome venne trasmesso ai caldei, se come nota il greco Esichio i caldei chiamano con il titolo di molobobar “l’astro di Zeus”, o tou Dios astēr. Quindi in qualche maniera già dalla Mesopotamia Giove viene associato a una divinità importantissima, che per i greci sarà Zeus, il capo del pantheon ellenico. Non per nulla nella Mesopotamia Giove era associato nientemeno che al potentissimo dio Marduk, il capo di tutti gli dei. Infatti, era detto anche Stella di Marduk. L’altro nome di Giove, Neberu, “guado, passaggio, traghetto”, è sempre connesso a Marduk, come mostra Enuma Elish V 1-12.

Inoltre, dalla Mesopotamia ci giunge un mito antichissimo, che ha paralleli anche con le culture amerinde, quello del diluvio, che in Occidente viene conosciuto da noi contemporanei grazie al racconto della Bibbia, ma ha una storia ben più antica. Nella cosmologia ellenica, infatti, si parla fondamentalmente di due diluvî: uno forse più arcaico, il diluvio ogigio; e uno forse più recente, quello di Deucalione e Pirra. Platone narra, inoltre, del diluvio atlantideo, che ha dei paralleli nei racconti degli Aztechi messicani, dei Maya costaricensi e degli Incas peruviani. Anzi, le tradizioni amerinde più esplicitamente pongono un diluvio alla fine di ogni Era ciclica, il prospetto delle quali ricorda in maniera inequivocabile – a parte qualche importante variante indigena – quello delle cosmologie arcaiche del Vecchio Continente. La Mesopotamia tratta a sua volta del mito del diluvio nell’Epopea di Gilgameš; allorché l’Eroe eponimo incontra Utnapištîm, il Vegliardo che vive su un’Isola oltre l’Oceano della Morte. A condurlo colà è Uršanabi, una figura di “Nocchiero” – sul tipo di quella di Caronte – che Gilgameš ha modo di conoscere solo dopo aver lasciato alle spalle il “Giardino delle Delizie”. Utnapištîm gli riferisce la storia del Diluvio, essendo l’Eroe alla ricerca del segreto dell’Immortalità; segreto celato misteriosamente, come si capirà poi, in una “Pianta” nascosta definita “Vecchio, ringiovanisci!” e cresciuta sul “Fondo dell’Oceano”. Le peregrinazioni e gl’incontri mitici di Gilgameš si svolgono, come c’insegna il Gaster, secondo la nota formula dei racconti fiabeschi “Vecchio, più vecchio, vecchissimo”. Solitamente codesto tipo di narrazioni – ne ritroviamo di analoghe pure nelle fiabe di origine celtica del folclore nostrano – costituiscono la volgarizzazione di storie iniziatiche concernenti viaggi diretti verso svariate sedi di tipo paradisiaco (Palazzi, Isole, Monti, Giardini, etc.); espressioni in realtà di mete che hanno un valore non solo spaziale, ma anche temporale. O, per spiegarci meglio, il viaggiatore (cioè l’iniziato, cercatore del segreto dell’Immortalità) finisce sempre nel corso del suo vagabondare per arrivare al Paradiso Terrestre e, talora, a una meta oltremondana più elevata; o, persino, al Paradiso Celeste. Ragion per cui, il viaggio di costui è in verità volto a ritroso nel tempo, ogni luogo di sosta rappresentando in tal modo un particolare periodo ciclico trascorso.

Nel mondo antico in genere la città era il luogo dell’ordine, invece fuori le mura cittadine dominava il caos. Questa ideologia la si ritrova già nella Mesopotamia. Il terrapieno doveva essere, nella forma e nella forza evocativa del suo nome, un baluardo insuperabile per i nemici e nel contempo il limite monumentale tra l’ordine interno al centro urbano e il caos esterno, esaltazione delle capacità edilizie del sovrano che lo aveva eretto, segnacolo del rapporto preferenziale del re con la divinità, immagine della protezione accordata dagli dei alla città e quindi al paese. Con l’impro neoassiro del I millennio a.C. l’ideologia dell’uomo mesopotamico cambiò in quanto essa si allargò dalla città all’impero: tutto l’impero era l’ordine, mentre le terre oltre l’impero erano il caos, che il sovrano doveva “domare”.

Il semitico ha avuto le sue prime attestazioni nella Mezzaluna Fertile (Mesopotamia e zona siro-palestinese), da qui i semiti hanno prima conquistato la penisola arabica per poi dirigersi in nord-africa e alcune zone dell’Europa (Spagna, Sicilia). Infine, recentemente le lingue semitiche (grazie ai processi di islamizzazione) sono arrivate nell’Africa subsahariana e in Etiopia.

Intorno al 2600 a.C. all’interno dei documenti amministrativi che venivano emessi dalle amministrazioni dei templi delle città sumeriche di Nippur, Lagash, Uruk e altre iniziano a comparire dei nomi semitici, il che ci fa capire che oltre all’elemento sumerico era sicuramente presente da un punto di vista culturale e linguistico l’elemento semitico.

Intorno al 2350 a.C., il semita Sargon fonda la città di Accad (archeologicamente ancora senza sicura identificazione), attorno alla quale egli pone le basi di un vero e proprio impero occupando il territorio militarmente e organizzandolo amministrativamente attraverso una rete di province e di distretti amministrativi. È la prima volta nella storia che un territorio di conquista diventa un vero e proprio apparato statale.

La creazione di questo impero centralizzato corrisponde all’inizio dell’attestazione della lingua semitica che chiamiamo accadico, la lingua semitica dalla più antica testimonianza. È una lingua con una presenza molto estesa in una grande varietà di documenti (testi amministrativi, opere letterarie, testi religiosi).

Le culture che hanno inventato la scrittura sono riuscite a prevalere sulle culture che ne erano sprovviste, e dato che i semiti hanno iniziato a scrivere molto precocemente, si hanno attestazioni di millenni di dati linguistici semitici attraverso i quali si può condurre il lavoro di comparazione che sta alla base della filologia semitica.

La prima scrittura dell’umanità è il cuneiforme, adoperato per la lingua sumerica e poi per l’accadico. Kämpfer nel 1700 conia per primo il termine “cuneiforme” quando iniziano ad arrivare in Occidente i primi testi dell’antico persiano (lingua che serve per decifrare l’accadico).

Prima della formazione del cuneiforme, vengono utilizzati dei contatori per descrivere, scrivere le quantità: all’inizio i segni erano immagini relative alla quantità di prodotto. Denise Schmandt Besserat identifica questi contatori come il primo stadio di notazione, una sorta di scrittura 3D, trovati in una cretula, che successivamente da una forma a sfera diventeranno più simili a delle buste. L’eliminazione dei contrassegni arriva quando si capisce che è sufficiente contare i segni e non vederli “fisicamente”. L’evoluzione porta a sintetizzare l’immagine ad una sequenza di segni.

Non capiamo bene la struttura grammaticale e quale fosse la lingua di chi utilizzava questi primi pittogrammi: da un lato abbiamo la libertà di fonetica e sintassi, carattere transnazionale di questa scrittura. La questione delle buste continua anche in epoca futura, accade anche con i papiri (nella parte visibile arrotolata abbiamo un piccolo riassunto del contenuto del documento prima di rompere i sigilli).

Solo in seguito questi primi pittogrammi si evolveranno in un sistema di scrittura vero e proprio, il cuneiforme. Il sumerico è una lingua monosillabica, non semitica, agglutinante. La decifrazione del sumerico arriva grazie alla scoperta dei testi bilingui risalenti al VII sec. a. C. Una lingua agglutinante si comporta in questa maniera: dumu (figlio) – dumu.mesh (figli, dove mesh = plurale, un nuovo morfema) – dumu.mesh.a.ni (i suoi figli). Quindi una sequenza agglutinante si caratterizza per l’aggiunta di morfemi su morfemi.

Intorno al 2150 a.C. l’impero accadico collassa a causa dell’arrivo di popolazioni orientali che non parlano una lingua semitica. Nel 1950 a.C. si afferma una nuova dinastia semitica: la dinastia di Babilonia il cui capostipite è Hammurabi (o Hammurrapi).

Hammurabi non è un accadico e ciò lo si può già capire dal nome: “hammu” è il nome di un dio + “rpy” verbo trilittero che significa sanare, curare. Egli è un semitico di Occidente, ovvero un “amorreo”. È stato il primo a lasciare, oltre alle fonti riguardanti le sue imprese in accadico, un codice. Le leggi del codice di Hammurabi e tutti gli altri testi sono scritti con la scrittura cuneiforme, nata per mettere per iscritto la lingua sumerica, quindi adottata ai tempi di Sargon dopo aver sconfitto i sumeri. Da tenere a mente che, come abbiamo detto, il sumerico non è una lingua semitica e quindi adattare una scrittura non semitica ad una lingua semitica non è stato semplice.

Il regno di Hammurabi dopo la sua disfatta viene diviso in due grandi entità: una settentrionale definita assira che comincerà a ruotare sempre più attorno alla città di Assur ed altre, e la parte meridionale che conserverà il nome di Babilonia.

Intanto la primigenia lingua accadica comincerà sempre più a prendere caratteristiche diverse a seconda della sua collocazione geografica: babilonese e assiro (entrambe divise in antico, medio e nuovo). Esse sono la conseguenza dell’elemento amorreo che ha causato trasformazioni morfo-sintattiche. Hammurabi scriveva in antico babilonese.

Con lo sviluppo dei due imperi (assiro e babilonese) la lingua babilonese diventerà una lingua prestigiosa e internazionale, tanto che le corrispondenze tra i vari popoli saranno scritte in babilonese.

L’area di influenza di Ebla (a nord della Siria) è stata lentamente conquistata dall’impero accadico fino a risucchiare anche la città. Paolo Matthiae si recò ad Ebla nel 1964 e si imbatte nella parte di palazzo reale dove l’amministrazione del regno di Ebla conservava le tavolette scritte in caratteri cuneiformi in una lingua (per alcuni, ma non per tutti, indipendente dall’accadico e dal sumero) chiamata eblaita.

L’eblaita è caratterizzato da un grande numero di segni sumerici con significato sumerico. Gli scribi di corte dovevano sapere il sumerico, l’accadico e l’eblaita.

Quando è stato dato fuoco al palazzo di Ebla (dopo la conquista accadica, non si sa se da parte di Sargon o di Naram-Sin), bruciando gli scaffali di legno che facevano da supporto per le tavolette, la fiamma salva dalla distruzione le tavolette di argilla cuocendole permettendo così la loro conservazione fino a oggi.

Gli accadi hanno impedito che l’eblaita continuasse ad essere scritto in modo che nel giro di pochi decenni la lingua smise di essere scritta e di conseguenza parlata.

Gli archivi di Ebla corrispondono a una copertura di 40 anni con tantissime tavolette complete (circa 2000 tavolette complete e quasi 6000 frammenti di grandi tavolette). L’80% del materiale corrisponde a documenti amministrativi, il resto sono testi letterari e liste lessicali. Abbiamo trovato anche 28 lettere.

Per quanto riguarda l’elemento semitico non accadico, cioè quello amorreo, il nome deriva da: MAR.TU (sumerico) – amurru (accadico), che significa Occidente. L’Occidente per sumeri e accadi è il deserto siriano e la Palestina. Hammurabi è un semitico amorreo (occidentale) accadizzato.

La documentazione amorrea è evanescente: non esiste un testo completamente e totalmente in amorreo. Esistono solo nomi, frasi verbali e nominali, manifestazioni indirette in scrittura cuneiforme e geroglifico egiziano, ma si tratta tutte di testimonianze irrisorie.

Inoltre, l’amorreo è una lingua non scritta la quale viene immessa in un sistema in cui si utilizza l’accadico anche come forma scritta. Quindi Hammurabi avrebbe avuto un problema nell’inserire una lingua non scritta in un modello affermato da una grande tradizione scritta. L’amorreo, però, influenza e condiziona l’accadico anche perché entrambe sono lingue semitiche.

Non dobbiamo quindi dimenticare la Siria, la quale, nonostante il generale disinteresse degli uomini di cultura attuali, era una terra che nella geopolitica del passato rappresentava un crocevia molto importante, addirittura essenziale per certe civiltà che per questo la volevano sottomettere. Quindi in Siria si sono giocati per millenni i destini dell’umanità. Per questo Parrot, scopritore di Mari, diceva che “ogni uomo di cultura ha due patrie: la propria e la Siria”. A ogni uomo di cultura dovrebbero dire almeno qualcosa nomi come: Ugarit, Mari, gli scavi di Hama, le ricerche di Alalakh, le ricerche nel triangolo del Khabur, Palmira, la già citata Ebla, la battaglia di Kadesh, il tempio di Aleppo, la scoperta della capitale dei Mitanni, e così via.

La Siria costruì un dialogo antico e duraturo con Egitto, Anatolia, Levante, Mesopotamia, Iran, per non parlare di culture più recenti anche se non meno importanti, come quella greca, quella romana, poi quella musulmana e ancora oggi la Siria riveste una straordinaria importanza non solo strategica, come nel passato, ma anche economica, in Siria infatti vi è la maggior parte del petrolio presente sul pianeta.

Già al X secolo a.C. si portarono avanti imprese commerciali che collocavano il Levante in una dimensione mediterranea: la Bibbia parla di Hiram di Tiro e Salomone di Gerusalemme i quali erano a capo di imprese navali e commerciali congiunte nel paese di Ofir, e con i navigli di Tarshish (Tarso in Cilicia o Tartesso in Spagna). Nel VIII secolo a.C. gli Assiri conquistarono buona parte del Levante: Damasco cade nel 733 a.C., Sidone, Sarepta e Acco sono oggetto delle campagne di Sennacherib nel 701, che porta anche all’assedio di Lachish, in Giudea. Si affermò quindi una koiné culturale assira e levantina la quale si impose mutualmente anche nel Mediterraneo a noi più prossimo. Le coppe in metallo prezioso, riccamente istoriate con elementi iconografici di ascendenza siriana, fenicia e assira, si ritrovano in ambito tirrenico, insieme ad altri oggetti di prestigio, come nel caso di Praeneste. L’orientalizzazione, in area tirrenica, è un fenomeno culturale di straordinaria portata.

Bisogna altresì riflettere sul fatto che Grecia/Roma, Palestina, Mecca di Maometto (e non solo, come abbiamo brevemente accennato) sono luoghi veicolo di orizzonti di senso radicati nel passato, non sono moderni. Allora cosa è la modernità se si basa su di essi?

Con il termine modernità si fa riferimento a una tradizione discorsiva emersa nell’Europa post-medioevale successivamente affermatosi, in tempi e modalità differenti, nel resto del globo. Come categoria storica, la modernità fa riferimento a un periodo caratterizzato da:

  • Critica e persino rigetto della tradizione;
  • Affermazione dell’individualismo, della libertà personale e dell’uguaglianza formale tra individui;
  • Fiducia o fede nel progresso sociale, scientifico e tecnologico;
  • Razionalismo e materialismo sul piano filosofico;
  • Industrializzazione, urbanizzazione, secolarizzazione della sfera pubblica;
  • Sviluppo dello Stato-nazione e delle sue istituzioni peculiari (democrazia, welfare, sorveglianza, securizzazione, burocrazia moderna).

Pertanto la modernità, che dapprima fu europea e poi si rivolse a tutto il mondo, è molto differente dal contesto storico e culturale che caratterizzava Grecia, Roma, Palestina, Mecca. Purtuttavia da quel lontano passato sono sorti i semi della modernità.

L’Europa post-medioevale ha esteso il concetto di modernità a tutto il mondo mediante operazioni coloniali giustificate dalla narrazione retorica basata su ciò che Kipling chiamava “il fardello dell’uomo bianco”: il moderno europeo ha l’obbligo di estendere la civilizzazione agli indigeni non civilizzati. Storicamente si fissa la nascita della modernità nel 1492, quando venne scoperta l’America, che per gli indigeni americani significò la conquista coloniale. In quello stesso anno vi fu la riconquista europea della Andalusia musulmana, che ha portato con sé grandi disastri. Invece per il mondo arabo l’inizio della modernità si fa risalire al 1798, quando Napoleone conquistò l’Impero Ottomano. Fu uno shock terribile in quanto un impero europeo non conquistava una civiltà musulmana dai tempi delle crociate, fatta eccezione per l’Andalusia.

Il senso del divino espresso dall’ebraismo è terribile. Per l’Antico Testamento Dio è Santo, in ebraico Qadosh, cioè Separato dal mondo delle sue creature. Dio è talmente altro che punisce in maniera molto crudele gli uomini per via dei loro peccati. Le Lamentazioni sono dei brevi poemi scritti dall’agiografo per cantare la distruzione di Gerusalemme operata da Dio a causa della infedeltà di Israele all’alleanza. In 2, 22 è scritto: “Come per un giorno di festa hai convocato i terrori che mi circondano. E non c’è stato nel giorno di ira di Dio né fuggiasco né superstite. (I figli) che ho tirato su con tenerezza e ho fatto crescere, li ha finiti il mio nemico”. Il testo masoretico ha la forma al singolare “il mio nemico”, invece la versione siriaca e il Targum ha il plurale. Il singolare identifica Dio con il nemico, invece il plurale rimanda ai nemici in generale, senza alcun riferimento al Signore. Quest’ultimo stico del poema attira l’attenzione per la sua sintassi: compare il verbo ebraico kalà, “finire”, “portare a compimento” in posizione finale, che è insolita. Evidentemente l’autore biblico vuole porre in evidenza che il Nemico finisce i figli di Israele. Inoltre Dio non è chiamato con il suo nome ma con l’espressione “il mio nemico”, appellativo che da solo ha più forza di mille parole.

L’ebraismo comunica anche alla modernità un senso del divino intriso certamente di benevolenza, ma anche di paura per i castighi di Dio. Il Nuovo Testamento pone l’accento sul primo polo, quello dell’amore di Dio per il suo popolo, ma non esclusivamente. Infatti nell’Ultima Cena Cristo si offre volontariamente alla passione e alla morte per il perdono dei peccati su comando del Padre. La prima Alleanza del Sinai si basava su sacrifici animali, ora con la Nuova Alleanza l’Agnello Immolato altro non è che Dio Figlio. Kuhn pone in rilievo come l’Ultima Cena di Gesù abbia qualche somiglianza con il pasto in comune che gli esseni facevano ogni giorno. Secondo questo studioso il racconto di Marco e Matteo, facendo immediatamente seguire il vino dopo il pane, rispecchia un uso pre-cristiano, quello cioè del banchetto cultuale esseno. Invece Paolo e Luca non comprendevano più la singolarità dell’antica formula di Marco, per cui si rifecero alla normale usanza giudaica e inserirono il banchetto tra il pane e il vino. In ogni modo, Gesù identifica sé stesso con il pane e il vino: pane spezzato e vino versato sono la morte del Cristo, il quale compie questo supremo sacrificio per salvare l’umanità dal peccato. Giovanni 1, 29: “Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo”, in greco ide o amnos tou theou o airōn tēn amartian tou kosmus, che Girolamo traduce Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccatum mundi. In realtà il verbo greco, aireō, significherebbe “assumere”. Quindi Cristo è colui “che ha assunto” su di sé il peccato, quale novello agnello sacrificale (in questa maniera lo ha tolto dal mondo, espiandolo in prima persona).

L’Islam elabora un concetto di amore e giustizia divina simile a quelle dell’ebraismo e del cristianesimo. Ogni sura del Corano, tranne la IX, inizia con la basmala: “Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso”. La parola Allah in arabo non indica il nome proprio di un dio, come può essere Giove o Nettuno, ma indica in genere Dio, essendo formata dall’articolo al (“il”) + la radice semitica della divinità (la, in ebraico el), quindi vuol dire Iddio. Il Dio dell’islam punisce i peccati ma così facendo “non fa ingiustizia a nessun essere“, nell’originale arabo walā yazlimu rabbuka aḥadan (18, 49). Corano 40, 31: “Dio non intende far torto ai suoi servi”, wamā l-lahu yurīdu zul’man lil’ibādi.

In tutta la tradizione ebraica Dio è misericordioso, ha cioè pietà delle miserie dei poveri esseri umani. Questo aspetto di Dio, assieme alla giustizia, rappresentata nel pensiero ebraico da Samael, un angelo distruttore che esegue gli ordini di Dio, giunge al cristianesimo e poi all’Islam. Nel Talmud, un testo normativo della tradizione ebraica, è scritto: “Persino Dio prega”. Per quanto possa sembrare strano, Dio prega. A chi? A sé stesso. E perché? Prega che la sua misericordia vinca sulla sua ira e quindi possa trattare i suoi figli secondo l’attributo della misericordia. A Suon Faustina Kowalska Dio rivelò che la misericordia è l’attributo più grande di Dio.

Il Dio cristiano non è solo giustizia né solo misericordia. In realtà misericordia e giustizia non sono per nulla contrapposte in Dio. Nella fede cristiana non vi è contraddizione tra gli attributi divini. Al contrario, per esempio, dello stoicismo greco, per il quale il bene e il male sono due principi opposti in natura. Per lo stoico Crisippo, “il bene è tale non per convenzione, ma per natura; infatti, in caso contrario, anche gli uomini felici dovrebbero essere felici per convenzione; ma nulla vi è di più assurdo. Piuttosto, dato che il bene e il male sono giudicati sulla base della natura, ed anzi sono essi stessi principi di natura, allora anche gli atti morali e quelli immorali andranno giudicati con lo stesso metodo, cioè riconducendoli alla natura” (fr. C.e 312 von Arnim). Pensiamo anche al manicheismo, che vedeva contrapposti in senso assoluto il Bene e il Male.

Il grande filosofo medioplatonico Massimo di Tiro (Dissertazione 21) poneva una distinzione tra l’amore della bellezza e il desiderio del piacere. Si ama solamente ciò che ha l’essenza di Bene, che quindi come voleva anche Platone è bello, invece si può desiderare anche ciò che non è naturalmente, strutturalmente il Bene, e che quindi non è nemmeno bello, ma ne ha solo la falsa apparenza. Massimo di Tiro fa l’esempio di chi “ama” la guerra: la guerra in sé non è bella, ne ha solo l’apparenza per chi la desidera. Egli fa anche l’esempio del nutrimento. I greci mangiano in un modo e ne traggono nutrimento e piacere, i persiani mangiano in un altro modo e ne traggono nutrimento e piacere, ma se scambiassimo le tavole (i greci che mangiano alla maniera dei persiani, i persiani che mangiano alla maniera dei greci), il nutrimento ci sarebbe sempre, ma cambierebbe il piacere. Quindi “il nutrimento si dà secondo l’essenza, katà tēn ousian, di ciò che è capace di nutrire, mentre il piacere secondo l’affezione, katà to pathos, di chi è abituato a goderne”.

Pertanto con il platonismo (Platone e i medioplatonici) stiamo già sulla strada dell’unità essenziale di tutte le cose: l’amore è partecipe dell’Unico Bene, quindi è caratteristica dell’Essere, che i cristiani identificheranno con Dio. La filosofia scolastica dirà che Ens et Bonum et Verum et Pulchrum et Iustum convertuntur, “Essere, Bene, Vero, Bello e Giusto coincidono”. Quindi Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae I, q21, a3) potrà dire che “la misericordia va attribuita a Dio in modo principalissimo, misericordia est Deo maxime attribuenda: non per quanto ha di sentimento o passione, ma per gli effetti che produce”. L’Ordine del Santissimo Redentore, fondato da Maria Celeste del Santissimo Salvatore, veste un abito rosso scuro: rosso è il colore del cuore e dell’amore, quindi queste suore vogliono essere il riflesso visibile dell’amore e della misericordia di Dio. Sempre per questo motivo, il motto delle Ancelle e dei Figli dell’Amore Misericordioso, fondati da Madre Speranza di Gesù, è: Tutto per amore.

Per il cristianesimo misericordia è giustizia e giustizia è misericordia, come diceva Ambrogio di Milano. Anzi Tommaso d’Aquino sosteneva che la misericordia è come se fosse il coronamento della giustizia. Per il grande teologo (Summa Theologiae I, q21, a4) “ogni opera della divina giustizia, poi, presuppone sempre l‘opera della misericordia e in essa si fonda, opus autem divinae iustitiae semper praesupponit opus misericordiae, et in eo fundatur”.

Quando Dio rivela la sua giustizia, questa non è mai in contrapposizione con la misericordia. Lo stesso inferno, forma estrema della giustizia di Dio, è manifestazione della sua misericordia: Dio ama talmente tanto l’uomo che lo vuole lasciare libero fino alla opposizione estrema a Lui. All’inferno ci va solo chi ci vuole andare, come dice la Regina della Pace.

Deuteronomio 4, 31: “Il Signore è un Dio misericordioso”. Nell’originale ebraico vi è l’espressione ‘El raḥum, letteralmente Dio misericordioso. L’aggettivo ebraico “misericordioso”, raḥum, deriva dal sostantivo ebraico raḥamim, un plurale ebraico che significa sì “misericordia” ma letteralmente vuol dire “viscere materne”. Invece il termine ebraico ḥesed indica l’aspetto paterno dell’amore di Dio, il suo amore misericordioso e fedele.

Salmo 25: “Ricordati, Signore, del tuo amore (raḥamim), della tua fedeltà (ḥesed) che è da sempre”.

Il termine ḥesed forse ha la radice in comune con l’arabo ḥašada, “riunirsi per reciproco aiuto”. Raḥamim deriva dal singolare reḥem, che significa “utero”. Quindi la parola raḥamim è legata all’aspetto materno dell’amore. La misericordia di Dio non è come aggiustare un vaso rotto, ma essere rigenerati dall’amore di Dio, ma anche essere “curati” e “accuditi” come un bimbo in braccio a sua madre.

Notiamo che la radice araba più frequente nel Corano è RḤM, che ricorre nel libro sacro dell’Islam 600 volte. Nel Corano Dio è definito il più misericordioso dei misericordiosi, superlativo semitico che indica la sua immensa misericordia. In 6, 148 è scritto: “Il vostro Signore possiede immensa misericordia”. In 7, 156 abbiamo questa espressione: “La misericordia (di Dio) circonda tutte le cose”, waraḥmatī wasi’at kulla shayin.

Queste radici, ebraica e araba, derivano da una radice semitica comune. Nella lingua semitica di più antica attestazione, l’accadico, il sostantivo remu significa “misericordia” e “utero”. In ugaritico rḥmj compare come titolo o nome alternativo della dea Anat, cioè Misericordiosa. Nell’aramaico d’impero l’espressione brḥmh significa “per amore”, cioè gratis, come dono. In nabateo e in palmireno il sostantivo rḥm(‘) significa “affetto, propensione”.

Sono molte le pagine dell’Antico Testamento nelle quali compare l’amore di Dio e la sua misericordia verso Israele, considerato come un figlio, per cui Dio si rammarica per la infedeltà del suo popolo. Osea 11: “Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Seboim? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione”. Geremia 31: “Ti ho amato di amore eterno”. Salmo 51: “Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia. Secondo la grandezza delle tue vie viscere cancella il mio peccato”.

Nel Nuovo Testamento questo amore viscerale di Dio trova espressione in Gesù Cristo, il Dio fatto uomo, che per amore dell’uomo offre la propria vita. Nel greco neotestamentario vi è un verbo molto difficile da tradurre: splanchizesthai, che viene tradotto di solito con “avere compassione”, ma che deriva da ta splanchna, che significa “viscere”, parola che la traduzione della Settanta impiega per tradurre l’ebraico raḥamim. Nel Nuovo Testamento il verbo greco ha spesso Gesù come soggetto. Tutto quello che Cristo compie è una rivelazione di Dio. Egli vede le folle affamate e “ha compassione” di loro e quindi usa misericordia, come una tenera madre, cioè come il Dio dell’Antico Testamento. Cristo “ha compassione” anche di malati e sofferenti. Luca 1, 78-79 si traduce di solito “grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace”. Ma in greco abbiamo dià splanchna eleous theou, letteralmente “grazie alle viscere di misericordia di Dio”. Cristo è la manifestazione della misericordia di YHWH, il Dio degli ebrei, il quale porta nel mondo Shalom, la Pace Messianica, la nuova era dell’amore universale.

La misericordia di Dio è l’abisso della sua natura purissima. Efesini 3, 17-19: “Che il Cristo abiti nei vostri cuori per mezzo della fede, affinché, radicati e fondati nell’amore, riusciate ad afferrare con tutti i santi la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, to platos kai mēkos kai upsos kai bathos, a conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, e così vi riempiate di tutta la pienezza di Dio, ina plērōthēte eis pan plērōma tou theou”.

Il Dio dei monoteismi (ebraismo, cristianesimo, Islam) ama ma anche punisce i peccati in quanto è una grande coscienza personale, non è qualche cosa di impersonale come il numinoso degli antichi romani. È un concetto affine alla Coscienza della quale parlano gli induisti.

Per una certa visione induista, infatti, il Brahman, che coincide con l’Atman, cioè la vera Realtà, non è né nulla né corpo, non è né intelletto né anima, ma è coscienza. Ci riferiamo agli aforismi di Śiva che Vasugupta trovò incisi dal dio su una roccia del monte Mahadeva. Il primo di questi aforismi recita in sanscrito: caitanyam ātmā.

Questa espressione si può tradurre in vari modi, tra cui “il sé è coscienza”. Caitanya è l’astratto di cetana, “cosciente” (da cetayate, “percepire”, “conoscere”), cioè libero soggetto di una attività conoscitiva illimitata. Coscienza qui ha il significato di relazione con l’illimitata attività cognitiva. Infatti l’astratto di una parola (uso frequentissimo in sanscrito) come qui cetana, composta da un elemento radicale (cit = cet per apofonia) e da un suffisso nominale primario (ana), denota una relazione (saṃbandha). La relazione rimanda a due elementi, il soggetto della relazione e la cosa relata (saṃbhandin, saṃbaddha). Quindi la parola caitanya rimanda nel contempo all’attività del conoscere e a colui che nei confronti di tale attività si pone come il libero soggetto agente.

Cosa è la coscienza? La parola sanscrita cetana deriva da citta, che vuol dire mente. Nella filosofia dello Yoga il citta è unitario e onnipervadente (vibhu). Invece nella filosofia del Saṃkhya è tripartito: intelletto (buddhi), senso dell’io (ahaṃkāra), senso interno (manas). Tuttavia già quest’ultima scuola chiama con il termine mahat, “grande” l’unione tra le tre parti della mente e si tratta di un termine (mahat) del tutto analogo a citta impiegato nello Yoga. Per queste due cuole filosofiche il citta va abbandonato per far emergere il lato spirituale della persona, detto puruṣa. Secondo la filosofia Śakta il citta sarà da considerare come aspetto del puruṣa (spirito) se vi prevale l’elemento cosciente (citi), oppure della prakṛti (materia) se vi prevale l’elemento inconscio (avyakta): fluttua continuamente tra i due tattva senza mai trovare una sede fissa.

Nel senso degli aforismi di Śiva la coscienza è la mente assoluta, vale a dire quella capacità di pura libertà che permette il continuo atto conoscitivo relativo a tutta la realtà. È attività della mente: “mente” nel senso più alto del termine.

Invece per il Saṃkhya e lo Yoga lo spirito (puruṣa) deve smettere di identificarsi con il citta, il quale dovrà essere riassorbito dalla materia dalla quale proviene. Per far questo lo Yoga ricorre alla meditazione.

Questa meditazione ha alcuni punti in comune con quella del buddhismo (detta vipassana), ma ci sono anche delle differenze. Nella filosofia indiana ci sono molti metodi di meditazione, ma tutti sono accomunati da una idea di fondo: il praticante, mediante la pratica meditativa, deve togliere l’identificazione con gli elementi che gli pare lo costituiscano, come per l’appunto il citta. Quindi molte volte viene fatta l’immagine di un cerchio che deve sempre più assorbirsi nel centro perdendo la identificazione con pensiero e emozioni, facendo cioè un passo indietro fino all’atman. Allora il processo stesso è un processo di perdita dagli elementi con i quali il praticante è identificato. Invece nel buddhismo lo scopo è sempre la disidentificazione ma il processo non è di abbandono ma di conoscenza immersiva, cioè il praticante, nella pratica meditativa, non si allontana dagli elementi che lo costituiscono. Le sensazioni per esempio non vanno abbandonate ma vanno invece abitate. Sembra un paradosso, ma abitando profondamente le sensazioni il praticante viene in contatto reale con le caratteristiche delle sensazioni, che sono quelle di ogni aspetto della realtà, vale a dire aniccia (impermanenza), anatta (non sé) e dukkha (sofferenza). Una volta scoperta l’essenza delle sensazioni esse possono essere abbandonate e avviene la liberazione.

Inoltre, dall’Oriente ci arriva, nello specifico dal cristianesimo primitivo, una lezione di grande modernità. Parliamo di coloro che Cristo scelse per farsi assistere. Fin dall’inizio Gesù non ha scelto singoli, ma una comunità, formata da uomini e donne. Quando stava salendo a Gerusalemme, lo seguivano anche alcune donne di questa sua comunità. Matteo 27 dice che, quando avvenne la crocifissione di Cristo, vi erano molte donne che lo avevano seguito dalla Galilea, a nord della Palestina. E alle donne Gesù riserva il primo annuncio della risurrezione, tra esse per prima Maria di Magdala.

Magdala era una città della Palestina. Nel 2006 i Legionari di Cristo hanno acquistato il terreno a nord della proprietà dei francescani per costruirvi un centro di accoglienza per i pellegrini. Nel 2009 sono cominciati gli scavi per costruire le fondamenta della casa, ma con grande sorpresa è stata scoperta una sinagoga del I secolo.

Magdala, dall’ebraico migdal, “torre”, era una città importantissima, di cui Maria era originaria, in quanto era la città più grande sul lago di Galilea, prima che Erode Antipa trasferisse la capitale della Galilea da Sefforis (che stava vicino Nazaret) a Tiberiade, che allora si iniziò a costruire. Quindi prima di Tiberiade era la più grande città attorno al lago di Galilea. Dagli scavi emerge che era molto bella, greco-ellenistica nel suo stile, ma parte della popolazione era ebrea e osservante della Legge (sono stati ritrovati due bagni di purificazione per gli ebrei, segno che la popolazione compiva i riti prescritti). Due rabbini infatti furono originari di questa città, secondo la tradizione talmudica. Da altre fonti antiche la città era conosciuta come Migdal Nunya, “la torre del pesce”, oppure Migdal Sebayah, “la torre dei tintori”, in quanto vi erano anche delle tintorie. Negli scrittori greci era detta Tarichea, dal greco “peschi salati”, per la lavorazione del pesce sotto sale che, così conservato, veniva esportato. Pertanto all’epoca di Gesù era una città ricca per l’attività di tintoria e di esportazione del pesce.

Gli scavi che sono stati fatti soprattutto in questi ultimi anni hanno mostrato che il primo insediamento risale all’epoca asmonea, II-I secolo a.C. Sappiamo che nel 52 a.C. fu conquistata dai romani, essa infatti si trovava in una posizione strategica, cioè lungo la via Maris: una sua diramazione passava a nord del lago di Galilea per andare a Damasco, quindi verso rotte commerciali rilevantissime. Magdala aveva buone comunicazioni anche con il resto della Galilea, vi è una valle, detta delle Colombe, che è un passaggio naturale che collegava Sefforis a Magdala.

Gesù dovette attraversare la città di Magdala diverse volte. Quando per esempio si recò a Cafarnao dopo il miracolo di Cana. Il Vangelo di Giovanni (2, 12) usa il verbo greco katebē, “discese”: “Dopo questo fatto, discese a Cafarnao lui, sua madre, i fratelli e i discepoli, e rimasero là non molti giorni”. Si tratta della strada della Valle delle Colombe che è in discesa fino al lago, che infatti è sotto il livello del mare.

Giuseppe Flavio, uno storico contemporaneo di Cristo, comandante militare in Galilea, ha un racconto di grande rilevanza riguardo la città di Magdala. All’epoca della prima guerra giudaica, 60-70 d.C., Giuseppe Flavio stesso fortificò Magdala e riferisce che la città era grande, infatti possedeva un ippodromo, un porto, una flotta di 230 barche sul lago, contava 40.000 abitanti.

Magdala si ribellò ai romani su istigazione di un certo Gesù di Safat, capo di una banda di zeloti, che erano terroristi anti-romani. La Palestina infatti era sotto la dominazione romana e questo non veniva accettato da alcune fazioni di ebrei. Il generale che a quel tempo stava conquistando la Terra Santa era Vespasiano, il quale non era di stirpe imperiale, ma che poi sarebbe stato acclamato imperatore proprio grazie alle campagne di Palestina. Allora Vespasiano avanzò verso Magdala e fece irruzione nei dintorni. Prima che i romani arrivassero in città, i ribelli tesero loro una imboscata lungo una strada, ma non ebbero la meglio, quindi i ribelli si rifugiarono sulle barche per andare al largo. Vespasiano penetrò a Magdala e fece una grande strage, poi costruì delle zattere per raggiungere i fuggitivi. Giuseppe Flavio disse che quando Vespasiano li raggiunse il lago si tinse di rosso per il sangue versato. Gli abitanti della città vennero in parte giustiziati (anche bambini, anziani e inabili), mentre gli altri furono venduti come schiavi. Addirittura un midrash al libro delle Lamentazioni disse che la disfatta di Magdala avvenne a causa della sua prostituzione: Dio punì severamente gli abitanti per via dei loro peccati contro la Legge.

Poi Magdala venne ricostruita, anche solo in parte. La sinagoga scoperta nel 2009 è una delle più antiche mai rinvenute, costruita secondo gli archeologi nel I secolo. Quindi Gesù vi entrò e vi predicò: “Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo” (Matteo 4, 23). Ha una pianta quadrangolare, un’area di 120 metri quadrati, quindi non è grandissima. Stranamente non è orientata verso Gerusalemme, i sedili sono di pietra in continuità con le mura, del mosaico del pavimento abbiamo solo alcuni resti, le pareti sono affrescate, ancora oggi si possono vedere. Dentro è stata scoperta una pietra scolpita detta Pietra di Magdala, non si sa bene a cosa servisse, stava al centro dell’edificio, probabilmente era un leggio (una pietra simile è stata scoperta dentro un’altra sinagoga).

Sulla pietra sono scolpiti alcuni simboli assai importanti: la più antica raffigurazione del candelabro del Tempio, la menorah; al centro c’è una rosa con 12 petali; sul lato posteriore c’è un carro di fiamme. È un simbolismo attinente al Tempio di Gerusalemme: oltre alla menorah, anche la rosa a 12 petali potrebbe alludere al Tempio (le tribù di Israele riunite nel Tempio), così come il carro di fuoco. Questo significa probabilmente che le sinagoghe non erano solo luoghi nei quali era letta la Legge, ma erano visti come siti sacri, in connessione o estensione al Tempio. La strada che costeggia questa sinagoga è stata trovata sbarrata con delle colonne, forse erano state ivi fissate per la resistenza contro la invasione di Vespasiano alla città.

Maria di Magdala è la prima testimone della risurrezione, colei che la annunciò agli apostoli. Il kerygma cristiano comincia da una donna. Sappiamo che da lei uscirono sette demoni: nella Bibbia il 7 è un simbolo che indica la pienezza, quindi il vangelo vuole dirci che era una grande peccatrice o che Satana la perseguitava particolarmente. Solo nel VI secolo Gregorio Magno la identificò con la peccatrice che unse i piedi di Cristo, ma il vangelo non dice che era una prostituta.

Luca 8, 1-3: “In seguito Gesù se ne andava per le città e i villaggi predicando e annunciando la buona novella del regno di Dio. Vi erano con lui i Dodici e anche alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni”. Come abbiamo già detto, Cristo chiamò attorno a sé come primizia della chiesa nascente una comunità di uomini e di donne.

Osserviamo che per la cultura ebraica la donna era di rango inferiore e quindi non poteva diventare discepola. Gesù rivoluziona sia scegliendo alcune donne che assistevano gli apostoli sia scegliendo una donna, Maria di Magdala, la quale era colpita enormemente dal Maligno, come abbiamo già detto, cioè impura, anche se non sappiamo perché aveva dentro sette demoni. Non solo ma questa donna proveniva di una città di prostituzione, e forse era una prostituta anch’essa. Gesù si comporta come il Dio dell’Antico Testamento, che scelse Giacobbe che era il piccolo tra i piccoli per riservargli un posto straordinario nella storia della salvezza. Gesù sceglie una donna posseduta per farsi assistere e, dopo la morte, annunciare al mondo intero il fulcro del cristianesimo, cioè la risurrezione, senza la quale la nostra fede sarebbe vana, come dice Paolo. È certamente un atteggiamento moderno non escludere i diversi ma integrarli nella società. Come avviene oggi nelle culture moderne: in esse i disabili lavorano e gli altri svantaggiati non vengono ghettizzati ma inseriti nella società. Gesù rompe tutti gli schemi di allora e si comporta in una maniera ineffabile contro il debole e contro l’indifeso.

Osserviamo altresì anche questa modernità nell’atteggiamento di Cristo: il mondo moderno considera le donne alla pari degli uomini. Molti studi hanno evidenziato come il cristianesimo ha portato nei secoli alla rivalutazione della figura femminile, cosa che avrebbe avuto il suo apice nella modernità. Cristo non si comporta come un maestro ebreo, ma pressoché a tutti gli effetti come un uomo moderno.

In questo senso la lezione sul sacro che ci proviene dal cristianesimo primitivo non è di classismo, infatti Gesù scelse anche poveri pescatori ignoranti per proclamare i segreti del Regno. Egli confonde i superbi e innalza gli umili. Il sacro non è fine a sé stesso ma è a servizio dell’uomo. Gesù stesso dice che l’uomo non è per il Sabato ma è il Sabato che è per l’uomo, quindi cambia il formalismo della Legge giudaica. Non sembra, questo, il sacro della modernità? Papa Francesco non sta sulla stessa linea di Cristo? La grande lezione sul sacro della modernità è una lezione di fratellanza universale e di amore reciproco, in ossequio al comandamento nuovo di Cristo (Giovanni 13, 34): “Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate reciprocamente. Come io vi ho amato, così dovete amarvi reciprocamente”.

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Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 45 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.

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