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” IL NEMICO ” | DOTT.RE MARCO CALZOLI

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Redazione-  Nella Poetica di Aristotele il sostantivo greco spoudē (e derivati) è assai importante, anche perché si presenta in punti chiave dell’opera. La tradizione critica del passato ha spiegato il termine secondo un significato morale, stando altresì il fatto che la scuola classicistica ha attribuito a quest’opera di Aristotele un significato moraleggiante, oggi perlopiù abbandonato. Tale interpretazione si basa altresì sul fatto che il termine in questione compare in un famoso passaggio che pare alludere alla morale, si tratta del brano in cui la radice della parola si presenta la prima volta, sono le righe 1448 A1-A2: “Chi imita, imita persone in azione (prattontas) che possono essere o serie (spoudaios) o dappoco, facete”, le quali, entrambe, sono ētoi, cioè “caratteri”, vale a dire dei tipi di personalità. Chi imita persone in azione nella vita quotidiana deve giocoforza imitare dei caratteri psicologici.

Però dal capitolo VI Aristotele parla della forma più eminente di poesia, che è la tragedia, la quale ha come fine quello di imitare la praxis, azione, e non ētē. Ora, nel passo in questione siamo solamente al capitolo II, questo ha ingenerato una incomprensione. Ha fatto pensare, infatti, che lo scopo della tragedia sia quello di ritrarre i caratteri morali. Oggi si pensa che a fare qualcosa del genere non è la tragedia, ma la pittura, la quale è meno mimetica dell’epos e della tragedia, con i mezzi rappresentativi non drammatici. Invece la tragedia deve imitare la praxis, l’azione della persona nel quotidiano. Sulla base di questo fraintendimento si è interpretata la radice di spoudē in senso moraleggiante qui e in tutta la Poetica (la radice ricorre in tutto 10 volte). Quindi si è pensato che “spoudaios” fosse un attributo conferito esclusivamente al carattere del personaggio, e all’azione solo in quanto composta da un certo tipo di personaggio, e ne esprimesse dunque le qualità morali. Pertanto si è creduto che spoudaios voglia dire “virtuoso”.

Certamente lo spoudaios è il migliore carattere per la tragedia, ma non lo è il buono, il virtuoso, come specificato da Aristotele nel capitolo XIII della Poetica. Quindi lo spoudaios non ha la caratteristica preminente di avere qualità morali, non possiede unicamente moralità, ma ne ha solo qualche riflesso in ragione della qualifica ontologica che Aristotele dà al termine e allo statuto della tragedia, come sostenuto da Daniele Guastini.

L’analisi filologica di oggi intende spoudē come “serietà”, spoudaios come “serio”. Il significato base è quello di affrettarsi (speudō), quindi chi si affretta è perché sta facendo qualche cosa di rilevante, di serio.

Chantraine osservava come l’antichità della radice di speudō è confermata dall’alternanza presentata dal sostantivo spoudē (tale vocalismo /o/ è raramente conservato in greco nei dittonghi in /u/). Il presente radicale tematico speudō non mostra traccia di alternanza vocalica. Per forma e significato troviamo una corrispondenza soddisfacente nel lituano spàusti (da *spàudti), con il presente derivato spaudà t. “schiacciare, premere, spingere, affrettare”, che può basarsi anche sull’indoeuropeo *spoude-yō.

Per intendere al meglio la gamma semantica dei termini quali spoudaios nella Poetica di Aristotele, occorre rifarsi alla tradizione che la radice ha avuto precedentemente alla Poetica, soprattutto quella che fa capo alla sentenza di Platone sulla mancanza di “serietà” dell’arte poetica. Pensiamo alla prima grande trattazione della poesia tragica (Repubblica, nei libri II e III), precisamente 388 D ss: “Se infatti i nostri giovani prendessero ‘seriamente’ le cose di Omero, la narrazione di buoni che finiscono nella sventura (cioè gli argomenti preferiti delle tragedie) … e non ci scherzassero sopra come parlandone di cose prive di importanza, sarebbe poi difficile che si sentisse responsabile o colpevole chi di loro si comportasse allo stesso modo …”, cioè lamentandosi quando finisce nella malasorte. Qui è noto che è espresso il nerbo della considerazione anti educativa che Platone ha riguardo la poesia tragica. La mimesis tragica, secondo Platone, non va presa sul serio perché pur rappresentando uomini di grande valore, tuttavia essi si disperano per le sventure che gli capitano nella vita, questo induce i futuri governanti, cioè i giovani, a mettere in discussione che invece tale tipo di uomo è quello più bastevole a sé stesso (autarchēs), che meno risente dei colpi della sorte, per ottenere la felicità, facendola scaturire dalla virtù.

Cosa sono le cose serie di cui parla Aristotele? Capitolo VI della Poetica: capacità della tragedia di porre in vista la serietà dell’azione come forma precipua della praxis. In 1149 B 24-25 la tragedia è imitazione di una azione “seria” e conclusa. L’aggettivo è riferito all’azione. Cosa è una azione seria? Non quando è morale, cioè ciò che secondo Platone manca alla tragedia, che mette in scena dei disperati che sono in balia della sorte.

La tragedia è seria quando restituisce la realtà dell’essere umano, cioè quando dà a vedere ciò che Platone riteneva dover essere nascosto. Aristotele usa la radice di spoudē in senso antitetico rispetto a Platone: per quest’ultimo la tragedia dà a vedere cose che dovrebbero essere nascoste, cioè i deboli che si disperano perché in balia della sorte, invece Aristotele ritiene che la tragedia fa vedere la realtà dell’essere umano e quindi la tragedia è “seria”. È seria l’azione in cui si vede che l’uomo non ha il pieno controllo della realtà.

Quindi sia Platone sia Aristotele usano la radice di spoudē per indicare che la tragedia ottiene sulla scena la visione della realtà, ma per il primo la tragedia mostra una realtà da dover essere nascosta, invece per Aristotele mostra una realtà tale e quale deve essere. Abbiamo in Aristotele un accenno di realismo: la tragedia è la migliore delle arti poetiche in quanto mostra l’uomo nudo, tale e quale è nella realtà.

È questo il nodo cruciale di tutta la vita terrestre degli esseri umani. Il male va evitato e nascosto (Platone) oppure va affrontato, drammatizzato (Aristotele)? La nostra vita è una tragedia, perché qui siamo tutti separati dal Principio, ma come va affrontata?

Si tratta della decisione capitale della nostra vita. Dobbiamo rimuovere il dolore o dobbiamo affrontarlo come una lezione, guardandolo apertamente?

Prendere le giuste decisioni costituisce la cosa più difficile di tutta la nostra vita. Ciò che noi siamo è frutto delle nostre decisioni. Ognuno è quel che è come conseguenza di scelte ben precise. Non tanto gli eventi in cui è incappato quanto come ha risposto a quegli eventi, come è riuscito a migliorare il fenomeno nel quale ad un certo punto è capitato e come è riuscito ad affrontarlo.

Lo yoga insegna a guardare gli eventi della nostra vita senza passioni distruttive, senza odio, rancore, rabbia, paura. La parola “emozione” deriva dalla radice latina del “muovere”: le emozioni sono agglomerati psichici che ci muovono. Invece dobbiamo essere noi stessi ad avere il controllo.

Il tai chi chuan è la prima delle arti marziali in quanto si basa su un principio filosofico capitale. Nel pensiero cinese il Tai Chi è quella dimensione dell’universo in cui i poli opposti Yin (morbido, debole) e Yang (duro) sono ancora uniti prima di essere generati e quindi divisi.

Il pensiero cinese insegna che da un eccesso di Yin si produce Yang e da un eccesso di Yang si produce Yin. Nello scontro tra Yang e Yin avrà sempre la meglio Yin.

Nel combattimento fisico i due avversari che intendono usare la durezza finiranno con il dare colpi potenti, quindi o uno di loro perderà o comunque si faranno male entrambi: quindi il loro eccesso di durezza farà il percorso da Yang a Yin.

Invece il tai chi chuan insegna che bisogna investire nella sconfitta. Chi inizierebbe mai un’arte marziale se pensasse a perdere anziché a vincere? Ma, secondo i grandi maestri della disciplina, è questo il segreto del tai chi chuan.

Il praticante di tai chi chuan non reagirà, userà morbidezza (Yin), si sposterà dalla traiettoria del colpo, farà perdere in questo modo l’equilibrio all’avversario e lo scaraventerà a terra. Quindi nell’eccesso di morbidezza il praticante passerà da Yin a Yang.

È ciò che i classici cinesi chiamano “tung chin”, comprendere la forza. La vera forza sta nella debolezza. Chi vuole vincere deve imparare prima di tutto a non reagire agli eventi, per poi contrattaccare all’improvviso. Chi vince cento battaglie è forte, ma chi non ne fa nemmeno uno è ancora più forte. Il pugno più forte è quello che non viene dato.

Proviamo ad applicare questo principio nella realtà di tutti i giorni. Una malattia, un lutto, una tragedia costituiscono dei nemici che ci attaccano. Se vogliamo vincere questi nemici dobbiamo investire nella sconfitta. Bisogna non reagire per non divenire preda di emozioni distruttive, cioè in ultima analisi del nemico stesso. Solo dopo che la tempesta ha sfogato la sua forza, dobbiamo prendere delle decisioni. Il pugno arriva, noi lo schiviamo e vinciamo. Solo se non reagiamo subito all’evento negativo, diventiamo un punto di forza per affrontarlo nel modo migliore. Il nemico non va caricato di colpi, altrimenti il nostro colpo diventa la reazione al suo attacco, quindi siamo in sua balia. Per prima cosa il nemico non ci deve far perdere l’equilibrio con emozioni distruttive, ma, solo a mente fredda dobbiamo contrattaccarlo, di modo che, questa volta, siamo noi a prendere l’iniziativa. A questo punto il controllo dell’azione sta in noi.

L’evento negativo deve essere guardato direttamente senza che ci faccia sbilanciare. Solo così avremo quella visione giusta e quella freddezza giusta che ci permette di affrontarlo nel modo migliore.

Anche lo yoga ha una funzione centrale nella nostra capacità di prendere decisioni. Lo yoga è consapevolezza: il nemico va osservato attentamente. Noi dobbiamo prendere coscienza della realtà che ci circonda.

Cartesio diceva “cogito ergo sum”, penso quindi sono. Ma non aveva definito adeguatamente che si può pensare bene oppure pensare male. Nello yoga la conoscenza deve essere realizzata, cioè non deve essere una mera intellettualità, bensì un sapere calato nella vita. Solo l’esperienza può fornirci le basi per sapere adeguatamente la realtà. Come? Osservandola.

Il nemico va guardato in faccia e studiato, come fa un pugile e solo così sa adattarsi all’avversario.

Il nemico non va odiato, altrimenti diventiamo un giocattolo in balia di esso. Invece dobbiamo sempre avere dentro di noi queste perle, anche quando affrontiamo un evento avverso (Bhagavad-Gita 13.7):

“Umiltà, sincerità, non violenza, perdono, rettitudine, devozione al maestro spirituale, purezza, costanza, armonia del Sé”.

In sanscrito la “non violenza” è detta ahiṃsa, termine composto da “a” privativo + “hiṃs”, forma desiderativa della radice “han”, uccidere, nuocere, arrecare danno. Quindi il sostantivo sanscrito ahiṃsa non indica solamente il non percuotere un’altra persona o un animale, ma la volontà a tutto tondo di non recare danno. Secondo la concezione indiana, sono tre i modi con i quali si può far danno a qualcuno: pensieri, parole, opere. Nella concezione zoroastriana abbiamo “buoni pensieri” (humata), “buone parole” (hūkta), “buoni atti corporei” (huvaršta).

Solo se rimaniamo impassibili e non ci facciamo destabilizzare psichicamente e moralmente dall’avversario, avremo la meglio.

Solo se non siamo schiavi dell’evento, diventiamo invece un punto di forza attorno al quale gli eventi gireranno. Saremo quindi noi a far girare gli eventi a nostro vantaggio. Da un eccesso di Yin deriva Yang.

La cultura occidentale ci insegna a reagire di fronte a qualcosa che non va. Chi di fronte a un dramma non vorrebbe far qualche cosa? Ma ogni determinazione è una negazione, come osservava Spinoza. Se noi ci poniamo come obiettivo quello di “far qualcosa”, determiniamo l’evento negativo, quindi lo neghiamo, lo vogliamo occultare, invece il nemico va osservato e studiato.

Ciò che non va non deve mai farci perdere l’equilibrio interiore scatenando reazioni fuori controllo. È questo il principio taoista del “wei wu wei”,azione della non azione: non significa che non bisogna agire ma bisogna agire conformemente alla natura. Ora, la natura ha i suoi tempi, i tempi quindi non devono essere imposti da un agente esterno.

Bisogna fare anche una riflessione morale, più in senso religioso. Chi usa la violenza incorre sempre in un demerito. Per l’induismo si ottiene un karma negativo. Per Gesù bisogna porre l’altra guancia. Quindi se qualcuno ci percuote, la soluzione migliore è+ costituita dal non rispondere con un’altra percossa, anche se nella pratica immediata è un comportamento svantaggioso. Tuttavia è sempre meglio anteporre le ragioni della morale a quella della convenienza materiale. Un santo cristiano venne rapinato, ma lui andò a rincorrere i malviventi per dare loro anche quel denaro che non avevano visto.

Se un nemico ci attacca e noi, colpendolo, ci procuriamo del demerito, costui è riuscito a vincere anche se lo mandiamo a tappeto. Se un evento tragico ci getta nella disperazione, l’evento ci ha distrutto.

L’impassibilità epicurea è il giusto atteggiamento verso tutto ciò che ci accade. Se vogliamo, è anche questo investire nella sconfitta.

Ma ci sono anche altre visioni, che mitigano e alterano quanto da noi richiamato brevemente. Per esempio, la Bhagavad-Gita insegna che si può anche reagire con la forza, però sempre senza attaccamento. La azione senza attaccamento, cioè in maniera impassibile, permette di recidere i legami che portano al karma negativo, cioè al demerito. Leggiamo in 2.39:

eṣhā te ’bhihitā sānkhye buddhir yoge tvimāṁ śhṛiṇu

buddhyā yukto yayā pārtha karma-bandhaṁ prahāsyasi

“Quella che ti ho esposto è la conoscenza analitica delle cose,

osservata dal punto di vista speculativo; ora ascolta questa stessa

saggezza nel suo aspetto pratico, quello dell’azione svolta con

intelligenza, senza attaccamento al risultato. Conoscendo ciò, oh Arjuna, tu infrangerai i legami dell’azione (karma-bandham)”.

I teologi cristiani, inoltre, interpretano il dettato evangelico della non violenza. Infatti, oggi dal punto di vista cristiano, la violenza è lecita se mossa da giusta intenzione, come nella guerra di difesa. Per di più, nell’Antico Testamento compaiono gli angeli distruttori, come Samael, in ebraico Giustizia di Dio, potenti esecutori della volontà di Dio che causavano tragedie per punire i peccati.

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 52 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.

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