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LE CONSEGUENZE PSICOSOCIALI DELLA GLOBALIZZAZIONE

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Il valore del vuoto e l’assenza di norme

Redazione-E’ importante soffermarci sull’importante effetto che i percorsi formativi hanno sull’impianto sistemico e sul fatto che (in modo circolare e – per usare un parolone – “autopoietico”) lo stesso determini i primi. Ciò si produce perché ogni sistema sociale si da dei modi di funzionamento ed ogni cittadino costituisce un ingranaggio fondamentale volto alla riproduzione continua e costante del modello produttivo, culturale e politico. Niklas Luhmann sosteneva che una società si riproduce nella misura in cui è in grado non solo di riprodurre i ruoli sociali al suo interno (come sosteneva Pareto), ma anche e soprattutto il loro “senso”. Quest’ultimo è inteso dal grande sociologo come “riduzione e mantenimento della complessità”. La letteratura socioterapeutica (prima o poi in futuro parleremo di cosa sia la socioterapia), ritiene che il disagio sia una “malformazione del senso”. A parere di chi scrive questo concetto va interpretato come la difficoltà a mantenere o a ridurre tale senso che quindi impedisce di fatto la riproduzione del significato dei ruoli sociali. Sempre secondo la letteratura socioterapeutica, il disagio si presenta come una novità inaspettata davanti alla quale si è impreparati. Davanti alla impossibilità di decodificare correttamente tali novità, il senso si deforma e il disagio non si presenta più come una patologia esterna ma come un aspetto fondante la personalità che possiamo definire “attrezzatura” dalla quale emerge il nostro carattere che influisce poi sul nostro comportamento.

Del resto l’estrema mutabilità dei ruoli sociali favorisce la malformazione del senso e il fatto che in dieci anni si possano occupare quaranta ruoli diversi e opposti, ci mette davanti alla necessità di pensare che probabilmente il sistema attuale per riprodursi oggi abbia bisogno di estirpare tale senso nei confronti di qualunque posizione la persona occupi sui vari gradini della stratificazione sociale. Per cui non occorre più dare una spiegazione, un senso, un valore a ciò che si compie nella quotidianità e nella propria esistenza. Tutto è intercambiabile, in primis gli individui.

Ora se questa mutabilità trasversale e violenta della precarietà globale depriva l’uomo del suo significato (che non può che rinvenire in ciò che fa in virtù di ciò che è), è più che evidente che il tratto caratteristico di tale uomo globale sia il suo disagio la cui più feroce manifestazione è nel suo monadismo, nella sua autoreferenziale biografia, nel silenzio del suo percorso nel mondo, nell’amore e nella sua voglia di comunità che non riesce a ricevere e che soprattutto non riesce a dare data la sua assenza in una comunità acquosa senza alcuna consistenza.

Lo status quo ci porta ad osservare come il modello di addestramento educativo e comportamentale, richiesto dal sistema, sia mutato. Quello del Novecento, chiamato “Panopticon”, fissava regole certe, ferree corredate da valori, principi, norme ed incluso in un tessuto ideologico granitico che ha favorito la riproduzione del senso del nostro ruolo sociale (e dunque del sistema e di noi stessi). Tale Panopticon (dal greco “sorvegliare tutti”) è originariamente il nome della creatura architetturale inventata da Jeremy Bentham per la costruzione delle carceri, degli ospedali, dei manicomi, nei quali un sorvegliante controlla tutte le altre persone, le quali, pian piano, cominciano a comportarsi nel modo desiderato dal sorvegliante anche in sua assenza non sapendo più se sono, in ogni momento, sorvegliati o meno.

Oggi, al contrario sembra essere svanito tutto. Principi, idee, ideologie, norme, valori, riferimenti… L’uomo contemporaneo si trova davanti ad opzioni “usa e getta”  che funzionano pochi mesi o pochi giorni. Tali opzioni sono spesso contrastanti e disconnesse tra loro e non sono unite dal benché minimo filo conduttore. Si fa fatica, insomma, a rimanere ancorati ad un principio o ad un valore che sono poi strumenti propedeutici alla norma da seguire.

Esattamente, allora, dopo il Panopticon cosa è venuto? Cosa si è instaurato? Quale nuovo modello addestrativo ha partorito tale contesto e soprattutto quale cittadino vuol costruire ai fini della funzionalità del nuovo sistema sociale mutato e/o rivoluzionato dalle macerie del muro di Berlino?

Per capire questa evoluzione del Panopticon sarà utile richiamare l’attenzione del lettore sul concetto di “anomia” (dal greco “senza norma”). Emile Durkheim utilizzò questo concetto ritenendolo fisiologico nella fase in cui un sistema sociale sta morendo, ed è ormai inefficace, ed un nuovo sistema sta nascendo ma non si è ancora affermato. In una condizione del genere le norme impallidiscono e con esse ogni punto di riferimento ideale, valoriale, etico e morale. L’individuo si trova così smarrito. Da un lato ci sono le norme di una società finita e dall’altro non sa quali nuove norme partorirà la società che è alle porte. Diciamo pure che un esempio di anomia, che il lettore potrà assurgere ad esempio, è quello dell’Unione Sovietica del 1991 fino alle prime “riforme” di Boris Eltsin.

Ecco, il nuovo Panopticon sembra elevare a condizione permanente un tratto psicosociale transitorio. Sembra, dunque, che l’anomia diventi (il lettore perdonerà questa antinomia), la norma.

“E’ il tramonto delle grandi speranze […]. Oggi quel che trionfa è solo l’individualismo da cui […] deriva la tendenza a porsi fuori dalle regole pur di sopravvivere. Ma quale avvenire attende la società […] se mancano le grandi speranze collettive […]? Quale cultura potremo esprimere? Quale classe dirigente? Quale sviluppo economico? […] Dovremmo chiederci tutti quali sono i costi sociali ed economici che pagheremo derivanti dalla perdita del senso dell’essere collettivo”.[1]

Questa saggia riflessione evidenzia il concetto della “sopravvivenza” come elemento chiave del senso ultimo che i ruoli, la vita, l’uomo, hanno in uno scenario governato dall’anomia. I valori riflettono dunque un vuoto abissale che, sempre propedeuticamente, produce norme volte alla semplice sopravvivenza e non alla vita che è tale in un equilibrio di contenuti culturali e normativi e quindi collettivamente accettati e comportamentalmente attesi. Qui è chiara l’importanza della comunità che acquisisce e crea norme e produce comportamenti conseguenti. Se rimane l’individuo monade, isolato, riluttante ad ogni responsabilità etica, culturale e politica, si rischia di essere travolti da una infinità libertà vuota, così vuota da non avere senso, appunto, come la vita stessa.

Ora, “la coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita”[2] affermavano Marx ed Engels aggiungendo successivamente (ed è questa la concezione centrale che ha mosso la nostra azione per oltre un secolo) che “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”.[3]

Viceversa sappiamo che in virtù del disagio prodotto dalla mancata riduzione (o dal mancato mantenimento) della complessità, l’essere non è pienamente cosciente ed il processo reale della propria vita annega nelle virtualità del sistema liquido. Quest’ultimo produce l’assenza dell’essere sociale (visto che il tratto caratteristico della Globalizzazione è rappresentato dalla scomparsa della dimensione collettiva e comunitaria) e di conseguenza la coscienza degli uomini è marxianamente negata.

E’ per questo che l’unico istinto che muove l’uomo liquido è la sopravvivenza che è la negazione di ogni norma e di ogni idealità. Essa porta ad una materialità bestiale e monadica.

L’uomo liquido contemporaneo non è l’uomo tutto d’un pezzo del Secolo scorso in grado di assorbire una solida prospettiva ideologica. E’ un uomo liquido e “in pezzi” e la dimensione collettiva che permetterebbe di riassemblare tali frammenti non c’è più. Si tratta di agire sui pezzi singoli se si vuol rimetterli insieme.

Nel Novecento Robert Musil definita “uomo senza qualità” l’attore sociale di allora. Un uomo al quale si richiedevano scarse qualità e competenze, dedito alla catena di montaggio a vita. Quello contemporaneo, per utilizzare una definizione di E. Gellner, è un “uomo modulare” con tante qualità monouso e a scadenza in grado di cambiare di se stesso singole parti e non il suo “impianto integrale”. L’identità allora non è più un processo cumulativo, ma interpretativo nella sua incoerenza e mutevolezza. Stessa sorte è riservata ai processi di socializzazione, di classe, di coppia; agli enti sovraindividuali come la famiglia, la scuola, i partiti che diventano dei veri e propri taxi che vengono cambiati quando non hanno più benzina.

Che fare sul piano politico- ideologico in ambito psicosociale? Una priorità per quel che riguarda questa nostra avanguardia post-moderna, è riconoscere che un sistema che ha prodotto tali conseguenze non solo rispetto alla sfera politico- economica ma anche su quella più propriamente intima, psichica, cognitiva, non è riformabile perché ha costruito un meccanismo di rigenerazione autopoietica e dunque irreversibile. Si tratta di deragliare il treno, per usare un’espressione più che paradigmatica di Marco Rizzo. Come? Sottraendosi dalla forma liquida delle relazioni sociali, del pensiero unico, del revisionismo storico. In una parola, si deve ritrovare la propria solidità attraverso ciò che di più granitico si ha a disposizione, ovvero l’ortodossia del marxismo- leninismo.

E’ da lì che si deve ripartire!

[1] Bauman Z. (Trad.it) Il buio del postmoderno, Aliberti Ed.

[2] Marx K. – Engels F. (1846), Trad. It., L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 13.

[3] Marx K., (1857), Trad. It., Introduzione alla critica dell’economia politica, Edizioni Rinascita, Roma, 1954.

La disgregazione dei rapporti sociali e la fine dei sentimenti

 

L’uomo del Novecento, oltre alla dedizione alla catena di montaggio a vita, era anche dedito alla famiglia, alla Patria, al Partito. Questi sono definibili “Enti sovraindividuali” cioè realtà in grado di oltrepassare la finitezza dell’essere umano; in grado, quindi, di rappresentare la certezza del proprio contributo terreno, la permanenza del ricordo del proprio passaggio. In una parola gli Enti di questo tipo erano il terreno di coltura del senso della propria esistenza. La loro caratteristica fondamentale era l’eternità della loro presenza. Del resto la società novecentesca si è retta attorno a questi solidi pilastri.

Mentre i Partiti, liberatisi dell’ideologia diventano dei CDA preelettorali ad appartenenza mutabile, a linee alternate, la Patria segue il regime liquido della disgregazione sciogliendosi in Enti sovra-statuali in perfetta sincronia con l’impianto del Finanzcapitalismo globalizzato contraddistinto dalla netta separazione del potere dalla politica. Questo è un elemento centrale: se il potere non lo esercita più la politica, si produce un’ulteriore separazione e cioè quella tra la politica e i cittadini. Questi ultimi non trovano più nella propria comunità di riferimento uno strumento di risoluzione delle proprie problematiche e non trovano più nemmeno il ponte di traduzione dal particolare al generale che i Greci chiamavano “Agorà”. Quest’ultima è intesa come quella trasmissione individui- massa, che consente ad un problema individuale di essere raccolto tra più problemi della stessa natura per poter essere poi inteso come una grande questione popolare della quale la politica, a questo punto, si fa carico.

Il cittadino si ritrova solo. La sua precedente comunità intessuta di passione politica, di visioni alternative sul mondo, di solidarietà umana non c’è più. Il legame sentimentale che lo legava al prossimo è venuto meno. La Patria è stata sostituita da Enti lontani, distanti, difficilmente rintracciabili o dialogicamente accessibili che non si occupano di coltivare la comunità ed il suo senso.

Reciso questo legame sentimentale, perché mai, allora dovrei amare il mio vicino di casa? “E’ un fondamento morale amare il prossimo ed è, probabilmente, un elemento centrale dell’istinto di sopravvivenza, ma ciò comporta l’esistenza di un amore di sé, altrimenti come potremmo amare il prossimo come noi stessi? Sarebbe una contraddizione/antinomia più che manifesta. Amore di sé può significare tante cose. Potrebbe anche darsi che ribellarsi alla vita stessa, ricercare il rischio ed il pericolo anche fisico o rifiutare un’esistenza che non si ritiene all’altezza delle proprie aspettative, sia in sostanza riassumibile nel concetto di “amore di sé”. Ecco allora che emerge una questione di fondo: io amo me stesso nella misura in cui sono amato. Dunque, ciò vuol dire, che sono altri che devono amarci, affinché io sia nelle condizioni di amare il mio prossimo. Essere ascoltati con attenzione, rivestire un ruolo sociale che rispecchi i nostri desideri sociali, ma, soprattutto, il sentirsi indispensabili, il pensare che con la nostra morte finiranno molte delle cose per le quali ci sentiamo indispensabili/insostituibili, è certamente un elemento centrale dell’amore per se stessi. E’ anche un tema che riguarda più da vicino la reciprocità stessa: “Se altri mi rispettano, allora è ovvio che dev’esserci in me qualcosa che io posso offrire ad altri; e ovviamente esistono degli altri che sarebbero ben contenti di ricevere ciò che io posso offrire loro […]. L’invito ad amare il nostro prossimo come noi stessi (vale a dire, ad aspettarsi che il prossimo desideri essere amato per le stesse ragioni che stimolano il nostro amore di sé) invoca il desiderio del prossimo di vedere riconosciuta e confermata la propria dignità in quanto depositario di valore unico, insostituibile e non smaltibile.”[1]

Ciò vuol dire, rispettare la reciproca unicità. O forse, meglio ancora, la reciproca dignità. Ecco, dunque, che si propone, alla nostra discussione, il problema della natura sistemica della società liquida. Il 1989 è l’anno in cui la modernità cede il testimone alla post- modernità che si avvale dello strumento del Capitalismo disegnato/distribuito su scala globale. Non ci sono più limiti alla sua espansione e le contraddizioni che porta in seno, diventano completamente trascurabili. Non essendoci più alcuna idea diversa del mondo, il Capitalismo non ha più rivali/alternative, per cui, può fare quello che vuole […]. Il punto è che, il regno del Capitalismo, si erge sulle fondamenta della disuguaglianza e sull’accumulo del benessere in una limitata porzione del mondo la quale si alimenta della miseria di milioni di popoli non più nelle condizioni di costruire una forma di solida collettività rivoluzionaria tanto determinante da minare quelle fondamenta inique.

Per cui, se la ragion d’essere di questo sistema globalizzato è la miseria degli altri e (come direbbe Ernesto Che Guevara) dei loro stessi popoli, la dignità umana cede il posto alla sopraffazione e alla morte. Non esistono scorciatoie che conducono a un mondo fatto su misura della dignità umana, “mentre è assai certo che il mondo realmente esistente costruito giorno dopo giorno da gente già privata della propria dignità e non adusa a rispettare la dignità altrui verrà mai fatto su tale misura.”[2][3]

Guardiamo a ciò che accade nella famiglia. Questo Ente, un tempo sovraindividuale, è stato tra i più utilizzati sia da un punto di vista ideologico sia politico dalla borghesia occidentale. E’ probabilmente la struttura che più d’ogni altra ha assorbito il significato delle esistenze individuali.

La famiglia non è più un Ente perenne perché ciò comporterebbe senso di responsabilità, meccanismi routinari, aspettative comportamentali accettate e prive di significative novità. Semplicemente per essere solida (come nel Novecento), la famiglia dovrebbe collocarsi in una società altrettanto solida. Al contrario in una società liquida riluttante a pratiche sociali durature e responsabili, la famiglia diventa una sorta di “progetto interpretativo” retto sulla faticosa ricerca pedissequa di un insoddisfacente compromesso bilaterale che collassa appena arriva un nuovo amore o una difficoltà economica. Il filosofo nordico Søren Kierkegaard, descriveva il suo Don Giovanni come un uomo ossessionato dalla paura di perdere nuove opportunità amorose. Un uomo incapace di amare e che pensa l’amore come una sequenza ininterrotta e frenetica di opportunità sessuali. La famiglia risente di questo modello sociale di uomo e di donna che pedagogicamente il sistema ha pian piano partorito.

Sul versante, invece, del rapporto genitori/figli, la questione è ancor più interessante e non meno complessa. Riprendiamo per un attimo il concetto di “Panopticon” che si è utilizzato nell’articolo precedente. Esso consentiva ai genitori novecenteschi di sorvegliare/punire i propri figli attraverso il corpo. Quest’ultimo è stato il prevalente canale di trasmissione sentimentale, pedagogica e addestrativa. M. Foucault definiva “panico da masturbazione” il tipo di modello educativo di cui parliamo. Il corpo del bambino veniva appunto monitorato secondo le regole panottiche del vedere senza essere visti nell’atto di osservare. Per cui il bambino non sa quando ma sa di poter essere monitorato in qualsiasi momento. Per cui conviene rispettare sempre le regole imposte per evitare le punizioni. Attraverso il corpo veniva trasmesso non solo un rigoroso comportamento timorato ma anche tutto il resto, ovvero la cura, l’affetto, l’amore…

Ma il crollo del muro di Berlino ha liberato tutte le nefandezze che il Capitalismo novecentesco aveva ben mascherato in nome dell’anticomunismo e del “pericolo rosso”. Tra le tante quella che qui più interessa è il fenomeno della Pedofilia che travolge i due monumenti della civiltà occidentale, la Chiesa e la famiglia.

Il “panico da masturbazione” cede il testimone al “panico da abuso”.

Nel primo vi è un’intensificazione del ruolo genitoriale, nel secondo, invece, un esonero degli adulti dal loro dovere. Questo nuovo panico ci introduce, quindi, all’unico rapporto possibile e cioè la commercializzazione del rapporto genitori- figli, nel quale sono i mercati dei consumi a rivestire un ruolo protagonistico. Il consumo, in questo caso, è lo strumento attraverso il quale si rimuove qualsiasi scrupolo morale derivante dall’abdicazione, da parte dei genitori, del loro ruolo di educatori di vita, di costruttori di norme, valori, ideali nei confronti dei figli, trasformando ogni ricorrenza (religiosa, familiare ecc.) in un acquisto continuo favorendo, il desiderio di primeggiare del bambino nel suo gruppo dei pari, per mostrare gli acquisti che diventano un segno di distinzione sociale. Si compra, dunque, la propria sicurezza con il denaro. “Esso è considerato un terzo genitore, il “padre di ogni concezione educativa […] che diviene per il bambino un punto di riferimento educativo forte e autonomo rispetto alle stesse idee morali o educative dei genitori [che soccombono]: i bambini imparano non dalle affermazioni dei loro referenti educativi ma dalle pratiche quotidiane, dalla lotta giornaliera per quadrare i bilanci familiari, dai commenti rispetto a chi accumula denaro, dalle valutazioni automatiche di chi può disporre di beni, dai piccoli o grandi comportamenti o dalle affermazioni di rispetto o dalle referenze verso chi è ricco”.[4] Per cui questo terzo genitore si naturalizza[5] progressivamente davanti agli occhi inermi di genitori incapaci di sviluppare un’attenta decodifica della situazione. Al di là delle loro buone intenzioni, la forza e la potenza dei neo media struttura una totale asimmetria a favore [del] “regime della banalità, della fretta, dell’artificialità”. Complice di questa battaglia combattuta ad armi impari è la cosiddetta fungibilità simbolica e cioè la sostituibilità di significato su fatti, oggetti, situazioni. Per cui i genitori individuano nel consumo uno strumento d’amore verso i figli mentre questi ultimi danno al consumo e al denaro un significato completamente diverso e spesso totalmente sostitutivo dell’amore genitoriale (e quando non è sostitutivo diventa rappresentativo e/o dimostrativo dello stesso amore genitoriale). La fungibilità simbolica  è la disfunzione più evidente prodotta dai canali più potenti di veicolo del terzo genitore che sono appunto i nuovi media. Essi sono spesso costruiti da adulti che sanno ben interpretare i gusti degli adolescenti entrando a pieno titolo nella loro sfera di legittimazione. Inoltre la televisione [e non solo] è il primo mezzo di comunicazione di massa che consente ai bambini una visione particolareggiata dei retroscena dei genitori. La prima conseguenza è la rivolta dei bambini contro molti ruoli degli adulti. La carta stampata dava ai bambini del passato una visione da palcoscenico del mondo adulto. “[…] Gli spazi di retroscena della maturità[…] rimanevano segreti. […] In genere essi credevano che il ruolo da palcoscenico degli adulti fosse l’unica realtà”.[6][7]

Questo quadro complessivo che ha affrontato le trasformazioni degli Enti e dei rapporti che presiedono la vita più propriamente sentimentale e relazionale degli attori sociali, ci offre uno spaccato (necessariamente riassuntivo) di alcune delle pervasività psicosociali del Capitalismo globale delle quali bisogna tener conto. Come si è scritto nell’articolo precedente, l’uomo contemporaneo è un uomo frammentato ridotto in “pezzi” i quali sono assemblabili attraverso una pluralità di interventi su ciascun frammento.

[1] Bauman Z. Trad. It., La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 1999.

[2] Ibidem.

[3] Leone D., L’amore ai tempi della Globalizzazione, Aracne, Roma, 2017.

[4] Benvenuti L., Malattie mediali, Baskerville, Bologna, 2000. pag. 263.

[5] Per “naturalizzazione” intendiamo riferirci ad aspetti comportamentali e valoriali appresi ma radicati nel tempo al punto da sembrare innati.

[6] Meyrowitz J. (1995), Trad. It., Oltre il luogo, Bologna, Baskerville, 1993, p. 261.

[7] Leone D., op. cit., Ivi.

Il superamento della proprietà privata in senso capitalistico e il linguaggio universale del denaro

 

Comunemente si è portati a pensare che sia il sesso il linguaggio attraverso il quale universalmente esprimiamo un minimo comun denominatore. Al contrario molti studi sottolineano che il modo di eccitarsi e di consumare l’atto varino a seconda della cultura che osserviamo. Margharet Mead, la grande antropologa, raccontava, ad esempio, che in alcune culture australiane e orientali il rapporto con il corpo tra genitori e figli risultava profondamente differente rispetto a quelle occidentali.

Il vero linguaggio universale è invece il denaro che nella sua natura proteiforme e mutevole può essere inteso in vari modi: “un rapporto sociale, più precisamente una forma di potere; un mezzo di scambio, la cui caratteristica preminente non è tanto la sua generalità, quanto la capacità di attraversare il tempo e lo spazio; un linguaggio che permette e insieme suggerisce di attribuire una quantità universalmente comparabile a qualsiasi oggetto o processo materiale o immateriale”.[1] Infatti mentre alla visione di un oggetto sconosciuto la nostra sfera cognitiva fatica ad attribuire un nome, difficilmente faticherà ad attribuirgli un costo.

E’ l’Unione Sovietica che rivede questo linguaggio abbassando il livello della sua centralità.

Ora se il 1989 diventa l’anno dell’avvio della Globalizzazione e della società liquida, il denaro dovrà trasformarsi anch’esso in un elemento liquido se vuole continuare ad essere il linguaggio fondante di una società che fa del denaro stesso la sua grammatica, il suo alfabeto.

Ecco che pian piano ci si avvia alla scomparsa non solo di tutte le sue forme meta- burocratiche (assegno, vaglia, cambiale) ma anche alla sua tradizionale forma cartacea che è la banconota. Tutti questi strumenti sono oggi dei BIT gassosi, immateriali e totalmente computerizzati a tal punto che se si chiede un prestito da € 50.000 in banca, tale somma viene erogata non materialmente ma attraverso un’operazione di BIT computerizzati. La banca in questione non ha movimentato, nella sua materialità, l’intera cifra ma solo una sua minima parte.

Il fatto che il denaro sia diventato liquido, produce, come conseguenza, la sua immaterialità, quindi, la sua non completa controllabilità. Tale situazione si riflette nella solidità degli ultimi frammenti del Capitalismo industriale. Se tutto viene, come è evidente, dematerializzato nel limbo liquido del libero mercato, tutto ciò che è solido pian piano si desolidifica.

Un tempo una fabbrica in crisi sarebbe, in un qualche modo, stata rilanciata (la Fiat ad esempio è stata oggetto di una pluralità di interventi pubblici che sono risultati determinanti). Questo significa che nel passato il lavoro materiale della classe operaia era, anch’esso in vari modi, quasi sempre recuperabile. Oggi davanti ad una fabbrica in crisi, il più delle volte, si procede ad uno spezzettamento. Arriva un soggetto finanziario (di cui parleremo a breve) acquista la fabbrica e la rivende a pezzi ciascuno ad un costo anche superiore a quello iniziale con il quale si è acquistata la totalità della fabbrica stessa.

Quindi se prima avevamo il rilancio industriale e quindi un reinvestimento nella forza lavoro, ora il reinvestimento diventa meramente finanziario mutando il suo status in reinvestimento borsistico.

Cambia, dunque, il paradigma marxiano.  “Il filosofo Claudio Tuozzolo, direttore della “Rivista critica”, ci invita a considerare che la formula D+M+D (denaro, merce, denaro) si è oggi trasformata in D+D+D (denaro, denaro, denaro); in altre parole la merce prodotta dall’acquisto è il denaro stesso. […]La merce è sostanzialmente scomparsa e con essa scompare lentamente e inesorabilmente la proprietà privata. Non è chiaramente un superamento della proprietà in modo socialista, ma un’altra forma che lo stesso Marx [aveva] previsto in caso di trionfo del sistema capitalista.”[2]

La conseguenza ulteriore è che il lavoro diventa pian piano anch’esso immateriale producendo la perdita di sé, del proprio ruolo nella società e soprattutto la perdita del proprio riferimento di classe.

Tale tesi si avvalora di un ulteriore elemento. Chi è il soggetto che compra questa fabbrica? Chi la spezzetta? Chi compra questi frammenti? Come ci guadagna?

Senza addentrarci più di tanto nelle logiche di mercato speculativo (attraverso il quale si scommette con i derivati, si riacquista, si vende ecc..), soffermiamoci ad osservare la struttura di uno di questi soggetti. Prendiamo ad esempio la Lehman Brothers: era formata da ben 2985 entità giuridico- finanziarie diverse. Quando la società di revisione contabile PricewaterCoopers, cominciò ad indagare sui responsabili del fallimento di LB, asserì che per capire il labirinto di debiti e crediti della sola filiale europea (con sede legale a Londra) sarebbero occorsi tre anni ed altri dieci per sistemare le pendenze con i soggetti danneggiati dal fallimento.

“Troppo grandi per fallire” era lo slogan rassicurante diffuso al principio di questo nuovo assetto che i protagonisti del Capitalismo post- industriale si erano dati. Il sociologo Luciano Gallino, invece, coniò uno slogan ben più veritiero: “troppo grandi per essere salvati”.

Allora vuol dire che l’uomo ha creato delle invenzioni che retroagiscono nei confronti del creatore. In altri termini si costruisce ciò che poi non può più essere controllato e che anzi sviluppa esso stesso un controllo non solo nei confronti dei popoli, ma anche nei confronti di colui/coloro che avendolo partorito dovrebbero conoscere anche i meccanismi di accensione e spegnimento.

Se questi mostri non sono più controllabili dagli uomini, vuol dire che la “dimensione vernacolare” umana perde ogni peso, ogni valore, ogni significato. Come potrebbero gli uomini ribellarsi materialmente contro ciò che non è materiale? Un tempo ci si è scagliati contro il Palazzo d’Inverno, contro la Bastiglia. Oggi il luogo dello scontro si ramifica (come nel caso di LB) in 2985 entità che hanno sede nei BIT computerizzati.

Da un punto di vista psicosociale la perdita del senso di sé è la prima conseguenza. Chi è con me nella lotta? Contro quale sede, soggetto, responsabile, agito le mie bandiere e riverso la mia indignazione?

Contro il migrante, contro il pedofilo, contro il marito che ha assassinato sua moglie, contro il conduttore televisivo che guadagna tre milioni di euro l’anno, contro il politico (che ormai, è più che evidente, è l’ultima e quasi ininfluente ruota del carro). Insomma, contro chi si manifesta in carne ed ossa, con una faccia, con un nome, con un Palazzo.

Che fare? O forse meglio approfondire prima cosa si è fatto.

La difficoltà di oggi poteva essere mitigata dall’azione di ieri. Chi scrive segue il Partito Comunista da tempo condividendone totalmente le posizioni politiche eppure ha aderito al PC solo poche settimane fa dopo 7 anni di inattività politica. Si chiesto, perché? La risposta è stata amara, dura, come la più feroce delle autocritiche che mai gli sia capitata di fare. Aderire a questo Partito significa riconoscere che in tutti questi anni, pur inseguendo, in totale buona fede, il superamento del Capitalismo, abbiamo tutti noi, in realtà, lavorato nel solo orizzonte che in questi decenni avevamo a disposizione, cioè la socialdemocrazia.

Un Comunista vero che arriva alla conclusione di aver dedicato una parte della propria esistenza ad una forma di dissenso partorita dal sistema contro il quale pensava di combattere, è una conclusione dolorosa se non ampiamente lacerante da un punto di vista emotivo oltre che culturale e ideologico.

Il mancato mantenimento, all’indomani del crollo del muro di Berlino, dell’ortodossia marxista- leninista (tralascio le scelte di Togliatti per ragioni di brevità anche se è da lì che dovremmo partire nell’analisi), ha prodotto una mutazione genetica che non ha riguardato solo il PDS ma ha lateralmente toccato la cultura anche di quelli (come noi) che hanno pensato di mantenere la “schiena dritta” non curandosi delle numerose ernie che spuntavano per la colonna vertebrale. Ernie che hanno portato da un lato al movimentismo, alla centralità dei diritti civili e alla perdita della centralità del lavoro, e dall’altro all’idea che in virtù del senso di responsabilità, del meno peggio, del pericolo della Destra, fosse necessaria l’organicità in una coalizione nella quale si è finiti con l’essere meri esecutori di scelte politiche imposte dai grandi partiti ai quali l’agenda era imposta dall’ideologia liberista e dai mercati finanziari.

La perdita della centralità dell’ortodossia ha prodotto un cedimento in termini di analisi e di risoluzione che al contrario è necessario tornare ad avere. O forse è meglio dire, cominciare ad avere.

L’ortodossia va accompagnata con un’analisi constante e continua che vada ad indagare soprattutto sugli elementi sistemici più proteiformi e inediti del Capitalismo post- moderno attraverso la costruzione interna al Partito di un vero e proprio laboratorio scientifico che acquisisca tutte le metodologie interdisciplinari delle scienze sociali, filosofiche e pedagogiche. Anche perché l’ortodossia senza analisi scientifica rischia di essere mera conservazione museale e l’analisi scientifica senza ortodossia potrebbe facilmente degenerare in revisione e in abiura nei casi più estremi.

Abbiamo oggi la responsabilità di cambiare il mondo consapevoli della fase contro rivoluzionaria nella quale siamo collocati. Possiamo essere per l’operaio, per il precario, per il debole post moderni quell’Ente sovra individuale (di cui si è scritto nel secondo articolo) nel quale riversare il senso della propria esistenza perché il cambiamento del mondo continua, senza alcun mutamento, a rappresentare la ragione più alta, al di là di sé,

della propria vita.

[1] Gallino L., Finanzcapitalismo, la civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2014. P. 169

[2] Leone D., “Il Capitalismo è un’invenzione umana”, La Città futura, Roma, 2016

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