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ORGANIZZAZIONE E ANALISI CRIMINALE NEL TARGET GIOVANILE-DOTT.RE RICCARDO ROMANDINI

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Indice

Parte I: Analisi Criminologia

Capitolo I

Teorie Criminologiche

Par. 1 La teoria dell’associazione differenziale di Sutherland 2

Par. 2 Gli sviluppi attuali della teoria di Sutherland: la teoria dei ruoli di Cressey e la teoria dei modelli comportamentali di Glaser 5

Par. 3 La teoria della cultura delle bande criminali di Cohen. 7

Par. 4 La teoria delle bande giovanili di Cloward e Ohlin. 9

Par. 5 La teoria non-direzionale dei Glueck. 11

Par. 6 La teoria dell’Etichettamento di Becker e Lemert. 13

Capitolo II

Modelli di Comportamento delinquenziale

Par. 1 Le condotte violente 17

Par. 2 Il nomadismo violento 29

Par. 3 Le aggregazioni criminali 31

Par. 4 Il minore e l’organizzazione criminale 41

Par. 5 I giovani e le droghe. 51

Parte II: Aspetti Giuridici

Capitolo I

Imputabilità e Punibilità

Par. 1 L’imputabilità nel diritto penale. 62

Par. 2 La maturità richiesta per l’imputabilità del maggiore di quattordici anni ancora minorenne. 67

Capitolo II

Tipologie di reato

Par. 1 L’organizzazione criminale minorile e giovanile: sue manifestazioni di rilevanza penale 72

Par. 2 Il Concorso di persone nel reato e l’associazione 77

Par. 3 La violenza sessuale di gruppo 86

Par. 4 L’associazione a delinquere di stampo mafioso 89

Par. 5 I reati conflittuali 95

Par. 6 I reati contro il patrimonio 97

Par. 7 Casistiche. 101

Bibliografia 107

Giurisprudenza 112

Parte I : Analisi Criminologica.

Capitolo I

Teorie Criminologiche

Par. 1 La teoria dell’associazione differenziale di Sutherland

La teoria dell’associazione differenziale di Edwin Sutherland è stata impostata all’interno dei “Principles of Criminology” (1934). Secondo l’autore , la devianza e la criminalità vengono apprese in associazione diretta o indiretta con gli altri, attraverso processi di interazione con individui o gruppi favorevoli al crimine .

La condotta criminale viene orientata dalle norme e dai valori del gruppo che il soggetto ha frequentato più precocemente e intensamente, e i cui membri egli valuta positivamente. Viceversa , l’assunzione di gruppi di riferimento con valori e comportamenti positivi , può fungere da deterrente dalla criminalità e dai comportamenti devianti.

Sutherland sostiene che ogni individuo può essere guidato nell’ adottare qualsiasi tipo di comportamento e il non riuscire a seguirne uno (ad esempio un comportamento corretto) dipende dalla mancanza di coerenza e di armonia nelle influenze che, guidano lo stesso individuo[1] nell’apprendimento. Con l’espressione “associazione differenziale” egli intende che “i contenuti dei modelli dell’associazione” variano a seconda degli individui ed è il “contenuto” della comunicazione , ciò che costituisce il punto focale dell’interazione.

L’autore parte dal presupposto che il conflitto sia diffuso nella società e sia frutto , in parte , di una società disgregata e frammentata che crea diversi tipi di valori e di interessi , all’interno dei vari gruppi sociali ; alcuni di questi valori , tutelati dalla legge , non collimerebbero con quelli dei gruppi che hanno concezioni e stili di vita difformi dalla legge , entrando in contrasto con le autorità , e facendo registrare alti tassi di criminalità ; tassi che in un primo momento ( prima versione della teoria ) vengono assunti ad indicatori di zone sottoposte a disgregazione sociale , ma che in un secondo ( ultima versione della teoria ) , abbandonato il concetto di “disgregazione sociale“, risultano espressione di una “organizzazione sociale differenziale”dei gruppi .

La teoria risulta articolata in 9 punti :

  1. apprendimento del comportamento criminale alla stessa stregua degli altri comportamenti ;
  2. apprendimento attraverso l’interazione con altri soggetti mediante un processo di comunicazione ;
  3. apprendimento del comportamento criminale all’interno di un gruppo , tra persone strettamente legate tra loro ;
  4. Nel gruppo si apprendono le tecniche di esecuzione del crimine e le motivazioni dell’orientamento ;
  5. Le motivazioni e le pulsioni sono orientate in senso non conforme alla legge ;
  6. Si ha il delinquente quando il soggetto assume atteggiamenti contrari alla legge : quando cioè vi è un eccesso di definizioni a favore della violazione della legge rispetto a quelle contrarie ad essa ;
  7. le associazioni differenziali variano per frequenza, durata , priorità e intensità ;
  8. nel gruppo si sviluppano tutti i tipi di sistemi di apprendimento ;
  9. Se da un lato il comportamento criminale esprime bisogni e valori generali , non può essere spiegato attraverso essi , dato che il comportamento non criminale è espressione degli stessi bisogni e valori .

Uno sviluppo della teoria dell’associazione differenziale è lo studio sociologico delle sottoculture, che offre informazioni sulle dinamiche delle bande giovanili. In questi gruppi, i ragazzi acquisiscono comportamenti e abitudini negative dai compagni con cui interagiscono, sviluppando una sottocultura opposta alla cultura dominante.

Tuttavia, il modo in cui il giovane aderisce al gruppo può essere letto non solo nella sua dimensione negativa, ma anche come espressione di bisogni legati all’identità, alle relazioni.

Il gruppo dei pari quindi può essere visto come una potente forza motivazionale che, se piegata in qualche modo a finalità positive, può fare leva sull’opposizione giovani-adulti in modo non necessariamente negativo, ma anzi costruttivo.

Sutherland[2] ha avuto il merito di dimostrare che la criminalità giovanile non è prerogativa delle classi meno abbienti ma anche di quei contesti familiari dove i problemi risultano irrisori e meno drammatici dal punto di vista esistenziale, separando pertanto il binomio, fino allora ritenuto fondamentale, povertà-criminalità . Ciò comportava, di fatto, una forte critica a tutte quelle ipotesi teoriche che vedevano le cause della criminalità nelle storture di una classe, quella più umile, a trovare i mezzi per conquistare le mete sociali quasi irraggiungibili, proposte dal “sogno americano”. Il fenomeno della delinquenza appariva così per la prima volta nella sua complessità ed estensione : lo si vedeva toccare tutti i gruppi sociali, compresi quelli più alti, benché le sue forme apparissero differenti e variegate.

Possiamo dunque affermare che la questione criminale abbraccia una grande quantità di fattori e comunque non può prescindere dalla valutazione in termini di scelta, rispetto all’azione di chi commette un crimine. Scelta che poi dà avvio al procedimento legale di sanzionamento, compresa la comminazione graduata della pena. Solo in questo modo è possibile sfuggire al pericolo insito nelle ipotesi di tipo deterministico e causalistico, che finiscono con l’assumere posizioni assolutamente assolutorie, considerando la delinquenza come un fatto subito dal criminale, prima che agito da lui in prima persona: su questo piano risultano così incontrarsi sia le posizioni dei sostanzialisti di provenienza positivistica, sia quelle del sociologismo più acritico[3].

Par. 2 Gli sviluppi attuali della teoria di Sutherland : la teoria dei ruoli di Cressey e la teoria dei modelli comportamentali di Glaser

La teoria dell’associazione differenziale , ha subito nel tempo diversi tipi di sviluppo .

Nel corso degli anni ’50 vi fu la tendenza a concentrarsi sulle culture delinquenziali quali strumenti di trasmissione dei valori che conducevano alla criminalità . Ciò implicò la spiegazione di come si formassero le sub-culture delinquenziali , del perché continuassero , delle modalità attraverso le quali trasmettevano i valori . I lavori di A. Cohen , di R. Cloward e L. Ohlin sono esemplificative di questo approccio .

Un secondo tipo di sviluppo , consistette nel ritornare alle influenze sulla teoria , della Scuola di Chicago , spiegando le relazioni di tipo interazionista simbolico all’interno dell’associazione differenziale . Tale prospettiva venne integrata con la Teoria dei ruoli : Cressey[4] , replicando alle critiche che consideravano l’associazione differenziale inadatta a spiegare i crimini passionali e compulsavi , sostenne che il comportamento viene motivato mediante razionalizzazioni e verbalizzazioni apprese . Questo “ vocabolario di motivazioni “ verrebbe veicolato dal “ ruolo “ nel quale un individuo si identifica in un dato momento e poiché l’apprendimento di un vocabolario di motivazioni avverrebbe nella stessa maniera necessaria ad imparare qualunque altro tipo di valori , Cressey riteneva che i crimini passionali fossero riconducibili all’interno della teoria dell’associazione differenziale .

Daniel Glaser[5] , a sua volta , sposò la teoria , al concetto interazionista simbolico di identificazione , in modo da creare l’identificazione differenziale . In questo approccio , Glaser adottò il concetto di associazione differenziale connettendolo all’intensità delle associazioni , specificando che il grado e la forza dell’identificazione con un’altra persona è l’ingrediente chiave per l’apprendimento dei valori : più ci si identifica con un altro individuo , più saremo portati ad accettarne i valori . Questa tesi così , veniva estesa all’apprendimento dei valori anche da coloro che non erano associati DIRETTAMENTE AGLI INDIVIDUI , come ad esempio dai personaggi pubblici , gli attori , gli atleti etc.

La devianza dei gruppi giovanili , sarebbe così il risultato del differenziale esistente tra il sistema di valori e di norme di condotta dei membri del gruppo ed il modo di vita e l’apparato normativo . Le teorie economiche considerano elemento scatenante del comportamento antisociale dei gruppi giovanili lo “ squilibrio economico “ tra le condizioni di vita e di lavoro di questi e quelle degli altri membri della comunità . Le teorie composite individuano la causa della criminalità nella mancata integrazione , dovuta sia a fattori culturali che economici [6] .

Ai tempi di Sutherland , i media non erano pervasivi come lo sono attualmente , per cui l’autore non li considerò come fonte di identificazione , ma se fosse vissuto oggi , avrebbe accettato l’aggiunta di Glaser quale “rivisitazione in chiave moderna “ della sua teoria .

Par. 3 La teoria della cultura delle bande criminali di Cohen.

Molti studiosi hanno cercato di spiegare il fenomeno delle bande attraverso l’analisi del contesto e dell’origine. In particolare la scuola di Chicago ha portato avanti la valorizzazione del concetto sociologico della sub-cultura.

Unendo questi aspetti i criminologi cominciarono così a studiare le bande giovanili e le sub-culture delinquenziali ,dove per “sottocultura delinquenziale” , si intende quella di un sottogruppo ( gruppo sociale dotato di una propria cultura fortemente differenziata rispetto a quella dominante ) che ha una sua particolare visione normativa in contrasto con ciò che la cultura generale considera come legale ; pertanto risulta essere la cultura di un sottogruppo che pur avendo molti valori normativi comuni con altri gruppi , se ne diversifica per quanto attiene certi comportamenti inibiti dalla legge , non qualificandoli antigiuridici .

Nel 1955 si sviluppa la teoria della sub-cultura di A.K.Cohen . L’autore studia il fenomeno nel libro “ Delinqient Boys “ (1955) sostenendo che il fenomeno delle bande giovanili è più sviluppato nei giovani maschi delle classi inferiori rispetto alle femmine e che , le bande giovanili , sono un comune fenomeno di aggregazione. Le sub-culture costituirebbero pertanto un sistema: non utilitario, prevaricatore e negativo.

“La sottocultura criminale, come tutte le sottoculture più strutturate, ha proprie tradizioni, proprio gergale, propri costumi, regole, codici morali, usanze, rituali: l’aspetto che la qualifica è però quello di considerare lecite e non squalificanti certe condotte antigiuridiche che gli altri gruppi sociali reputano invece come illegittime, anche se , la sottocultura può poi condividere con la cultura generale altri complessi normativi (ad esempio i valori familiari, l’amicizia, ecc.). In sostanza, quindi, una sottocultura non può essere totalmente diversa dalla cultura di cui fa parte[7]“.

Secondo Cohen , la ragione principale che sta alle spalle della genesi di fenomeni sociali come questi ha a che fare con le ineguaglianze sociali che certi giovani hanno dovuto subire a causa del loro appartenere a classi sociali meno agiate e poste in posizioni più difficili nella ricerca dei mezzi per raggiungere efficacemente mete sociali desiderate. In tal senso l’ipotesi teorica di Cohen ha origine nelle riflessioni di Merton e nella sua teoria dell’anomia . Secondo Cohen I giovani deviati provano soddisfazione nel causare il disagio altrui e tentano ovviamente di oltraggiare i valori della classe media (ad es.: se la classe media considera disdicevole svolgere un lavoro umile , i giovani deviati , nel caso in cui isolano un membro della classe media , lo scherniscono e lo costringono a svolgere attività umilianti per oltraggiare il suo status).

La spinta alla criminalità, nei giovani appartenenti a classi sociali inferiori , è dovuta principalmente al conflitto con la classe media, che si fa portavoce dei valori dominanti e dalla quale si sentono esclusi ed estraniati. La loro carriera scolastica è più difficile, sono condannati a frequentare scuole pubbliche che non forniscono lo strumentario adatto per accedere a livelli di formazione culturale idonei a prepararli per tentare di risalire sul piano della gerarchia sociale. Hanno molte più probabilità degli altri a vivere insuccessi, frustrazioni, umiliazioni[8].

Cohen sostiene che i primi problemi di status emergono tra i bambini delle classi elementari dove la competizione tra compagni viene alimentata dagli stessi adulti e che proseguano poi nell’età adulta. La classe media sviluppa di conseguenza un senso di reazione ostile[9]:

Di fronte al modello accreditato di adattamento sociale, tipico della classe media, i giovani delle classi inferiori si trovano del tutto sprovveduti e segnati nel loro destino. Per questo motivo possono trovare il modo di condividere la loro dissonanza culturale, cercando di organizzare nuovi rapporti interpersonali, modificando le regole del gruppo, introducendo propri criteri di status , ribellandosi ai valori delle classi medie : la “ soluzione delinquenziale “ si diffonde così attraverso la trasmissione dei valori anticonvenzionali da un giovane all’altro , da una generazione ad un’altra , sviluppando così una sub-cultura della delinquenza permanente che attribuisce uno status ad un comportamento negativo .

La teoria delle subcultura di Cohen è stata anche definita come teoria della tensione o strutturale. La definizione è solo parzialmente appropriata in quanto , se da un lato il conflitto è dall’autore considerato fonte della sub-cultura delinquenziale , dall’altro Cohen “utilizza la spiegazione della struttura sociale formulata dalla teoria della tensione per poi delineare il processo di formazione[10]” della sub cultura attribuendo la responsabilità della formazione delle bande delinquenziali all’impossibilità da parte di certi soggetti , di raggiungere gli obiettivi della stessa classe media.

Par. 4 La teoria delle bande giovanili di Cloward e Ohlin.

Negli anni Sessanta le ipotesi di Cohen sono state riprese e ampliate da R. A. Cloward e L. Ohlin, nella proposta di una teoria delle bande delinquenziali denominata “Teoria delle opportunità differenziali”.

I due studiosi scrivono insieme” Delinquency and Apportunity: A Theory of Delinquente Gangs” (1960) e in questo studio sostengono che per i giovani, la realizzazione delle loro aspirazioni, passa attraverso diversi modi. Nelle aree urbane delle classi inferiori le opportunità sono diverse: sia legittime che illegittime. La stessa posizione sociale determina una diversa capacità di utilizzo di questi canali.

Pertanto le possibilità di autoaffermazione e di promozione socio-culturale non sono equamente distribuite all’interno delle varie classi sociali : chi vive in zone economicamente meno sviluppate ha molti più problemi nel raggiungere le mete delle proprie ambizioni, rispetto a coloro che invece risiedono in zone più ricche di risorse e di strumenti adatti. Secondo Cloward e Ohlin questi fattori rappresentano una limitazione delle opportunità obiettive di riuscita sociale, dove la razza, il ceto, la classe sociale costituiscono i principali elementi di tale impedimento.

I due studiosi sostengono così che il concetto di attività criminale nelle classi inferiori crea una forma di sub-cultura delinquenziale la cui esistenza dipende dal grado di integrazione presente nella comunità[11] e senza la quale ( struttura criminale instabile ) avrebbero meno possibilità di successo utilizzando canali criminali rispetto a quelle che avrebbero utilizzandone di legittimi .

Le bande criminali nascerebbero allora come risposta ai bisogni di aggregazione e di riconoscimento reciproco di questi giovani devianti, costretti al margine dalla società . Sulla base dell‘esistenza di un abuso di sostanze stupefacenti, del ricorso alla violenza o della modalità di esercitare la loro delinquenza i due autori distinguono tre diversi modelli di banda[12]:

a) “Le bande criminali , costituite da soggetti inizialmente dediti alle più comuni attività appropriative illecite , quali furti e rapine , che poi , con l’inserimento nella sottocultura della delinquenza abituale , amplificano e perfezionano la loro attività criminale con l’estorsione , il racket , lo sfruttamento della prostituzione , il gioco clandestino etc. Questi giovani diventano in tal modo criminali professionisti , realizzando una più facile acquisizione degli status symbol proposti dalla cultura della classe media. Queste bande presentano un grado elevato di integrazione sociale.

b)” le bande conflittuali” sono invece dedite alla violenza e al vandalismo sistematico, senza finalità primariamente appropriative, mirando a distruggere i simboli irraggiungibili e ad esprimere così irrazionalmente, con la violenza gratuita appunto, la protesta per esserne esclusi. Effettuano così in tal modo un’aggressione violenta nei confronti del sistema: con l’associazione in queste bande infatti i giovani esprimono una ribellione e un’opportunità che combatte, ancorché secondo modalità del tutto acritiche e irrazionali, gli emblemi e le mete che la società propone. Questa banda è una Comunità disgregata poco organica e composta spesso da criminali falliti.

c) “le bande astensionistiche”, infine, sono composte da quei giovani nei quali la frustrazione ha provocato una fuga che si esprime attraverso il rifiuto globale della cultura stessa, dalla quale cercano di evadere mediante la tossicomania o l’alcolismo. Tali bande sono costituite da emarginati sociali o da soggetti che vengono definiti: “doppiamente falliti[13]”.

Par. 5 La teoria non-direzionale dei Glueck

I coniugi Sheldon e Eleonar Glueck hanno elaborato una teoria criminale detta “Teoria non direzionale”. Secondo questa teoria alle spalle di un giovane criminale c’è una forma educativa che predispone allo scatenamento di un comportamento deviante.

La non direzionalità educativa è rappresentata dalla incapacità pedagogica corretta della famiglia. Incapacità dovuta ad un genitore che non riesce ad assumere un ruolo di riferimento e di guida nel quale un ragazzo possa identificarsi.

Torna quindi a prendere valore l’ipotesi che a predisporre alla violenza esiste uno stile educativo freddo, rigido, oppressivo, tipico della cultura anglosassone. I bambini vittime di questi stili educativi sono costretti a maturare delle fantasie perverse perché sono trascurati, maltrattati e violentati in quelli che sono i loro bisogni fondamentali. I bambini psicologicamente più deboli, non in grado di elaborare un adeguato sistema di difesa verso il mondo esterno o gli adulti che li angosciano, sono costretti a rifugiarsi nelle fantasie e vivere non delle situazioni reali bensì delle situazioni immaginarie in cui sono alimentate vendette e compensazioni.

Le frustrazioni, lo stress cronico, l’incapacità di affrontare i conflitti quotidiani tendono a condurre l’individuo all’isolamento rispetto alla società : l’esilio dal mondo avviene in quanto questo viene percepito come una entità ostile. Si matura una estraneità a tutti i valori sociali ed in modo particolare alle convinzioni morali ed etiche in grado di bloccare ed inibire i comportamenti antisociali.

In base a tale premesse la teoria non differenziale afferma che si hanno comportamenti sociali differenziati in base alla diverse caratteristiche di personalità e in relazione all’ambiente familiare di ogni soggetto[14].

I delinquenti minori rispetto ai non delinquenti della stessa età , riuniti all’interno di gruppi, secondo gli studi dei Glueck sono apparsi diversi per 5 fattori che spiegherebbero la differente condotta :

– fisicamente più robusti;

– caratterialmente più irrequieti, energici e impulsivi;

– psicologicamente più ostili , pieni di risentimento e desiderosi di affermazione ;

– intellettivamente capaci di apprendere secondo modalità concrete e potenzialmente capaci di affrontare il problem solving attraverso un’associazione pratica-teoria rapida e immediata.

  • un’ultima caratteristica dei giovani delinquenti non attiene agli aspetti individuali ma a quelli della loro famiglia di origine : questa si caratterizzerebbe per l’inadeguatezza dei genitori e di tutto l’ambiente familiare . Le famiglie risulterebbero così con scarsa coesione interna , basso livello di aspirazione , scarsi valori sociali e dunque incapaci di trasmettere una buona socializzazione[15].

Da tali risultanze gli autori sono stati così in grado di sviluppare delle tabelle sul rischio di criminogenesi individuale e dei consequenziali indici predittivi di futura criminalità del giovane.

Par. 6 La teoria dell’Etichettamento di Becker e Lemert

La teoria dell’etichettamento si sviluppa negli anni ’60 come nuovo indirizzo della criminologia del conflitto ed ha in Becker[16] e Lemert i suoi maggiori esponenti .

Fondata sulla visione dicotomica della società travagliata dalla continua conflittualità tra la classe lavoratrice , povera e priva di ogni capacità di influenzamento e la classe detentrice del potere , la borghesia , incentra nei seguenti punti i suoi aspetti fondamentali :

  • visione rigida e dicotomica delle classi sociali ;
  • non univoca accettazione delle norme legali da parte dei consociati , ritenute funzionali ai detentori del potere e subite ma non condivise dai gruppi da essi vessati ;
  • valorizzazione del concetto di reazione sociale quale risposta che la cultura imperante ( quella dei ricchi ) mette in atto nei confronti delle condotte devianti mediante la stigmatizzazione , l’emarginazione e le sanzioni penali ;
  • percezione della devianza e della criminalità non quali comportamenti in se riprovevoli , ma quale mero frutto di un etichettamento negativo esercitato dal potere nei confronti delle classi subalterne .

Lemert[17], parte dal presupposto che la devianza è un comportamento che viola le norme di gruppo, un comportamento diverso che in un determinato periodo è disapprovato.

Le modalità secondo le quali viene dimostrata la disapprovazione possono essere varie, tenendo anche in debita considerazione che tutte le persone prima o poi si comportano in modo deviante.

In realtà la questione principale, riguarda la comprensione del perché alcuni individui vengono etichettati come devianti mentre altri non risultano essere tali.

Secondo gli studiosi “la risposta va ricercata nel conflitto di valori e interessi tra i soggetti che hanno il potere di assegnare l’etichetta e coloro che non hanno il potere di respingerla[18]”.

I tecnici del “ labelling approach “ affermano che il deviante non è tale in quanto commette certe azioni , ma perché la società qualifica come tale chi compie quelle azioni : la devianza verrebbe così “creata “ dalla società stessa .

In tal modo la condotta deviante viene intesa come necessaria ed utile alla società che in essa trova il confine ben delineato della propria conformità : il deviante viene “ creato “ per differenziarsene , assurgendo a capro espiatorio , polarizzando contro di sé tutto lo sdegno con il vantaggio di sviare l’attenzione da altre condotte , parimenti dannose per la società , proprie delle classi dominanti , coperte così da una sorta di immunità .

I gruppi sociali creano devianza approvando le norme ed applicandole ad alcune persone etichettate come outsiders : deviante è colui al quale l’etichettamento è stato applicato con successo .

Si parte così dal concetto di Devianza Primaria, che concerne quelle persone che attuano comportamenti devianti per un periodo limitato nel tempo. Per esempio, un individuo facoltoso che dichiara al fisco meno redditi di quelli che percepisce.

Il trasgressore viene posto di fronte all’evidenza di quello che ha compiuto (Punizione Sociale) e questo porta ad una presa di coscienza che lo conduce a sviluppare un nuovo concetto di sé.

In seguito, l’individuo commette nuovamente una azione deviante in conformità alla nuova idea di sé stesso che ha sviluppato (Ulteriore Devianza Primaria).

A ciò segue una punizione più forte ed un allontanamento, che configura una visione di soggetto pericoloso e quindi di etichettamento definitivo .

Tale isolamento conduce allo sviluppo di sentimenti di ostilità e risentimento nei confronti di coloro che attuano le sanzioni.

Si mette quindi in crisi il quoziente di tolleranza , e ciò conduce ad una formale stigmatizzazione da parte della comunità.

Questa seconda fase , è il rafforzamento del comportamento deviante in reazione alla stigmatizzazione ed alle punizioni; in tal senso, ormai le punizioni hanno solo il potere di potenziare maggiormente il comportamento deviante che intendono eliminare.

Il processo di consolidamento della devianza si realizza così attraverso diverse fasi : una certa condotta suscita reazioni sociali di censura , di emarginazioni , sanzioni legali ; la reazione diviene sempre più intensa con il ripetersi della stessa condotta ; chi viene definito deviante tende così a stabilizzare la propria condotta in carriera deviante e ciò comporterebbe l’assunzione di un “ ruolo deviante “ ed il sentimento di identità personale diverrebbe quello di un io deviante .

E’ stata al proposito distinta da Lemert una devianza primaria e una devianza secondaria .

Con il termine devianza primaria si intende una condotta deviante realizzata senza che si inneschino reazioni sociali e psicologiche modificanti il ruolo ed il sentimento della propria identità del soggetto : questi non si vive come deviante ed ha ampie possibilità di rientrare nella conformità .

La devianza secondaria si realizza , viceversa , come effetto della reazione sociale e comporta peculiari effetti psicologici nell’individuo che ha subito tale reazione : egli si percepisce come deviante con conseguente fissazione in tale ruolo .

Nel caso del minore tale concetto diventa la base scatenante del suo rafforzamento criminale. Il minore supera la soglia di tollerabilità sociale iniziando a compiere piccoli reati (es.: furto, borseggio , ecc…). Inizialmente il soggetto risulta non punibile e viene ben accolto nel gruppo sociale deviato. Per la società è però già etichettato come delinquente. Il minore in seguito continua nel gruppo la sua attività criminale e dopo l’assunzione della fase di responsabilità (quando la legge lo considera imputabile) iniziano le prime reazioni ostili contro la società stessa. Egli però ormai assume l’etichettamento di criminale e maggiore è questo fenomeno maggiore è la sua tendenza a riconoscersi esclusivamente nel gruppo deviato.

Capitolo II

Modelli di comportamento delinquenziale

Par. 1 Le condotte Violente

Il gruppo opera un importante influenza sul soggetto giovane: lo inserisce in un contesto che può essere postitivo (in caso di gruppi di ispirazione socio-culturali) o negativo (nel caso del contesto delle bande giovanili. Nel gruppo, inteso in senso negativo, la trasgressività è una caratteristica universale dell’adolescenza, età in cui il rapporto con le regole educative e sociali, di norma, viene messo in discussione. L’aggressività nel gruppo può essere espressione di un desiderio di crescita e di maggiore autonomia ma talvolta diventa sintomo di un disagio individuale, familiare o sociale. Il comportamento antisociale risulta, in genere, un episodio transitorio, ma in alcuni casi esso può rappresentare la prima fase di un processo, il cui esito è la stabilizzazione nella devianza.

La devianza è una categoria socio-psicologica che fa riferimento a tutte le forme evidenti ed evidenziate di trasgressione alle norme e alle regole rilevanti di uno specifico contesto di rapporti interpersonali e sociali.

In particolare, l’analisi del percorso di devianza ha consentito di individuare tre fasi principali, riconducibili altresì al fenomeno della devianza minorile e dell’agire di gruppo: inizio, prosecuzione, orientamento verso la stabilizzazione o, al contrario, interruzione della carriera.

L’inizio è caratterizzato da concetti quali l’occasione favorevole, la suggestione dei vantaggi e delle gratificazioni che si presume di poter ricavare da certi atti, in termini di apprezzamento da parte degli altri e di potenziamento delle relazioni interpersonali, il senso di sfida che accompagna ogni trasgressione, l’autoefficacia percepita attraverso il comportamento trasgressivo. E’ spesso “per caso” che si inizia, tenendo conto che non si tratta di un agire premeditato ma deciso nell’immediatezza del presente. In questa fase, più che mai, il gruppo assume un’importante funzione: è lo specchio delle proprie immagini, diventa lo strumento fondamentale della conferma di sé, il luogo che accoglie, riduce o amplifica i modi di ciascuno di giocare con la realtà delle cose e delle relazioni; è’ un guscio protettivo in grado di fornire giustificazione e convalida ad uno stile deviante di vita[19].

La prosecuzione comporta la scoperta dei vantaggi strumentali e, in particolare, il riconoscimento, da parte degli altri, del proprio saper fare nella devianza. Il minore inizia a considerare le proprie competenze nel settore ed a ricavarne vantaggi economici, ma, il più delle volte, morali. Assapora la soddisfazione dei risultati in occasioni che si fanno sempre più frequenti e che hanno come risultato la

stabilizzazione della condotta deviante.

La stabilizzazione riconduce all’idea dell’incastro: le aspettative degli altri tendono a monodirezionarsi, le richieste, le proposte di azione si orientano a valorizzare la competenza acquisita nella devianza. La persona stessa le riconosce e le utilizza nell’agire trasgressivo mentre, contemporaneamente, sente o teme di non sapere fare altro.

A fronte spesso di molti insuccessi in altre aree di attività (a scuola, in famiglia, nel difficile mondo del lavoro, in sistemi relazionali ad alta conflittualità), la persona si trova a vivere con esito amorevole un luogo, quello della trasgressione penale, dove il confronto tra le attese degli altri, le sfide proposte e le proprie capacità di gestione, appare più semplice ed immediato. Il risultato è il riconoscimento di sé, in proprio e da parte degli altri, come di persona capace.

L’interruzione è una soluzione più volte presa in considerazione dai ragazzi, ma che comporta situazioni di problematicità tali da renderne difficile, se non impossibile, la realizzazione.

Di conseguenza, l’esito del percorso di devianza è, frequentemente, quello della sua stabilizzazione.

Può essere interessante soffermare l’attenzione su quegli aspetti della vita di gruppo adolescenziale che maggiormente contribuiscono al passaggio degli impulsi violenti dallo stato di fantasia a quello di comportamenti agiti. Ci si riferisce, in questo caso, al fenomeno della banda, intesa come “aggregazione patologica” di gruppo, basata su meccanismi di coesione, se non di fusione, che rispondono al bisogno di avallare le proprie frustrazioni, paure o ansie, grazie alla condivisione con quelle degli altri membri del gruppo, mediante l’identificazione proiettiva precoce.

Il passaggio all’azione risulta quindi un atto liberatorio, catartico. La violenza diventa un messaggio che realizza il bisogno di riconoscimento del gruppo in pubblico, uno dei mezzi possibili per catturare l’attenzione dell’adulto.

A volte, con l’atto violento, si raggiunge lo scopo di cementare un gruppo troppo povero di interscambi relazionali e che, grazie alla negatività emotiva che riesce ad acquisire dall’esterno, si riconosce e si unisce affettivamente.

Spesso si generano anche delle forme di protezione, da parte degli adulti, che favoriscono la non visibilità sociale della devianza e che possono agire come “rinforzi” per far reiterare i comportamenti aggressivi.

Ricerche sul numero oscuro nei reati, quella quota cioè di reati di cui le istituzioni non vengono a conoscenza, dimostrano infatti come gruppi di giovani della classe media compiano un numero di reati paritario rispetto a ragazzi di cultura e ceto inferiore, con la differenza di una minore individuazione pubblica[20].

Le tipologie di reati commessi sono differenti a seconda del contesto sociale di appartenenza del minore. La stampa riporta il fenomeno della devianza minorile di gruppo come più diffuso fra i ragazzi appartenenti al ceto sociale medio borghese. Costoro compiono principalmente reati di violenza contro la persona e, in seconda battuta, rapine o furti finalizzati alla ricerca di oggetti status symbol (cellulari, giubbotti, etc.).

Negli ultimi anni è andato crescendo l’allarme per reati compiuti da minori con modalità particolarmente efferate: minori che, in gruppo, lanciano sassi dal cavalcavia, entrano in appartamenti nei quali sono in corso feste private di coetanei compiendo atti di vandalismo e sottraendo oggetti di valore o che, sempre in gruppo, commettono abusi sessuali. Proprio quello degli abusi sessuali rappresenta, da qualche tempo, il reato più frequentemente praticato dalle bande minorili, in concomitanza e forse anche per effetto di una serie di radicali cambiamenti intervenuti recentemente nel rapporto tra i due sessi e dei modelli di comportamento proposti dai mass-media.

La fase adolescenziale è caratterizzata dallo sviluppo sessuale, dalla perdita della sicurezza relativa alla propria identità e la conseguente necessità di ottenere una nuova conferma di sé, dalla tendenza a superare la propria dipendenza dalla famiglia di origine.

In tale processo, gli adolescenti vivono le proprie esperienze sessuali anche come strumento per avere conferma di sé e della propria identità. Se il distacco dalla famiglia avviene troppo presto, l’adolescente può vivere esperienze sessuali molto precoci, basate non

tanto su un desiderio fisico, quanto su quello di ricevere amore, attenzione, affetto e di ottenere l’appagamento del bisogno di intimità che a volte non ha ricevuto in famiglia, giungendo così ad un uso “non sessuale” del sesso.

. In altri casi invece, la sessualità può essere vissuta come modalità per segnalare il raggiungimento di un’autosufficienza affettiva dalla famiglia oppure come strumento di conquista di un’autonomia che risulta difficile, rappresentando quindi per l’adolescente un tentativo estremo per dimostrare ai genitori di “essere diventato grande”.

D’altro canto, la definizione di “violenza sessuale” nel rapporto tra adolescenti è a volte difficile, in quanto la differenza di età tra i protagonisti dell’evento è ridotta e una scarsa consapevolezza, da parte dei soggetti interessati, spesso rende difficile stabilire se, dal punto di vista penale, ricorrano gli estremi di un vero e proprio reato.

Questa tematica solleva lo spinoso problema dell’accertamento e della valutazione del grado di maturità e di capacità critica necessarie affinché il minorenne possa estrinsecare realmente un “libero consenso”: se da un lato non si possono ignorare la spiccata accelerazione dello sviluppo fisico e la precocità della pubertà verificatesi negli ultimi decenni, dall’altro il carattere particolarmente instabile e vulnerabile della personalità evolutiva dell’adolescente richiede una particolare attenzione[21].

I casi riportati dalla cronaca mettono in evidenza come gli abusi sessuali tra adolescenti avvengano , il più delle volte , a danno della compagna di classe, della vicina di casa, della figlia di amici di famiglia. Insomma, alla base, generalmente, esiste una conoscenza più o meno intima tra vittima ed abusante, una conoscenza in grado di influenzare, eccitare la fantasia del minore e di facilitare il superamento della soglia consentita.

Un altro aspetto che emerge in molti studi sugli abusi da parte di minori è rappresentato dal fatto che, mentre i maggiorenni autori di violenza sessuale agiscono generalmente da soli, gli adolescenti compiono frequentemente reati di gruppo.

La tendenza dell’adolescente ad aggregarsi con i coetanei rappresenta una delle esigenze specifiche dell’età ed è generata da molti fattori tra cui, in questo contesto, sembrano assumere particolare rilievo il bisogno di condividere con i coetanei i profondi e fondamentali cambiamenti che riguardano la propria esistenza e, nel contempo, la necessità di superare l’insicurezza che tali mutamenti producono.

Nella ricerca dell’identità, a volte il gruppo può assumere caratteristiche trasgressive ed il giovane può trovare una propria dimensione personale ed una propria affermazione nella disapprovazione da parte della società[22].

In molti casi, d’altra parte, le violenze sessuali compiute in gruppo potrebbero essere spiegate in riferimento alla crisi adolescenziale ed allo sviluppo psico-sessuale, più che sulla base di interpretazioni relative alla formazione di bande delinquenziali.

Infatti, il gruppo di minorenni autori di violenza sessuale deriva spesso da un’aggregazione casuale e difficilmente assume la fisionomia di una banda stabile con obiettivi precisi[23].

Meritevoli di attenzione in questo senso sono gli studi relativi all’influenza del gruppo sulle decisioni comportamentali che i componenti assumono sia singolarmente che assieme.

Esiste un comportamento di adeguamento, da parte dei componenti del gruppo, alle “ attese di ruolo” nel contesto in cui si è inseriti. Di particolare rilievo sono le ricerche che hanno dimostrato come determinati comportamenti abusanti siano agiti solo da alcuni attori del gruppo, con spesso una sola formale accettazione, ma non partecipazione, degli altri componenti del gruppo stesso.

Quest’ultima osservazione ci introduce al problema del bisogno di appartenenza.

Nel gruppo, l’accomunamento si accompagna ad una distribuzione dei ruoli in funzione delle caratteristiche dei singoli, dell’età, dell’esperienza e di altri aspetti della personalità. A volte si tratta di relazioni affettive complesse , in cui l’attribuzione della leadership, e quindi di potere decisionale, non sempre corrisponde al coinvolgimento materiale nell’azione deviante. Il leader, normalmente, incita alla realizzazione della violenza la parte più debole della banda, la più insicura, la più bisognosa di confermare la propria appartenenza e fedeltà al gruppo.

Il leader spesso organizza e guida l’azione, ma si trattiene dal realizzarla, mostrando con ciò di non avere nulla da provare e di aver maggior controllo dell’impulsività dei membri gregari.

Nei reati sessuali, il leader qualche volta si astiene dallo stesso rapporto sessuale: nell’affermare la propria capacità di autogestione, esprime, nei confronti dei propri compagni, forza e padronanza della situazione.

La violenza nasce in modo relativamente improvviso nella mente del gruppo, senza alcuna preventiva progettazione. Il gruppo viene d’un tratto “folgorato” da una sorta di “illuminazione”, da un progetto, proposto da uno dei componenti (quasi sempre il leader), capace di scatenare, nell’animo di tutti, una sorta di eccitazione, che accomuna gli individui in un patto emotivo fortemente vincolante.

Il progetto proposto e l’acting-out da parte del capo branco determinano un riconoscimento implicito della gerarchia di potere, attuano il riconoscimento del dominio sugli altri, attivano il dispiegamento del corredo di potere del leader ed il conseguente rito di assoggettamento-accettazione dei gregari, sempre con una maggiore o minore compartecipazione all’atto.

Di fatto, si incrementa il senso di appartenenza al gruppo e l’aggressività agita viene volutamente esagerata nella sua espressione per far risaltare la richiesta di adattamento-accettazione rivolta a tutti i componenti.

Spesso la gravità e l’antigiuridicità dell’atto commesso vengono ignorate dai ragazzi o, comunque, non sono attentamente analizzate.

Con il costrutto del disimpegno morale, Bandura, ad esempio, riconosce nei meccanismi di dislocazione e di diffusione della responsabilità la possibilità per l’individuo di non riconoscersi responsabile dell’azione commessa, mettendo a tacere il contrasto tra comportamento agito e standard morali a cui il soggetto comunque

aderisce.

E’ abbastanza frequente che i ragazzi che hanno compiuto violenze sessuali o anche, talvolta, i loro genitori o i giornalisti, dicano che si è trattato di una “ragazzata”. “Non credevamo di farle del male”, “stavamo solo scherzando”: sono, queste, le dichiarazioni rilasciate da un gruppo di adolescenti protagonisti di un recente episodio di cronaca che li vedeva abusare sessualmente di una compagna di classe, a scuola, mentre riprendevano il tutto con la videocamera del telefonino.

L’etichettamento eufemistico, che consiste nel dare un significato positivo o migliorativo ad un’azione considerata reato dal codice penale, è una delle varie modalità con cui si esprime il disimpegno morale.

Molti episodi di cronaca vedono i protagonisti dell’abuso sessuale lasciare il luogo del reato con assoluta tranquillità e, subito dopo, incontrarsi negli abituali luoghi di ritrovo, facendo finta che nulla sia successo o addirittura scherzando su quanto accaduto.

Un altro fenomeno ben noto agli psicologi è quello del tentativo di scaricare sugli altri le proprie responsabilità, attribuendole, magari al capo, al leader.

In psicologia, sono stati condotti numerosi esperimenti che dimostrano la tendenza all’ubbidienza da parte dell’essere umano e come l’ubbidienza, talvolta, possa far commettere azioni terribili senza un’adeguata percezione della responsabilità individuale relativa al reato commesso.

Ne deriva, spesso, negli stessi protagonisti dell’abuso, una sorta di confusione nell’attribuzione delle responsabilità, per cui i membri più deboli, e che per dimostrare fedeltà al gruppo o per una sorta di rito di iniziazione, commettono il reato, si sentono vittime degli eventi o, in qualche modo, “meno colpevoli” di chi li ha esortati o obbligati a commettere il crimine.

D’altra parte, il leader si sente spesso meno responsabile, specialmente nei casi in cui non è stato lui l’autore materiale del reato. E’ come se l’agire in gruppo esonerasse i minori dal considerarsi completamente colpevoli per quanto attuato.

La scelta di un agire gruppale potrebbe confermare, in questo senso, che il minore cosiddetto deviante non si muove al di fuori di cornici normative ma, proprio perché le assume a orientamento di condotta, mette poi in atto strategie di autoesonero, volte a costruire coerenza fra ciò che intende fare e quello che ritiene possibile sotto il profilo delle attese sociali..

Generalmente, nel caso dell’adolescente, le condotte antisociali rappresentano un fenomeno transitorio e isolato senza specifici significati psicopatologici, non risultando ancora stabilmente inserite nell’organizzazione di personalità ed essendo spesso legate alla difficoltà di assimilare i cambiamenti in atto[24].

Spesso dunque l’agito sessuale è il segnale delle difficoltà incontrate dall’adolescente nell’affrontare i cambiamenti specifici della fase che attraversa e nell’integrare le componenti aggressive e sessuali con la propria immagine in trasformazione.

In altri casi, si ha l’impressione che si tratti di una problematica presente in un adolescente che non ha raggiunto la capacità di riconoscere l’altro come diverso da sé e che ha una difficoltà ad entrare in relazione con un’altra persona..

In molti casi, la coercizione violenta che hanno esercitato nei confronti di un coetaneo è considerata una questione privata tra pari, di cui possono sentirsi in parte moralmente responsabili ma che non necessariamente considerano un reato.

Vi è pertanto l’irruzione dell’elemento nuovo, rappresentato dal giudizio pubblico, in un’area ritenuta esclusivamente privata, e questo può determinare la perdita di punti di riferimento mentali attraverso cui pensare se stessi.

A volte i ragazzi si sentono vittime della vicenda, anche perché non riconoscono l’altro come una persona con una propria realtà separata e quindi capace di soffrire, così è presente il rischio che si stabilizzino modalità di soddisfacimento perverse che in adolescenza non sono ancora strutturate[25].

E’ importante evitare che il minore sia indotto a far coincidere i tratti distintivi della sua personalità con i comportamenti devianti. L’ingresso nel sistema penale comporta, infatti, un rischio di etichettamento e la conferma di un’identità negativa. Questo potrebbe comportare conseguenze che risulterebbero particolarmente gravi per una personalità ancora in formazione come quella dell’adolescente.

Bisogna quindi lavorare per prevenire l’instaurarsi di questi processi involutivi nella coscienza del soggetto deviante e ciò è senz’altro possibile, in presenza di personalità in formazione e non ancora stabilmente organizzate come quelle degli adolescenti.

Soltanto l’acquisizione di identificazioni più solide e armoniche può infatti facilitare un’evoluzione in senso favorevole per il giovane deviante e può costituire una valida forma di tutela per la società..

E’ dunque particolarmente importante effettuare un intervento che consenta all’adolescente di far leva sulle proprie risorse e di costruire un proprio percorso di vita soddisfacente, senza dover far ricorso a modalità violente per stabilire relazioni interpersonali, e. risulta altresì importante che l’ambiente diventi capace di accogliere e contenere la crisi evolutiva: attraverso adeguati rapporti; si può restituire all’adolescente la fiducia nella possibilità di comprendere il significato simbolico dei propri atti violenti e di risolvere i propri conflitti interni.

Diviene così possibile accompagnarlo in un percorso che gli consenta di trasformare il proprio mondo pulsionale ed elaborarlo in qualcosa di comprensibile e controllabile, per poter vivere esperienze in un contesto relazionale soddisfacente in quanto caratterizzato dal principio della reciprocità. Per favorire tale sviluppo è necessario fornire all’adolescente chiavi di lettura di quanto accade dentro e fuori di sé. A tale scopo occorre creare le condizioni che gli consentano di mettersi in discussione e di analizzare il linguaggio proprio ed altrui, per giungere alla piena accettazione dell’altro, attraverso il riconoscimento, emotivo ed intellettuale, della sua diversità.

Peter Marsh[26] esamina inoltre la subcultura giovanile “ultras” la quale secondo lo studioso possiede regole precise e caratteri propri. “Gli eventi apparentemente disordinati che caratterizzano gli spalti” sono azioni non caotiche né prive di senso essa “è invece strutturata e ragionata[27]”.

L’autore distingue tra “aggro” e violenza: il termine “aggro” indica un’espressione ritualizzata dell’aggressività, che, in complesso, non risulta seriamente dannosa[28]“. La tesi di Marsh è che sugli spalti non si registrano esplosioni di vera violenza in quanto “i tifosi” percepiscono “la natura simbolica degli scontri. Tutti, tranne una o due eccezioni, hanno ammesso che pochi si fanno davvero male. La natura simbolica e, quindi, non intenzionalmente offensiva, degli scontri risalta dall’immagine di ordine e prevedibilità che i tifosi attribuiscono a tali episodi. Sono tutti d’accordo nel ritenere che esistono limiti oltre i quali è opportuno non andare. Questi limiti sono rintracciabili attraverso i riferimenti dei tifosi a violazione di regole, ad esempio quando la gente “impazzisce” o si abbandona ad eccessi d’ira. Lo sconsiderato che rompe le regole deve essere trattenuto dal resto del gruppo che interverrà al momento giusto dello scontro[29]“.

Le norme che guidano i gruppi violenti possono essere sintetizzate in “regole interpretative che stabiliscono quando è opportuno attaccare i tifosi rivali. A livello di gruppo, eventi quali la violazione territoriale e i fatti non puniti sul campo , giustificano tali attacchi. A livello di confronti faccia a faccia esiste una serie ben distinta di criteri per stabilire la presenza di minacce o di sfida[30]“.

L’attacco alla curva avversaria è visto, come un attacco al proprio territorio. Questo necessita di una risposta rituale, di un contrattacco per respingere gli invasori in territorio neutrale. I falli non puniti, similmente a contestabili decisioni arbitrali, hanno il potere di innescare reazioni ed episodi di violenza. Anche un certo tipo di atteggiamento dei tifosi può essere interpretato come minaccia rituale: posture particolari, lo sguardo rivolto diritto negli occhi dell’interlocutore, l’ostentazione di sciarpe o bandiere. La sfida rituale viene quasi sempre raccolta dal tifoso o dal gruppo di tifosi a cui essa è indirizzata. Se così non fosse la “carriera morale” di coloro che vengono provocati sarebbe compromessa. Come ogni società e micro-società anche quella degli ultras “offre una cornice per una carriera morale[31]“. La posizione dell’individuo facente parte degli ultras consiste nel “il miglioramento o la perdita della posizione sociale a cui va incontro un individuo quando si trova a fronteggiare un rischio sociale. Il rischio è l’occasione attraverso cui l’individuo può guadagnare il rispetto o il disprezzo dei suoi compagni[32]“.

Par. 2 Il nomadismo violento

Alcune giovani bande organizzate sono caratterizzate dal nomadismo violento , inteso come annessione violenta del territorio altrui, a livello di tutti gli spazi fisici, relazionali e simbolici.

Attraverso tale annessione si assiste a due fenomeni:

a) la centralizzazione del potere di organizzazione criminale nelle mani dei raggruppamenti, di volta in volta, più forti;

b) lo scontro con opposti raggruppamenti (costituiti anche dalle stesse forze dell’ordine), spesso meno organizzati e con problemi comunicativi a livello gerarchico.

Il nomadismo violento presenta dei notevoli vantaggi: non ha un centro di comando identificabile in modo preventivo; è spesso spontaneamente organizzato attraverso l’uso di sistemi che non richiedono l’incontro del gruppo se non nel momento dell’esecuzione dell’azione; è facilmente occultabile e solo teoricamente prevedibile in relazione a particolari eventi.

La pianificazione di tali gruppi organizzati è dettagliata e , proprio tale attività , non necessita di quello che , a livello militare , viene chiamato “quartier generale” in quanto lo stesso viene considerato come un limite ed un ostacolo, nonché un obiettivo vulnerabile per le forze avverse che , in caso di prevalenza , potrebbero ottenere notevoli informazioni ai fini del perseguimento dei membri dei gruppi violenti. Le decisioni operative sono così preventivamente prese e non richiedono delle rettifiche[33].

Lo scopo di tali membri risulta quello di emergere nel contesto di grandi riunioni ed eventi politici (per dare risonanza all’azione) e raggiungere i loro obiettivi operando come unità indipendenti : il loro obiettivo collettivo e la loro coordinazione rimarranno così non comprensibili sino a quando sarà troppo tardi per un’efficace difesa.

I “ leaders “ dei gruppi sono distribuiti tra i vari “ teams “, che hanno scopi predeterminati (es.: distrarre l’autorità, concentrarne la presenza verso un lato invece che un altro, rendere vulnerabile l’obiettivo).

A Genova, in occasione del G8, sono stati identificati più gruppi differenti in azione, che hanno richiesto tipi diversi di “reclutamento”. Il primo gruppo , quello dei violenti “autentici”, doveva fornire la base di atti “spontanei” per la successiva copertura di altri eventi. In un’operazione sovversiva delle istituzioni di una democrazia , è fondamentale che “il dopo” possa mostrare “giustificazioni”. Per il “reclutamento-formazione” di questo primo gruppo non è necessario inventare, basta “ lasciar filtrare “ dentro la città-obiettivo i gruppi noti per la loro volontà di scontro (ovunque, da stadi a manifestazioni). Per far affluire i gruppi più violenti è sufficiente che in caso di controlli si faccia in modo che vengano fermati i dimostranti pacifici consentendo così l’accesso dei gruppi violenti. Le tecniche utilizzate sono strettamente militari pertanto non si esclude che tali gruppi giovanili possano essere manovrati da soggetti appartenenti alle stesse forze armate o che abbiano una fondamentale esperienza in tale settore [34].Vi è poi il nucleo professionale dell’operazione. Quest’ultimo gruppo è formato da due settori connessi direttamente a chi pianifica l’operazione. Da un lato, i “leader” del gruppo, la cui conoscenza dei veri obiettivi dell’operazione serve a non aver bisogno, come dice appunto il testo, di un “quartier generale” riconoscibile in campo : saranno questi ad utilizzare la dinamica di eventi imprevedibili – ivi comprese le decisioni di responsabili delle forze dell’ordine conducendola nella direzione desiderata ; dall’altro un nucleo di mercenari o truppe irregolari che conoscono però le modalità dell’azione militare : questo settore risulta necessario in quanto i gruppi violenti spontanei possono non avere la necessaria forza d’urto.

I gruppi di “casseurs professionali “, visti in azione a Seattle, come Goteborg e Genova , sono reclutati tra l’underground nostrano o straniero degli hooligans, della “milizia” Usa, dei nazi europei : questi mercenari fiancheggiatori forniscono la capacità d’offesa principale.

Appare chiaro che i gruppi di partecipazione agli atti violenti del G8 non sono semplici bande giovanili con scopi criminali. Il principale scopo che anima i gruppi è di tipo ideologico: “ …quello di sovvertire un ordine mondiale visto in una visione non del tutto umanitaria[35]”.

Sotto lo scopo ideologico si nasconde però l’organizzazione dei leader, che grazie ai moderni mezzi informatici, non richiede un quartier generale, avendo comunque la possibilità di reclutare i membri dei diversi gruppi e dunque una quasi illimitata capacità d’azione .

Par. 3 Aggregazioni criminali

Il gruppo di coetanei, nell’ambito della fase adolescenziale rappresenta un sistema di transizione che conduce il minore o il giovane verso la maturazione di un “io”, all’interno di un determinato ambito culturale. Il gruppo è dunque il collegamento che determina il passaggio dall’infanzia all’età adulta e quindi dalla famiglia alla società. Il contatto con il gruppo assume dunque grande rilevanza proprio in concomitanza con i primi tentativi di emancipazione del ragazzo dalla famiglia: infatti il tentativo di superamento della dipendenza dagli adulti è legato all’instaurarsi di nuovi legami nell’ambito del gruppo dei pari e di nuove regole condivise con i coetanei. Il gruppo crea l’aggregazione attraverso un proprio linguaggio e propri valori orientando atteggiamenti e comportamenti del singolo. Il giovane (minore oppure meno) attraverso il gruppo sviluppa il senso di accettazione all’interno della società specie per soggetti socialmente deboli provenienti da contesti culturali limitanti e psicologicamente fragili. L’appartenenza al gruppo comporta per ogni membro la dimostrazione costante della propria fedeltà determinando quei fenomeni di conformismo e di contagio che caratterizzano i gruppi adolescenziali.

“La delinquenza” giovanile “ affonda le proprie radici in una complessa eziologia: il legame con gli adulti prende forma dalle prime considerazioni familiari, economiche e sociali assai precarie di certe zone. Il contesto sociale ed amministrativo di particolari zone geografiche sembra essere determinante per la genesi del fenomeno[36]”. Per tali soggetti all’interno di questi ambiti “la sacralità del diritto penale non esiste; le norme dettate a protezione delle proprietà individuale e collettiva non sono riconosciute come norme di vita, perlomeno quando i beni appartengono a famiglie in cui ora uno ora l’altro dei componenti vengono a contatto con il carcere[37]”.

Il gruppo può dunque spesso sfociare in un comportamento antisociale e costituisce, in genere, un episodio transitorio anche se , in alcuni casi, esso può rappresentare la prima fase di un processo, il cui esito è la stabilizzazione della devianza[38].

Il gruppo ha dunque determinato l’attenzione degli studiosi “su quella particolare variante della vita di gruppo giovanile che si presta particolarmente al passaggio degli impulsi violenti dallo stato di fantasia a quello di comportamenti agiti[39]…”. “L’immagine che emerge è sostanzialmente quella di un gruppo di giovani (minori oppure meno) che, attraverso azioni commesse insieme, tenta di costruirsi, e parallelamente farsi attribuire dagli altri, un’identità sia pure deviante[40]”.

. Attraverso l’interposizione del gruppo le autorità e in generale il controllo della società, non riescono ad individuare le responsabilità individuali.

Questo non esclude però le responsabilità penali . In particolare tutti gli atti di violenza che trovino un limite all’interno della norma penale, nel rispetto del principio di legalità, sono sanzionati penalmente e determinano la responsabilità dei membri del gruppo attraverso l’istituto giuridico del concorso di persone nel reato o in più reati.

L’uso della locuzione «concorso» per il reato commesso da più persone è piuttosto recente[41], rivelando una sintesi di varie attività che anteriormente si stimavano del tutto autonome (mandato, consiglio, aiuto, ecc.). Essa ha indicato in origine il contributo che un soggetto arreca al fatto di un altro, il prendervi parte.

E’ precisamente questo il concetto tecnico del concorso ancora accolto ad esempio nella dottrina tedesca. Vi appartengono l’istigazione e l’aiuto (concorso in senso stretto). Taluni configurano anche un concorso in senso ampio per includervi la figura del coautore.

Nel sistema francese, il termine «concorso» non è sempre adottato nel menzionato significato tecnico, ma esprime la generale partecipazione di più persone ad un fatto (coautori, esecutori, ecc.). All’interno di essa si distinguono, poi, i gradi della correità (partecipazione principale) e della complicità (partecipazione secondaria). Già da questa diversità terminologica — secondo Pecoraro Albani — può avvertirsi una duplicità di indirizzi[42].

Il primo indirizzo è quello del sistema francese nel quale prevale lo schema della societas criminis, un blocco unitario, fondato sull’accordo dei partecipi, entro il quale si tiene conto, ai fini della pena, della qualità della condotta (correità e complicità), ma non si conferisce autonomia alla istigazione ed all’aiuto, che sono soltanto forme di partecipazione ; mentre il secondo indirizzo è quello tedesco dove il fenomeno della societas criminis è tradotto nella particolare figura dei coautori (§ 47), i quali sono puniti tutti allo stesso modo, indipendentemente dalla entità del contributo arrecato e dell’azione apportata[43].

Il fenomeno criminale delle bande giovanili è un sistema che rivela una mancata protezione psicologica dei minori di fronte agli adulti: il gruppo favorisce la non visibilità sociale, pur non garantendo la non punibilità penale. I singoli membri agiscono e reiterano i comportamenti aggressivi. D’altro canto però all’interno di tale ambito, è possibile che , pur essendo perseguibili i singoli membri del gruppo per lo stesso reato in funzione del concorso di persone, comunque questi comportamenti non sempre vengano a conoscenza dell’autorità giudiziaria. In particolare da un non recente studio si è evidenziato “come gruppi di giovani della classe media compiano un numero di reati paritario rispetto a ragazzi di cultura e ceto inferiore, con la differenza di una minore individuazione pubblica[44]”.

Il contatto tra adolescente e gruppo si realizza nel momento in cui il primo inizia a dissociarsi dalla famiglia per iniziare un percorso di emancipazione del ragazzo dalla famiglia. Questo porta al superamento “della dipendenza dagli adulti”e ciò “ risulta agevolato dall’instaurarsi di altri rapporti e dall’adesione a nuove regole condivise con i coetanei[45]”.

Il gruppo elabora e fornisce ai suoi membri un proprio linguaggio, e propone anche altri valori, capaci di orientare gli atteggiamenti e i comportamenti del singolo, al fine di colmare carenze affettive dei membri[46].

L’appartenenza al gruppo implica, come si è sopra visto, il rispetto di regole prestabilite e dimostrazioni di fedeltà.

La sussistenza di questi valori e il rispetto degli stessi consente ai componenti del gruppo di provare la soddisfazione di sentirsi autonomi.

Gli studiosi hanno individuato quali elementi espongono al rischio, per un adolescente, di entrare all’interno delle bande giovanili. Questi vengono identificati nei rapporti familiari , scolastici , nel gruppo dei pari, ma anche nella storia personale dei singoli individui . Fattore determinante risulta comunque essere un basso livello di integrazione del soggetto interessato.

Una forte carenza scolastica determina l’impossibilità di colmare gli svantaggi familiari e in tal senso gli studiosi affermano che “la relazione con l’ambito scolastico risulta generalmente conflittuale sia dal punto di vista dell’apprendimento si per quanto riguarda l’integrazione sociale. Sono ricorrenti casi di mortalità scolastica, di abbandono del mondo della scuola percepito come lontano, estraneo, nemico e le carriere scolastiche sono segnate da un rilevante tasso di bocciature[47]”.

Il problema dell’inserimento del minore nell’ambito scolastico presenta due tipologie di problemi: il bambino che presenta un vero handicap e il bambino che pur non avendo alcuna patologia comunque ha difficoltà di inserimento, di apprendimento e tendenzialmente è potenzialmente protratto verso l’abbandono scolastico senza un adeguato intervento.

Mentre il primo è stato nell’ultimo decennio oggetto di vari interventi del legislatore[48], il secondo è rimasto all’interno della sfera di studio della pedagogia, psicologia ed altre scienze.

Per quanto riguarda l’individuazione di disagi sociali, difficoltà di inserimento e di apprendimento non legate a vere e proprie patologie che rientrino nella definizione di portatore di handicap, la legislazione scolastica risulta carente. Inoltre, come sottolinea anche l’orientamento giudiziario, la scuola è spesso l’ultimo posto nel quale viene osservato il minore nelle sue vere problematiche che possono condurre nel migliore delle ipotesi all’abbandono scolastico ed ad un eventuale inserimento lavorativo, mentre nella peggiore delle condizioni, all’avvio verso l’inserimento all’interno della microcriminalità[49].

Il gruppo consente dunque all’adolescente di vivere una nuova situazione, “caratterizzata dalla sensazione gratificante Il gruppo consente dunque all’adolescente di vivere una nuova situazione, “di essere ormai fuori da uno stato di soggezione vissuto con crescente insofferenza o, comunque, di essersi affrancati dal potere di controllo degli adulti. Questo senso di ritrovata libertà espone gli adolescenti al rischio della devianza e determina le condizioni in cui il gruppo può facilmente trasformarsi in banda[50]”.

Accanto al problema scolastico vi è il problema familiare. Nella famiglia, la povertà, l’assenza dei genitori biologici, un rapporto parentale non adeguato, uno scarso controllo da parte degli adulti sono i fattori che, in genere possono far aumentare le probabilità di entrare a far parte di una gang.

Tra i fattori di rischio individuali, invece, sono stati individuati l’insufficiente autostima, la presenza di sintomi depressivi, la frequenza di numerosi eventi negativi esistenziali ed il facile accesso agli stupefacenti.

Il proliferare del fenomeno ha indotto gli studiosi ad approfondire il problema dei gruppi di adolescenti, inseriti nell’ambito delle bande minorili e, in particolare, sui gruppi dediti a commettere reati di vario genere o, comunque, caratterizzati da comportamenti antisociali[51].

Questi gruppi vengono comunemente indicati con il termine di “baby gangs”.

Le “gangs” sono apparse per prime in Europa, ma gli studi sul tale fenomeno sono nati, in modo preliminare, negli Stati Uniti, dove le “gangs” hanno cominciato a diffondersi dopo la rivoluzione americana e si sono sviluppate a partire da gruppi di adolescenti dediti a qualche attività di gioco o sportiva o come risposta collettiva alle condizioni urbane del Paese dopo il conflitto. Tali “gans” o “bande giovanili” sono costituite da una fascia di età compresa tra i 12 e i 24 anni, ed hanno una notevole presenza femminile. “Gli studi statunitensi più recenti sulle bande giovanili tentano di spiegare l’atto di adesione dei consociati come una scelta razionale e pienamente consapevole[52]”.

L’adolescente, vittima dei disagi sopra descritti si rifugia all’interno della banda giovanile per acquisire quell’indipendenza economica necessaria al fine di distaccarsi o affrancarsi da tali problemi sociali. Di conseguenza l’entrata in un gruppo di giovani delinquenti sarebbe, quindi, in molti casi, assimilabile ad una vera e propria scelta lavorativa.

La realtà italiana si differenza da quella degli Stati Uniti in quanto secondo i criminologi nordamericani esistono delle differenze tra il “group delinquency” e la “gang delinquency”.

La prima può essere infatti definita come criminalità praticata

da gruppi di durata temporanea, costituiti sulla base di alleanze di

breve periodo. La seconda è invece una forma di delinquenza praticata da persone associate in organismi complessi, ben strutturati, con leader ben identificabili e con una organizzazione che prevede una divisione del lavoro, regole chiare e riti condivisi da tutti i membri[53]”.

Il fenomeno italiano rispetto alla realtà americana appena descritta, presenta delle caratteristiche esistenziali diverse e in particolare si tratta di gruppi di giovani annoiati che cercano di impegnare il tempo per potersi divertire. I gruppi sono costituiti in genere da compagni di scuola, ragazzi che hanno come denominatore comune il luogo di ritrovo[54]. La realtà italiana evidenzia però che se negli Stati Uniti esiste un problema di condizione socio economica determinante che spesso è l’elemento aggregante delle stesse bande giovanili, il fenomeno in Italia non necessariamente investe fasce socio-culturali disagiate. Tali “gruppi non hanno comunque le caratteristiche della banda organizzata sul modello militare, con una gerarchia e un modello di leadership esplicito e condiviso o un funzionamento caratterizzato dal conflitto per il predominio sul territorio, come accade nei gruppi giovanili devianti di altri Paesi[55]”. In Italia le bande giovanili di tipo delinquenziale presenti negli aggregati urbani metropolitani è un fenomeno quasi isolato. Solitamente, per i casi più gravi legati a contesti geografici, queste sono legate ad organizzazioni di stampo mafioso ed il loro operato deve essere rapportato all’ipotesi delittuosa contemplata dall’Associazione mafiosa ex art. 416 bis del c.p.. Diverse sono invece le ipotesi di bande giovanili diventate tali attraverso una semplice frequentazione durante il tempo libero , in luoghi di ritrovo abituali. In questi casi l’attività criminale risulta essere frutto della ricerca di un divertimento che degenera in ipotesi di reato.

Par. 4 Il minore e l’organizzazione criminale

Per “minore” si intende un individuo che non ha ancora compiuto la maggiore età( i diciotto anni) e che pertanto risulta imputabile, cioè passibile di sanzioni penali, solamente se autore di reato , con età compresa tra i quattordici ed i diciotto anni .

Tutto quel complesso di atteggiamenti che un individuo assume come propri, in relazione alle varie situazioni in cui si trova ed agli stimoli esterni, cioè ambientali, che si ripercuotono su di esso, provocando delle specifiche ed a volte impreviste reazioni, viene invece definito come “condotta”. Bisogna sottolineare, altresì, che siccome i comportamenti di un soggetto risultano essere l’espressione dello status della propria psiche, la condotta dell’uomo viene inevitabilmente dettata dalla strutturazione della propria sfera interiore.

Per “criminalità minorile”, invece, si intende l’insieme dei fatti che portano al reato i giovani nella suddetta fascia di età. Per comprendere il significato del concetto di criminalità minorile, occorre distinguere tre differenti tipologie : vi è una criminalità minorile fisiologica, intesa come una condotta deviante che, nella maggior parte dei casi, è destinata a riassorbirsi con l’ingresso dei giovani nell’età adulta. Esiste una criminalità minorile patologica endemica che è quella che si concretizza nel momento in cui un minore viene coinvolto nella criminalità organizzata. In ultimo, vi è una criminalità minorile patologica epidemica, relativa ai minorenni stranieri, residenti nel nostro Paese, che sono indotti al crimine in età precoce molto spesso perché vissuti in contesti di marginalità, conflitti culturali, disadattamento e deprivazione[56].

Il concetto di “devianza” nel corso del tempo risulta essere in continua evoluzione . Ne consegue che occorre valutare cautamente non solo quei comportamenti che non rispecchiano norme e valori sociali , ma anche quelli che non sono in evidente contrapposizione con queste ultime a tal punto da essere stigmatizzati con il termine di criminalità.

La devianza minorile può essere considerata anche come un tentativo di comunicazione fra giovane e società dalla quale si attendono delle risposte, come il controllo sociale, le quali, a loro volta, si rivolgono nuovamente al giovane stesso.

La peculiarità di questa interrelazione, definita dal De Leo come “azione deviante comunicativa[57]”, risulta di estremo interesse in quanto prevede il coinvolgimento del minore stesso.

Non bisogna, comunque, confondere o unificare il concetto di devianza con quello di criminalità, riservando al primo solamente quelle condotte contrarie all’opinione pubblica.

Uno studio accurato del fenomeno della criminalità giovanile offre spunti di riflessione anche da un punto esclusivamente quantitativo, in quanto può essere distinto in reale ed ufficiale: tale differenziazione viene dettata dalla necessità di prendere inevitabilmente in considerazione il cosiddetto numero oscuro che rappresenta tutti quegli eventi delittuosi non denunciati e di conseguenza non registrati.

Le motivazioni che alimentano questo fenomeno sono svariate ed oscillano dal perdono all’occultamento del misfatto perché il reo, per esempio, può appartenere ad una famiglia che ricopre una certa importanza sociale e pertanto interessante a non essere coinvolta in pubblici scandali.

Il numero oscuro si modifica in base alla tipologia del reato: esso diminuisce, per esempio, per la maggior parte di quei reati che, a causa della risonanza sociale o per gli interventi economici correlati, sono più frequentemente denunciati come l’omicidio o il furti d’auto; mentre aumenta nel caso della violenza sessuale, che viene celata o per vergogna o per paura di avanzare una querela.

Un’attenta analisi del fenomeno della criminalità giovanile non può prescindere solamente dall’esame dei fattori che sono alla base di una personalità criminale ma deve tenere in considerazione anche l’ambiente in cui essa si sviluppa[58].

Risulta estremamente riduttivo ed errato ritenere la criminalità quale semplice espressione di fattori biologici, innati o acquisiti dall’individuo, in quanto si escluderebbe qualsiasi responsabilità da parte di una società colma di contraddizioni ed iniquità, oppure espressione conseguente dei mali e delle ingiustizie dell’organizzazione sociale: in tale modo, il delinquente risulterebbe solo una vittima, senza che gli venga riconosciuta alcuna responsabilità della scelta e delle decisioni da assumere per caratterizzare la sua condotta che, d’altro canto, risulterebbe libera da ogni vincolo decisionale personale[59].

Per quanto attiene alle cause ambientali o sociali , è possibile affermare che la condotta di un individuo non è immune dall’influenza esercitata dalla cultura, dai costumi, dalla religione e dal livello economico della società, soprattutto nel caso del minore che risulta essere un individuo altamente recettivo e sensibile agli insulti esterni, molto più facilmente influenzabile dell’adulto, dal momento che egli presenta una condizione psico-fisica in piena evoluzione.

L’ambiente socio-culturale, dunque, in cui avviene la maturazione del minore incide non indifferentemente sulla strutturazione della sua personalità nonché sulla formazione di un eventuale comportamento antisociale, in quanto, per esempio, la stessa struttura familiare si sviluppa in modo differente in un centro urbano o rurale, oppure in una regione del Nord, del Sud o del Centro.

Si è potuto constatare inoltre che, ove l’ambiente socio-culturale sia caratterizzato da un basso livello di istruzione e da precarie condizioni economiche, lo sviluppo della personalità verso una direttiva antisociale del minore è molto più rapido e certo.

Nella famiglia però possono concentrarsi diversi elementi che inducono alla formazione criminale del giovane.

Si possono verificare diverse situazioni di instabilità familiare: la dissociazione familiare, dovuta alla rottura dell’unità coniugale a causa della morte di uno o di entrambi i genitori, o come conseguenza della loro separazione o per assenza da parte di uno dei due coniugi per ricoveri ospedalieri prolungati o per detenzione; la disunione familiare, caratterizzata esclusivamente dall’apparenza di una famiglia unita ma nella quale ormai non esiste più affiatamento tra i genitori che decidono di continuare a stare insieme solamente per amore del o dei figli; la carenza affettiva, determinata da un nucleo familiare in cui, a causa di un qualsiasi motivo, viene meno oltre all’amore tra i genitori anche quello verso i figli[60].

Di pari passo allo studio della condizione del nucleo familiare, va effettuato quello delle varie figure dei suoi diversi componenti che vanno ad incrementare l’influenza sulla strutturazione dell’identità del minore.

Riguardo all’importanza della figura materna, si può affermare con certezza che essa è di primaria valenza, in quanto rappresenta per il minore un vero e proprio punto di riferimento sia per la sua sopravvivenza che per la formazione della propria personalità. Infatti, il rapporto madre-figlio è sicuramente il più saldo e più stabile dal momento che la madre rappresenta la prima esperienza conoscitiva del bambino.

L’alterazione del rapporto padre-figlio, a causa della mancanza d’affetto o dell’assenza del primo, determina l’insorgenza di notevole insicurezza nel bambino che si sentirebbe privato anche del modello stesso di forza e virilità.

A fronte di quanto finora esposto anche un comportamento eccessivamente iperprotettivo e soffocante potrebbe determinare uno sviluppo psichico frustrato, in quanto il bambino non riuscirebbe a strutturare una identità alquanto autonoma e stabile.

Notevole rilevanza hanno, peraltro, i rapporti del minore con eventuali fratelli oppure il fatto di essere figlio unico, primogenito o ultimogenito, perché l’eventuale presenza di quelli potrebbe causare situazioni di gelosia o di malumori ingiustificati, dal momento che ogni figlio potrebbe sentirsi amato meno di un altro, oppure, se unigenito, potrebbe sentirsi investito di troppe responsabilità, superiori a lui stesso.

Altro fattore discriminante per la formazione della sfera psichica del minore, legato al nucleo familiare, è costituito dalla situazione economica della famiglia[61].

Infatti, nel caso di un basso livello economico, è ben compatibile l’assenza di un ambiente sereno, affettuoso e stabile, in quanto si creano situazioni di disagio nel minore che è costretto a vivere in modo precario, privato per esempio di un’alimentazione corretta e sufficiente oppure costretto a lavorare già da piccolo per favorire il proprio sostentamento e quello della famiglia; per fare ciò, nella maggior parte dei casi, egli deve abbandonare gli studi oppure si può verificare l’eventualità che, ove comunque la famiglia continuasse a far studiare il minore, a causa dei numerosi sacrifici, egli potrebbe sviluppare sentimenti di vergogna nei confronti dei suoi coetanei o di incertezza ed estremo disagio, perché si sentirebbe, oltremodo, investito della necessità di raggiungere obbligatoriamente dei risultati per non deludere e/o vanificare i sacrifici dei propri genitori.

Un secondo nucleo, formativo del minore è rappresentato dall’ambiente scolastico che costituisce il primo sistema ufficiale della società in cui si instaurano i primi rapporti extrafamiliari ed i processi di socializzazione. Risultano quindi non solo le modalità con cui tale ambiente si propone al bambino ma anche il modo su cui egli vive i rapporti interpersonali al fine di sviluppare un nuovo concetto del mondo che lo circonda, in maniera positiva o negativa.

Il mondo scolastico riveste una grande importanza perché costituisce nel confronto con i coetanei un “momento di verifica”, da parte del bambino, della sua normalità o diversità.

Un altro importante fattore di influenza sullo sviluppo psichico del minore è rappresentato dalla disorganicità stessa della società, inadeguata cioè ad offrire ai minorenni certezze, valori stabili e la capacità di regolamentare e controllare le condotte criminali. È sempre in questo quadro “di insufficienza sociale” che il minore, frequentando una società che gli permetta di conoscere il comportamento delinquenziale, può decidere, per propria volontà o meno, di imitare o seguire tali condotte. Nasce così l’esigenza di riunione in bande criminali giovanili, sul quale fenomeno si è sviluppata una vera e propria teoria, quella delle “bande delinquenziali” , secondo la quale i giovani, appartenenti ai centri urbani popolari, gravitano intorno alla delinquenza quando scoprono di non poter più raggiungere il successo nella società attraverso il rispetto delle sue norme.

Solo attraverso tali elementi è possibile comprendere come il minore risulti coinvolto all’interno dei gruppi di criminalità organizzata. Il primo elemento utile al loro coinvolgimento è la non imputabilità del minore di età sino all’età di 14 anni( presunzione assoluta di non imputabilità ) e l’eventuale imputabilità del minore tra i 14 e i 18 anni in base alla valutazione del giudice( presunzione relativa di imputabilità).

La criminalità organizzata studia il minore che vuole inserire nel suo contesto: in alcuni casi avvicina minori con difficoltà familiari, socio-economiche, che manifestano particolari attitudini sia di studio che di vita. Nel primo caso promuove il loro proseguimento negli studi e gli interna nel complesso criminale al fine di poter contare su soggetti che la stessa organizzazione criminale ha creato. Nel secondo caso il minore è utilizzato per la sua non imputabilità al fine di commettere crimini senza coinvolgere l’organizzazione criminale.All’interno di questa logica nasce il delitto di associazione mafiosa.

L’appartenente alla cosca mafiosa gode della protezione della stessa organizzazione, la quale è improntata sul principio della segretezza. Vi accedono solitamente , ma non necessariamente, membri di famiglie già appartenenti all’organizzazione, attraverso riti di iniziazione. L’organizzazione oltre ad essere gerarchica è basata sulla struttura economica. “La decisione di appartenervi è lasciata alla motivazione individuale, la quale tuttavia può risentire delle pressioni sociali dell’ambiente circostante “.[62]

L’organizzazione mafiosa è un’associazione volontaria, svincolata in via esclusiva dai legami di tipo ascrittivi e la segretezza è il fondamento delle relazioni tra gli appartenenti . Le sanzioni esistenti all’interno dell’organizzazione servono sia come elemento deterrente contro la violazione del segreto , sia per riaffermare le regole interne.

I caratteri della cultura mafiosa sono stati oggetto di diversi studi specialmente nel contesto giovanile e minorile. In particolare tra gli anni ’50 e gli anni ’70 si verifica una profonda trasformazione della mafia siciliana che ha abbandonato il settore dell’agricoltura e si è dedicata a quello dell’industria e del commercio. Negli anni ’70 il contrabbando di sigarette si è trasformato in contrabbando di sostanze stupefacenti e in traffico di armi. In questo periodo la mafia si organizza per infiltrarsi all’interno dei mercati finanziari.

I valori di fondo nonostante l’evoluzione restano immutati: “ il nucleo di questa cultura si caratterizza per la forza intrinseca di consuetudini profondamente radicate che consentono lo sviluppo del giovane solamente entro le regole tradizionalmente stabilite “.[63] “ I giovani arruolati possono accedere solo ai gradini più bassi della piramide, percorrendo un vero e proprio itinerario delinquenziale che porterà solo i più bravi e determinati ad inserirsi stabilmente, avendo superato tutti gli esami nella criminalità organizzata”[64]. Non sempre i giovani che entrano a far parte delle organizzazioni malavitose appartengono alle famiglie dello stesso ambito. I giovani attraverso un percorso di esperienze criminali e riti iniziatori, intraprendono un indirizzo “deviato” con la supervisione di delinquenti esperti. Per i minori che entrano a far parte dell’organizzazione mafiosa la violazione della legge rappresenta “un valore simbolico” in tal modo si dimostra di essere maturi e di essere legati alla causa del clan. Per l’imputazione di associazione mafiosa i minori sono sanzionati meno severamente dalla legge penale, mentre l’infraquattordicenne è addirittura non imputabile, e rappresenta dunque un soggetto ideale da coinvolgere ed eventualmente da rendere autore degli stessi reati . Ciò li rende particolarmente utilizzabili dall’organizzazione mafiosa, sia in quanto facilmente manovrabili e soggiacenti alle regole dell’organizzazione sia in quanto, se imputabili, incensurati e perciò stesso usufruenti di procedimenti speciali preclusi ai delinquenti abituali.[65]

Le organizzazioni mafiose nazionali non sono le uniche a coinvolgere nella propria struttura minori. Il fenomeno è infatti diffuso anche nelle mafie internazionali e nell’ambito del problema dell’immigrazione clandestina.

I paesi Europei in particolare si sono dotati di specifiche legislazioni in tema di immigrazione al fine di contenere il fenomeno degli ingressi clandestini.

In Italia il permesso di soggiorno per lavoro ha subito una serie di importanti innovazioni, indotte dalla necessità di vincolarne la durata e l’efficacia alla effettiva sussistenza dell’esercizio delle prestazioni di lavoro per cui viene rilasciato.

Tali restrizioni, aggiunte alle precedenti attraverso le norme (la legge Martelli e la legge Turco-Napolitano[66]), hanno determinato la gestione del traffico dei clandestini ad opera di organizzazioni mafiose che hanno teso allo sfruttamento degli stessi immigrati[67].

La condizione del minore in tali condizione è risultato di duplice rilevanza : da una parte è colui che non è imputabile per la legge italiana e dall’altra è colui che più facilmente può subire lo sfruttamento di tali organizzazioni. Da una parte è considerato un reo , dall’altra è una vittima, in quanto le organizzazioni mafiose consentono l’entrata in paesi stranieri, forniscono vitto e alloggio, documenti alterati o contraffatti per il viaggio ma chiedono in cambio l’agevolazione della propria attività nel territorio d’ingresso del minore.

Tale fenomeno è altamente presente nello sfruttamento della prostituzione ma rappresenta anche per l’emigrato straniero un elemento aggregante tra connazionali. Il minore posto in contesti sociali precari a livello economico può dunque essere merce di scambio per dette organizzazioni, ma anche membro attivo e volontario associato, in quanto egli trova difficoltà nell’inserimento all’interno del paese ospitante e spesso viene indotto all’attività criminale proprio attraverso la coesione con i propri connazionali. Tra le organizzazioni criminali , negli ultimi anni , particolare rilievo sembra essere rivestito dalla Stidda considerata la quinta mafia. Costituita da giovani d’onore fuoriusciti dalla famiglia originaria, ed espressione della principale attività criminale giovanile.

Certamente questo fenomeno criminale è di tipo eterogeneo, nel senso che gli affiliati operano all’interno di singoli gruppi, la cui attività è circoscritta nelle zone territoriali di appartenenza. La rete organizzativa della Stidda inizialmente non aveva un tessuto criminale organizzato, o confluente in centri di potere politico o economico oltre l’ambito locale, e solo attraverso il coinvolgimento di giovani provenienti dai diversi clan mafiosi, ha potuto sviluppare la propria organizzazione, sulla base della stessa struttura[68].

La Stidda si è però alimentata economicamente attraverso quelle attività che la mafia non considerava dignitose: come ad es.: la prostituzione e il gioco d’azzardo.

Significativo per tale organizzazione è il fatto che essa non si dissocia nella sua struttura rispetto alla mafia ma essa rappresenta un nuovo fenomeno criminologico. I giovani facenti parte delle cosche mafiose hanno acquisito settori che in passato non competevano alla mafia.

Il traffico degli stupefacenti, la prostituzione e il gioco d’azzardo erano considerati dalla mafia attività disonorevoli, sui quali non si doveva operare alcun lucro. Le nuove faide interne hanno condotto le giovani generazioni verso l’acquisizione di tali quote di mercato criminale attraverso l’instaurazione di una rete di collegamenti simile a quella mafiosa e molto meno ristretta a livello regolamentare.

Un uomo d’onore non poteva nella mafia usare sostanze stupefacenti ne divorziarsi, ne gestire la prostituzione e in particolare quella minorile[69].

Tali tabù ideologici-criminali sono ormai abbattuti nella Stidda e nel Nord, e indagini hanno rivelato che la Stidda non si limita a gestire le attività tradizionali (dallo spaccio alle estorsioni acquisite negli anni 90’) ma organizza bande di rapinatori, confermando così la maggiore capacità, rispetto a Cosa nostra, di imporre l’egemonia criminale nelle aree in cui le condizioni socio-economiche sono più favorevoli. Al Nord, appunto, ma anche nella Sicilia sud-orientale, dove la crescita economica è riconducibile al “modello emiliano”. È in queste aree a più alto tasso di sviluppo che si è verificato un fenomeno originale e allarmante: i gruppi locali tendono a diventare criminalità organizzata e la criminalità organizzata , mafia .

Par. 5I giovani e le droghe. Il fenomeno debri trovano sostegno e protezione,.La sostanza stupefacente inoltre crea dipendenza dai soggetti che la

procurano e smerciano. Pertanto l’appartenenza al gruppo e l’uso di queste sostanze garantisce agli stessi spacciatori il proprio mercato di distribuzione. La vita delle bande diventa in questo modo regolata da norme di comportamento e di linguaggio che variano in base al sesso, all’età, alla classe sociale, al gruppo culturale e al temperamento dei singoli membri, e supera ogni delimitazione se, oltre a tali elementi esiste un elemento aggregante quale le sostanze stupefacenti che creano dipendenza.La banda giovanile è dunque il luogo dove non solo ci si procura la

sostanza stupefacente ma anche nel quale si opera la distribuzione attraverso l’utilizzo di soggetti che sino all’età di 14 anni non sono, imputabili e successivamente comunque sono coperti da una certa tutela giuridica di cui non usufruisce il maggiore di età.Sono soggetti generalmente dediti: a scippi, furti, rapine, estorsioni, detenzione di armi, spaccio di droga, omicidi e violenze sessuali . La società, ma soprattutto la scuola, non è stata ancora in grado di dare una risposta efficace in merito al fenomeno, non solo in termini di rieducazione e di sostegno sociale, ma soprattutto in termini di prevenzione. L’organizzazione criminale tende allo sfruttamento di tali bande giovanili in quanto consentono il traffico di droga attraverso soggetti che sono sostanzialmente manovrabili e ricattabili. Inoltre i minori di anni 14 godono delle riserva penali circa l’imputabilità mentre gli infradiciottenni sono soggetti sostanzialmente incapaci di creare dei veri e propri problemi all’organizzazione criminale organizzata (es

mafia, camorra ecc…) ma solitamente sono capaci di imporsi come leader del gruppo e operare la guida della banda secondo lo scopo criminale prefissato (es.: trasporto di droga, diffusione di droga nell’ambito territoriale, creazione di un mercato locale e dei punti di ritrovo sostanzialmente anonimi e non conosciuti dall’autorità di polizia).La diffusione del consumo di droghe , specialmente fra i gruppi di età più giovane , è un fenomeno che ha interessato il mondo occidentale solo da una trentina d’anni . Nell’800 e fino al 1960 tale problema esisteva solo in termini marginali ( ipotesi di disadattamento o di intellettuali divenuti cocainomani , assuntori di hashish frequentando sofisticati ambienti artistici , ovvero ancora , soggetti che avevano facile accesso agli stupefacenti per ragioni professionali , quali ad esempio medici , infermieri etc. ) ed ancora non si era sviluppata la gestione del commercio e della produzione da parte della grande criminalità organizzata . Con l’esplodere , prima negli Stati Uniti e poi anche in Europa , dell’ampio fenomeno della contestazione studentesca , il consumo delle sostanze psicotrope è andato rapidamente estendendosi fra molti giovani , assumendo inizialmente un contenuto protestatorio , cui è venuto poi innestandosi un fenomeno di ideologizzazione della droga , divenuta così espressione di condotte trasgressive: l’impiego di droghe leggere , quali ad esempio la cannabis e gli allucinogeni fu propugnato da numerosi OPINION LEADER ( ad esempio TIMOTY LEARY , professore universitario americano divenuto famoso profeta dell’LSD) e recepito da larghi strati di giovani con un significato chiaramente oppositivo ai valori di un sistema sociale da loro ripudiato . Specialmente nella sottocultura degli HIPPY e della BEAT GENERATION , il consumo di droghe divenne generale : questi gruppi cercavano di affermare un loro diverso sistema di valori incentrati sulla solidarietà , sui gruppi giovanili e l’associazione degli stessi con la droga o altre sostanze stupefacenti risulta una realtà Ogni soggetto che entra a far parte di un gruppo nato in modo spontaneo, nel quale c’è un leader e dei compagni, ha il dovere di farsi accettare. L’accettazione nella banda passa attraverso vari elementi: comunanza di vestiti, di comportamenti, spirito di aggregazione, nonché comunanza di abitudini quale l’uso di sostanze stupefacenti o uso di sostanze alcoliche.Le bande sono formate da soggetti fortemente spinti al conformismo di gruppo. In tale contesto i mem ideali comunitari , sul mito dell’avventura ON THE ROAD e dei viaggi in oriente , sul rifiuto di gran parte delle regole familiari , proponendosi come cultura alternativa al materialismo consumistico e alle limitazioni individuali .

Ereditò , in Europa , gli stessi propositi , la rivolta studentesca del ’68 , che del pari , contribuì alla diffusione del consumo delle droghe , di cui subito si impadronirono interessi economici criminali quali in primis , le organizzazioni mafiose .

Pertanto percepite e ricercate per la valenza trasgressiva e contestativa loro attribuita , in ipotesi estreme , gli abusi di droghe , hanno contribuito alla formazione delle cosiddette “ sub-culture astensioniste ” teorizzate da Cloward ed Ohlin il cui obiettivo principale , risiede appunto nell’assunzione di droghe , le cui attività sono finalizzate ad ottenere il denaro necessario al consumo individuale di stupefacenti , e le cui motivazioni risiedono , come in precedenza esposto , nel fatto che questi delinquenti sub-culturali sono definiti “ doppiamente falliti “ non essendo in grado di raggiungere il successo né attraverso mezzi legali né attraverso quelli illegali .

Le correlazioni tra droga e criminalità sono comunque molteplici . Si riconosce pertanto :

  • una criminalità da sindrome di carenza più direttamente riconducibile agli eroinomani , consistente nella commissione di delitti , in condizioni di sofferenza angosciosa che mina l’autocontrollo , legata all’impellente bisogno di procurarsi rapidamente la droga ;
  • una diretta , quale commissione di reati eseguiti sotto l’effetto di droghe ;
  • una criminalità da ambiente , connessa con la sottocultura e le aree criminose nelle quali vengono a confluire i gravi tossicomani .

Non è però da ritenere che l’uso di droga induca necessariamente e con effetti immediati e diretti alla commissione di atti violenti o di altri delitti : le modificazioni psichiche sono diverse a seconda del tipo di sostanza assunta ( alcune sono assolutamente irrilevanti dal punto di vista criminogenetico , ad esempio la CANNABIS INDICA ) .

Sostanza che spesso viene consumata e selezionata con spirito imitativo o suggestivo , o per ottenere l’approvazione , o sulla base del tipo di legame che unisce i consumatori , in relazione alla particolare sottocultura nella quale se ne fa uso .

Di particolare rilievo sono così le correlazioni ambientali : vi sono certi ambienti sociali , certe aree urbane , certi gruppi , in cui appunto , il consumo di droghe è particolarmente intenso , aree in cui la criminalità comune è uno degli aspetti strutturali tipici , e nelle quali le bande giovanili fanno del loro consumo e dell’attività criminosa , non episodi isolati legati allo “ spirito “ del gruppo stesso , ma ragione di esistenza .

Parte I

Capitolo I

L’imputabilità e punibilità

Par. 1 L’imputabilità nel diritto penale

Nel diritto penale il concetto di imputabilità riguarda le condizioni, fisiche e psichiche, necessario perché una persona possa essere ritenuta capace di intendere e di volere al fine di compiere con consapevolezza la violazione di un precetto penale[70].

E’ dunque evidente che la imputabilità deve essere considerata come una qualità della persona, che la renda capace di porre in essere il reato.

L’imputabilità è associata nel diritto penale a determinati elementi. Non è considerato imputabile il minore e le persone che sono affette da un vizio di mente[71] (art. 88; 89 del c.p.) coloro che sono sotto effetto di alcolici derivante da caso fortuito o forza maggiore (art. 91 del c.p.), i soggetti che sono sotto l’effetto di sostanze stupefacenti per caso fortuito o forza maggiore (art. 93 del c.p.). Il codice penale però in materia di minore stabilisce che l’imputabilità è associata alla condizione del minore e in particolare l’art. 97 del c.p. stabilisce espressamente che “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”, mentre in base all’art. 98 del c.p. :“E’ imputabile che, nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità di intendere e volere; ma la pena è diminuita”.

Pertanto l’imputabilità insorge al compimento di una certa età, ma ad essa è associata il requisito del possesso di qualità psichiche, che attribuiscano la possibilità di argomentare, giudicare, scegliere, decidere, in funzione delle quali l’autore di un atto criminoso può considerarsi tale. Prima degli anni 14 sussiste una totale incapacità dello stesso minore, mentre tra i 14 e i 18 anni deve essere valutata la capacità psichica dell’autore del reato in quanto tale soggetto è imputabile se al momento del fatto aveva la capacità di intendere e di volere (art. 98 cod. pen.).

Il contenuto concreto del concetto di imputabilità è dalla legge penale attraverso la locuzione “capacità di intendere e di volere”. Tale disposizione è prevista nell’art. 85 del c.p. il quale afferma che: “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”. Il soggetto imputabile possiede dunque la capacità di intendere e volere ed ha la coscienza e la volontà di compiere il reato[72]. Il soggetto capace di intendere e volere sarà chiamato responsabile[73].

La dottrina[74] ha distinto la capacità di intendere e di volere dandone una relativa definizione:

1) la capacità di intendere: il significato più ristretto di tale concetto indica la semplice idoneità a comprendere il valore dei propri atti. Nel senso più esteso si intende non solo la capacità di comprendere i valori degli atti compiuti ma anche e specialmente l’efficienza causale, il rapporto con le conseguenze morali e giuridiche, la sua contraddizione ai principii etici, sociali, giuridici [75].

2) La capacità di volere è l’attitudine a dirigere liberamente la propria azione ispirandola ai motivi più ragionevoli. Tale capacità consiste nella spinta emotiva-motivazionale verso la commissione del delitto e nell’eventuale riflessione dei motivi che consigliano all’astensionismo[76]. Per potersi avere la capacità richiesta dall’art. 85 cod. pen. è necessario la congiunzione fra le due entità (capacità di intendere e di volere).

Il sistema della legge penale ha dunque previsto la piena non imputabilità del minore di 14 anni in base ad una presunzione jure et de jure di incapacità[77]; mentre per il minore fra i 14 e i 18 anni, l’imputabilità viene fatta dipendere dalla capacità, di intendere e di volere nel momento in cui venne commesso il fatto. Quest’ultimi sono chiamati a rispondere del fatto in base alla maturità dimostrata e alla capacità di comprendere il disvalore del comportamento[78].

La presunzione che il minore sia incapace è una teoria che risale al all’entrata in vigore del codice Rocco del 1930. La tesi però del favor rei minoris non può essere del tutto accettata in quanto la stessa norma ha considerato esistente per il minore di anni 18 e il maggiore di anni 14, di un fondato dubbio di capacità di intendere e di volere e in base a tale considerazione ha ritenuto che dovesse essere lo stesso giudice ad accertare di volta in volta il grado di capacità. Da tale orientamento non deve presumersi che si propenda sempre e comunque e per la non imputabilità quanto per un vero e proprio accertamento in base ai casi di specie[79]. La stessa dottrina ritiene sostanzialmente che l’imputabilità sia presunta e che la non imputabilità sia eccezionale in funzione del ritardato sviluppo individuale in persona capace di raggiungere lo sviluppo normale[80].

L’accertamento dell’età del reo, in caso di incertezza, deve essere effettuato mediante perizia[81] secondo le indicazioni riportate dall’art. 8 del d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448 sul processo penale a carico di minorenni, stabilendo inoltre che nel caso in cui il dubbio permanga anche dopo la perizia la minore età “è presunta ad ogni effetto”.

Se l’effettiva maturità psichica del minore è irrilevante ai fini dell’imputabilità, che resta in ogni caso esclusa, la presenza in concreti della capacità d’intendere e di volere in capo al minore infraquattordicenne può rilevare ad altri fini, come la valutazione dell’attendibilità di una chiamata di correo da questi effettuata[82].

Il giudizio relativo alla capacità di intendere e di volere deve però essere riferito ad una determinata azione e in base ad un preciso tempo. Appare evidente infatti che una diversa maturità è necessaria per valutare fatti diversi. Inoltre la valutazione della maturità è rapportata anche alla raffinatezza del reato compiuto. Infine la determinazione della capacità di intendere e di volere debba essere fatta in relazione al tempo dell’esecuzione del reato.

La giurisprudenza[83]il giudizio sulla capacità di intendere e di volere all’imputabilità di un minore deve tener conto, oltre dell’età, della tipologia dei fatti costituenti reato e delle modalità di commissione dei medesimi” inoltre “la presenza nelle vicende esistenziali del minore, di elementi di difficoltà anche seri, di per sé non esclude il conseguimento di maturità intellettiva e capacità di autodeterminazione adeguate, la valutazione delle quali va rapportata al disvalore etico-sociale della condotta posta in essere, alle capacità organizzative evidenziate nell’attuazione della medesima ed anche al comportamento tenuto dall’imputato nel corso dell’udienza”.

Secondo la giurisprudenza[84]l’imputabilità, quale capacità di intendere e di volere, e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito, esprimono concetti diversi ed operano anche su piani diversi, sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda (in applicazione a tale principio la corte ha annullato con rinvio la sentenza con la quale i giudici di merito avevano escluso la sussistenza dell’elemento psicologico del reato di calunnia, facendo riferimento a elementi che riguardavano l’imputabilità ed il vizio totale e parziale di mente)”.

Par. 2 La maturità richiesta per l’imputabilità del maggiore di quattordici anni ancora minorenne.

Secondo l’art. 98 del c.p. il minore che ha più di quattordici anni, ma non ha ancora compiuto diciotto anni, è imputabile solo se, al momento in cui ha commesso il fatto, ha la capacità di intendere e di volere. Si deve ritenere necessario una profonda indagine in merito al significato della capacità di intendere e volere indicata dall’art. 98 del c.p. rispetto a quella prevista dall’art. 85 del c.p..

Il giudice ha il compito di valutare la maturità e dunque la capacità di intendere e di volere del minore che compie un reato fra i quattordici e i diciotto anni.

Tale valutazione non è di agevole determinazione e in particolare il Codice Rocco, pur prevedendo la presunzione assoluta di non imputabilità del minore di quattordici anni dispone l’obbligo dell’accertamento della imputabilità per l’infradiciottenne, facendola coincidere con il concetto di capacità di intendere e di volere disposta per l’adulto[85].

Si osserva comunque che l’art. 98 del c.p. stabilisce che tale soggetto, se capace di intendere e di volere, è imputabile, ma al contempo usufruisce di una diminuzione della pena, conseguentemente si può affermare che la capacità di intendere e di volere del minore tra i quattordici e i diciotto anni si sostanzia nella maturità mentale, concetto che si discosta sa quello di punibilità. Si può pertanto ritenere che il minore è capace di rendersi conto del significato antisociale della sua stessa condotta criminosa, ma nello stesso tempo è un soggetto che può subire una controspinta psicologica rispetto all’individuo pienamente maturo in relazione a ciò la pena può essere diminuita.

L’evoluzione del Codice Rocco e la coincidenza della nozione di capacità di intendere e volere con quella di maturità ha generato una nuova condizione di indeterminatezza del principio cardine dell’imputabilità[86].

La giurisprudenza[87] in materia ha sostenuto che il minore di anni 18 ma di età superiore ai 14 manifesta una maturità tale da determinare la propria imputabilità in base alla valutazione di un “armonico sviluppo della personalità, sviluppo intellettivo adeguato all’età, capacità di valutare adeguatamente i motivi degli stimoli a delinquere, comprensione del valore morale della propria condotta, capacità di soppesare le conseguenze dannose del proprio operato per sé e per gli altri, forza del carattere, comprensione dell’importanza di certi valori etici, dominio acquisito su se stessi, attitudine a distinguere il bene dal male l’onesto dal disonesto il lecito dall’illecito, unità funzionale delle facoltà psichiche, loro normale sviluppo rispetto all’età”, fondamentale è inoltre secondo la stessa sentenza la “capacità di elaborare i comportamenti umani a livello della coscienza, capacità di percepire criticamente il contenuto etico di un atto e di correlarlo al contesto dei rapporti e interessi socialmente protetti, capacità di volere i propri atti come risultato di una scelta consapevole, attitudine a far entrare nel proprio patrimonio di cognizioni e di esperienze il concetto della violazione, assimilazione delle regole morali e sociali in base ad un’autentica convinzione e non per un processo di imitazione formale….”.

In tal senso si osserva che “la complessa attività preparatorio del delitto che si sostanzi nella premeditazione dello stesso, nella manipolazione delle tracce, nella simulazione del suicidio della vittima, unitamente alla freddezza ed alla lucidità dimostrata dagli imputati nella preparazione, esecuzione del reato e nella successiva fase delle indagini, alla genesi della confessione motivata da mero calcolo difensivo, alle contraddizioni in cui cadono nel riferire i presunti demoni psichici anomali da cui sarebbero stati affetti, sono elementi tutti incompatibili con l’incapacità totale o parziale di intendere e di volere degli imputati al momento del fatto, quali che siano le loro attuali condizioni di salute[88]”.

I maggiori di anni 14 ma ancora minori sono invece da considerarsi non imputabili “se affetti da carenze della struttura e della dinamica della personalità (nella specie: difficoltà di autocontrollo, ritardo mentale, aggressività collegata a sindrome abbandonica per precoce e lunga istituzionalizzazione)[89]”; oppure se il minore manifesta “instabilità psicoaffettiva” con “crisi del senso d’identità personale[90]”.

L’imputabilità di tale soggetto non può essere comunque dimostrata attraverso l’accertamento della conoscenza astratta del carattere illegale del comportamento posto in essere ma è necessario “che egli abbia assimilato le regole morali e sociali della comunità in base ad un’autentica convinzione e non per un processo di imitazione formali[91]”.

Pertanto il concetto di maturità del minore è espresso dal complesso di capacità, sentimenti ed inclinazione, dallo sviluppo intellettivo, dalla forza di carattere dalla capacità di intendere certi valori etici, dall’attitudine a distinguere il bene dal male, il lecito dall’illecito e dall’attitudine di volere, cioè a determinarsi nella scelta. L’evoluzione richiesta non deve però essere confusa con la completa maturità nel campo intellettivo, etico e volitivo ma comunque questa deve essere tale da rendere il minore consapevole del disvalore sociale dell’atto e capace di determinare in relazione ad esso la sua condotta[92].

Si deve però precisare che il livello di discernimento richiesto al fine di ritenere sussistente la maturità del minore varia seconda dell’illecito commesso. La maturità ha dunque carattere relativo dovendo essere accertata in base alle caratteristiche del reato commesso[93].

La giurisprudenza[94] annovera tra i reati particolarmente gravi come l’omicidio, la violenza carnale e la rapina quelli di cui il minore prende piena consapevolezza del disvalore sociale rispetto ad altri tipi di reati in quanto ledono le esigenze elementari della vita di relazione.

Il carattere relativo dell’accertamento della maturità mentale comporta che questa può considerarsi presente per alcuni tipi di reati ma non per tutti i tipi di reati “senza che ciò costituisca un vizio logico della sentenza[95]”.

La gravità del reato non è però da sola sufficiente a determinare la sussistenza oppure meno della maturità mentale del minore. E’ infatti necessario che l’imputabilità possa essere esclusa sulla base di un grave ritardo nello sviluppo delle personalità imputabile eventualmente a fattori ambientali e famigliari che hanno determinato nel soggetto la capacità di non auto determinarsi liberamente e responsabilmente per mancanza di un valido supporto ambientale e delle indispensabili occasioni di socializzazioni. Per questo la giurisprudenza[96] ha elaborato un “gruppo di criteri – base” alla luce dei quali valutare la maturità del minore al di fuori di uno vero e proprio stato patologico identificati nello sviluppo intellettivo, forza di carattere, capacità di intendere determinati valori etici, l’attitudine a distinguere il bene dal male, il lecito dall’illecito. Il giudizio deve essere basato non solo su elementi biopsichici ma anche su fattori socio-economici, posti in relazione con l’età e al tipo di reato[97].

In conclusione si può dunque affermare che in merito alle tecniche di accertamento della maturità del minore è necessario a) accertare di volta in volta e in modo concreto la presenza di una condizione di maturità ad opera dello stesso giudice, b) le modalità di accertamento non devono secondo un orientamento giurisprudenziale[98] necessariamente essere condotte mediante indagini da demandarsi a tecnici.

Parte II: Aspetti giuridici.

Capitolo I

Problematiche giuridiche: bande giovanili

Par. 1 L’organizzazione criminale minorile e giovanile: sue manifestazioni di rilevanza penale.

La scienza criminologica si è posta il problema, sin dagli inizi del secolo del fenomeno di aggregazione di giovani dediti alla commissione di reati. Il fenomeno si è manifestato per primo negli Stati Uniti tra gli anni ’50 e ’70.

Negli Stati Uniti le bande criminali di ragazzi hanno subito molte mutazioni, e sono giunte ad avere delle strutture ben delineate e spesso collegate alla malavita organizzata che utilizza detti canali soprattutto per il traffico di sostanze stupefacenti.

Diversi sono i fattori scatenante: la difficoltà di accedere alle mete definite dalla società (modelli di vita culturale), la presenza di modelli e culture devianti alternativi e facilitati nel percorso sociale rispetto a quelli dominanti, un’instabile vita familiare, scarsa fiducia in sé. La società statunitense è comunque improntata a modelli possibilisti, mentre le società europee tendono maggiormente alla ghettizzazione dei giovani riducendoli a seguire ciò la stessa famigli ha preordinato o semplicemente percorso. Tali gruppi secondo le teorie criminologiche statunitensi sono capaci di compensare i conflitti e placare le paure dei singole soggetti attraverso l’inserimento nel gruppo, dove esiste un’ideologia, un capo, e la possibilità di sostentarsi economicamente. Il gruppo rappresenta per il giovane (adolescente o meno) il luogo di identificazione culturale. Alla base di tale bisogno sussiste sostanzialmente una famiglia non capace di sopperire alle sue stesse esigenze. Questa può presentare solitamente una condizione di disagio sociale aggravata da una limitata cultura.

Per i criminologi statunitensi come A.K. Cohen la banda è una sottocultura, cioè uno strumento alternativo attraverso il quale un ragazzo delle classi povere può raggiungere mete sociali

altrimenti inaccessibili[99]. Le frustrazioni principali degli adolescenti riguardano la consapevolezza di non poter conseguire gli obiettivi della classe media; osteggiati dallo stesso ambiente scolastico e dai principali sistemi di comunicazione, questo induce a ricercare valori diversi in contrasto con la società.

Conseguentemente i criminologi[100] identificano tre insiemi di sottoculture giovanili: le criminali, le conflittuali, le astensioniste.

Le sottoculture criminali sono strutturate per sopperire a bisogni primari e raggiungere fini di tipo materiale (es.: si organizzano rapine per acquistare beni primari). Sono tipicamente presenti in zone della città dove prevale il ceto inferiore, dove esiste anche una criminalità adulta capace di controllare ed indirizzare la stessa criminalità giovanile. Le sottoculture conflittuali sono invece tipicamente di protesta fanno della ribellione una ragione di vita. Anch’esse sono presenti in zone metropolitane povere dove la coesione sociale non è sempre bassa ma presentano comunque un alto grado di mobilità. Le sottoculture astensioniste sono, infine, quelle che si concentrano nell’abuso di droghe e di alcool, commettendo reati con l’unico fine di procurarsi queste sostanze. Si formano sempre in aree povere delle metropoli urbane dove sussiste una struttura sociale instabile e ad alto tasso di emigrazione.

In Italia il fenomeno si è sostanzialmente concentrato nelle metropoli del centro sud. Nel complesso non si può negare che la delinquenza giovanile sia diminuita secondo il Rapporto del CENSIS n. 35 del 2001[101].

I reati associati alla devianza delle bande organizzate di tipogiovanile sono di diverse tipologie. I principali riguardano i furti, le rapine, e lo spaccio delle sostanze stupefacenti (specialmente i minori sono privilegiati per la loro non imputabilità). Lo spaccio di attività stupefacenti implica il diretto coinvolgimento delle bande organizzate all’interno di leadership che fanno capo alle attività di cosche mafiose. I furti e le rapine sono solitamente organizzate con il concorso dei membri della banda tendenti ad un unico disegno criminoso. I più giovani sono utilizzati per gli appostamenti, il reperimento di armi e in funzione di “pali”. Il problema che si pone però è che la banda giovanile spesso è costituita da minori e da maggiorenni che rappresentano i leader del gruppo. Per i primi occorre affrontare il problema dell’imputabilità nel diritto penale e la possibilità che l’azione penale prosegua solo nei confronti dei maggiorenni.

L’art. 97 del codice penale afferma che il minore di 14 anni non può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, perché è considerato incapace di intendere e di volere. Solo se considerato “pericoloso” il minore di 14 anni può essere sottoposto a misure di sicurezza. Il minore che abbia tra i 14 e i 18 anni, secondo l’art. 98 comma II del c.p., può essere punito ma solo dopo che, con ogni mezzo di prova, sia accertata la sua capacità di intendere e di volere. Secondo la consolidata giurisprudenza minorile, è capace di intendere e di volere, e quindi imputabile, il ragazzo sano di mente, psicologicamente equilibrato, che ha acquistato un complesso di valori idonei a determinare socialmente il suo comportamento, sa interiorizzare e far proprio il senso di un ordine e di un divieto, è capace d’autocontrollo in ordine a una certa situazione come se fosse già un diciottenne. C’è anche chi definisce la capacità di intendere e di volere come la responsabilità nel prendere decisioni in modo indipendente e con adeguata fiducia in sé, la prospettiva temporale nell’assumere le proprie decisioni e infine la capacità di autoregolarsi, esercitando un controllo sui propri impulsi.

La manifestazione penale del reato delle bande giovanile, non si esaurisce nel concorso di persone (art. 110 del c.p.), ma si manifesta in diverse fattispecie di reato. Di particolare importanza appare la violenza sessuale di gruppo prevista dall’art. 609 octies del c.p.. Tale disposizione punisce coloro che attraverso la loro partecipazione compiono atti di violenza sessuale. Il reato richiede la “partecipazione” di persone “riunite”. Il termine “concorso” non viene indicato e di conseguenza il legislatore probabilmente vuole punire “solo la realizzazione, da parte di più persone, dell’azione materiale in un medesimo contesto spazio-temporale[102]”.

Nel contesto delle bande giovanili rientra anche lo sfruttamento delle stesse da parte della criminalità organizzata di stampo mafioso. In tale ambito il traffico di sostanze stupefacenti è solitamente è gestito dalle organizzazioni mafiose attraverso queste piccole bande territoriali.

Il fenomeno è presente specialmente attraverso l’identificazione delle Baby gang (costituite prevalentemente da minori).

Alcune di esse sono costituite da minori stranieri[103], dove si manifesta la necessità di molti adolescenti di legarsi a un gruppo entro cui trovare una propria identità e la creazione di rapporti interpersonali, nasce da una situazione di profonda solitudine, poiché le famiglie sono solitamente inesistenti o poco presenti. Non si deve trascurare anche il problema dell’instaurazione dei rapporti di amicizia all’interno delle aree metropolitane.

Par. 2 Concorso di persone nel reato e l’associazione.

Secondo l’art. 110 del c.p. “Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti”.

Il concorso di persone concorre ad ampliare la tipicità dei singoli reati. Tale estensione, per quanto necessaria, rischia di indebolire la tassatività delle fattispecie, onde l’esigenza che si realizzi sulla base di criteri improntati al principio di determinatezza.

L’art. 110 c.p. è norma priva di contenuti positivi, limitandosi ad operare in (generica) funzione incriminatrice ex novo di condotte atipiche e di equiparazione della pena per i concorrenti. La problematica del concorso presenta però due problemi: il primo concernente la descrizione delle condotte punibili e il secondo il trattamento sanzionatorio.

La formulazione dell’art. 110 del c.p. vuole determinare la punibilità tanto del soggetto che concorre materialmente alla determinazione del reato quanto il soggetto che concorre a livello psicologico. In particolare la Cassazione ha affermato genericamente la punibilità di ogni “contributo di ordine materiale o psicologico idoneo, con giudizio di prognosi postuma, alla realizzazione anche di una soltanto delle fasi di ideazione, organizzazione o esecuzione dell’azione criminosa posta in essere da altri soggetti”. Essa ha inoltre stabilito che “perché si configuri la fattispecie del concorso di persone non è necessario che il contributo di ciascuno si ponga come condizione, sul piano causale, dell’evento lesivo. Infatti la teoria causale del concorso contrasta con il dettato dell’art. 110 c.p. e la funzione estensiva cui la normativa sul concorso adempie, consentendo di attribuire tipicità a comportamenti che di per sé ne sarebbero privi quando abbiano in qualsiasi modo contribuito alla realizzazione collettiva; mentre, d’altro canto, lo stesso codice, con la previsione dell’attenuante della minima partecipazione al fatto, ammette la possibilità di condotte non condizionali, non potendosi considerare condizione indispensabile per la realizzazione di un reato un’attività di minima importanza. In quest’ottica, ai fini della sussistenza del concorso deve ritenersi sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento che arrechi un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e, in sostanza, che il partecipe, per effetto della sua condotta idonea a facilitarne l’esecuzione abbia aumentato le possibilità di produzione dell’evento, perché in forza del reato associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti[104]“.

Il concorso di persona nel reato è dunque una forma di manifestazione del reato che si associa a fattispecie determinate. Queste fattispecie senza l’art. 110 del c.p. sarebbero applicabili solo nei confronti di un singolo autore materiale del reato. Pertanto l’art. 110 del c.p. non trova applicazione in quelli che sono i reati associativi[105].

Diverse sono le fattispecie associative previste nel nostro ordinamento: da quelle collocate nel Titolo I, Libro II del codice penale (dedicato ai delitti contro la personalità dello Stato), come la cospirazione e la banda armata, a quella del T.U. 309/1990 sugli stupefacenti (art. 74), fino alle più studiate associazione a delinquere (art. 416 c.p.) e associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416 bis).

Per prima cosa bisogna analizzare i rapporti tra i reati associativi (che trovano il loro paradigma nell’art. 416 c.p.) e i singoli reati-scopo commessi dall’associazione. In secondo luogo occorre distinguere le differenze tra il reato associativo e il concorso formale di reati, il concorso di persone e il reato continuato.

Sotto il primo aspetto, è necessario ricordare che elemento fondamentale dell’associazione (termine che ha lo stesso significato in tutti i reati associativi) è l’organizzazione di mezzi, anche rudimentale, al fine di commettere delitti[106]. Questo è infatti ciò che giustifica la maggior severità sanzionatoria che caratterizza i reati associativi rispetto ai reati-scopo in concorso formale tra loro. D’altro canto, anche se nella pratica l’esistenza di un’associazione viene desunta dalla commissione di reati da parte degli associati, è costantemente affermato che, per la sussistenza del reato di associazione, non è richiesta l’esecuzione dei reati-scopo[107]. La Corte di Cassazione ha puntualizzato inoltre che la prova del reato associativo non può desumersi dalla circostanza che tre o più persone abbiano commesso, insieme, una serie di fatti criminosi, in quanto l’accordo va provato in sé. Deve comunque essere precisato che è ravvisabile il concorso formale tra più reati associativi, (art. 416 bis c.p. e art. 74 d.p.r. 309/1990, per esempio), in quanto le rispettive norme tutelano interessi diversi.

Per quanto riguarda le differenze con il semplice concorso di persone, a parte il fatto che viene richiesto un numero minimo di almeno tre persone per dar vita all’associazione, nel concorso l’accordo è occasionale e accidentale, cioè limitato alla realizzazione di uno o più reati, e si esaurisce con la consumazione di questi. Nel reato associativo, invece, l’accordo criminoso rimane per l’ulteriore attuazione del programma delinquenziale (si parla di carattere di permanenza dell’associazione). Persiste quindi il pericolo per la collettività, che giustifica la grave sanzione penale. Analogamente a quanto vale a proposito del concorso di reati, la responsabilità del singolo associato può essere affermata anche qualora egli non abbia preso parte ad alcuna delle imprese criminose dell’associazione[108]. Allo stesso tempo, gli associati non possono ritenersi, solo per questo, concorrenti nel singolo reato-scopo: la loro specifica responsabilità va provata, per non incorrere nella violazione dell’art. 27, comma 1, Cost. (personalità della responsabilità penale).

Rispetto al concorso di persone nel reato continuato, è poi nell’associazione configurabile, secondo la giurisprudenza, la consapevolezza dei soggetti di essere associati per l’attuazione del programma criminoso. E’ la cosiddetta affectio societatis scelerum, che rappresenta il dolo generico del reato associativo.

La questione più complessa è quella riguardante il reato continuato. Per anni la giurisprudenza ha ritenuto che non vi fosse compatibilità logica tra continuazione (tra i singoli reati commessi e tra questi e il reato associativo) e associazione. Si riconosce infatti come elemento costitutivo del reato associativo l’indeterminatezza del programma criminoso, che cozzerebbe contro quello del “medesimo disegno criminoso”, richiesto dall’art. 81 c.p. quale elemento della continuazione. Per aversi reato continuato, cioè, non è sufficiente un generico programma di attività delinquenziale, ma occorre che tutte le diverse condotte criminose realizzate siano comprese fin dal primo momento e nei loro momenti essenziali, nell’originario proposito criminoso.

L’art. 416 del c. p. punisce coloro che si associano alla scopo “ricommettere più delitti” pertanto coloro che “promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione” sono puniti con la reclusione da tre a sette anni.

L’interesse protetto secondo la giurisprudenza[109] è quello dell’ordine pubblico posto in pericolo dalla permanenza del vincolo associativo tra più persone legate da un comune programma criminoso. Per configurarsi il reato è necessaria la partecipazione di almeno tre persone anche se l’identificazione di tale presupposto può avvenire in virtù di una successiva adesione[110]. Non possono essere computati nel numero minimo richiesto dal reato i non imputabili[111] (es.: infermi di mente). Il numero minimo previsto per legge deve essere computato in base all’apporto effettivo e alla sussistenza di un sodalizio tra i partecipanti[112].

Per quanto attiene all’elemento oggettivo dell’art. 416 si specifica che questo consiste nel vincolo associativo continuato al dine criminoso perpetuato da tre o più persone alla scopo di commettere una serie indeterminata di reati, con la predisposizione dei mezzi necessari per attuare il programma[113]. Il reato associativo si caratterizza quindi: 1) dal vincolo associativo; 2) dall’indeterminatezza del programma criminoso; 3) dall’esistenza di una struttura organizzativa. In merito all’organizzazione spesso la giurisprudenza si è orientata in merito alla sussistenza di una minima struttura[114] o comunque ad una rudimentale organizzazione di mezzi[115].

L’indeterminatezza del disegno criminoso secondo la giurisprudenza non fa venir meno la struttura del reato in quanto l’art. 416 del c.p. richiede solo una pluralità di delitti programmati[116]. Anche la dottrina ha riconosciuto il carattere generico del disegno criminoso[117].

Il reato previsto dall’art. 416 del c.p. si consuma nel momento in cui viene ad esistere l’associazione a delinquere[118].

La permanenza del reato non viene interrotta dalla detenzione del soggetto ma è necessario dimostrare essenzialmente la dissociazione tranne nel caso in cui intervenga la sentenza di primo grado che ha effetto interruttivo. Nel caso però che l’attività associativa prosegua si determinerà un autonomo reato[119] con la possibilità di operare una nuova contestazione del medesimo comportamento antigiuridico.

Per quanto attiene alla condotta del reato indicato dall’art. 416 del c.p., si distinguono i promotori, organizzatori e capi dell’associazione dagli altri semplici associati[120].

In tal senso la dottrina[121] si è ipotizzato che il reato indicato dall’art. 416 del c.p. sia un unico rato plurisoggettivo con sanzioni differenziate in funzione dei ruoli svolti dai singoli soggetti ma la prevalentemente interpretazione ha invece sottolineato che il reato comprende autonome figure delittuose escludendo che le condotte qualificate possano integrare ipotesi circostanziali aggravate rispetto alla condotta di mera partecipazione determinando tra loro ipotesi concorsuali sia di reati che di persone. Le condotte dei promotori e degli organizzatori corrispondono invece ad ipotesi circostanziali[122].

Sono da considerarsi tali non solo coloro che sono al vertice dell’organizzazione ma anche coloro che sostanzialmente hanno incarichi direttivi e risolutivi nella vita dell’organizzazione[123].

L’elemento soggettivo del reato di associazione per delinquere consiste nella coscienza di far parte di un impegno collettivo permanente e di svolgere i propri compiti come determinati dai capi o coordinatori, al fine di compiere a tempo debito i delitti programmati[124]. Per quanto attiene al dolo è necessario che vi sia da parte dell’agente la coscienza e la volontà di compiere un atto di associazione, cioè la manifestazione di affectio societatis scelerum. A fondamento di tale elemento psicologico sussiste anche il pactum sceleris che distingue inoltre l’associazione per delinquere dal concorso di persone. La giurisprudenza si è pertanto orientata sostenendo la necessità del dolo specifico[125], considerando invece la semplice partecipazione con l’apporto del contributo verso l’attività criminosa dell’associazione non sufficiente per la configurazione del reato. Il dolo specifico richiede invece la consapevolezza di contribuire e di partecipare attivamente alla vita dell’associazione nella quali i singoli associati fanno convergere i loro singoli contributi.

E’ stato escluso che posso configurarsi il reato di associazione a delinquere ad una associazione alla quale sia stata riconosciuta la qualifica di confessione religiosa[126] a meno che non si dimostri che tutti i membri avessero aderito in relazione allo scopo del reato previsto dall’art. 416 del c.p.. Secondo la dottrina il partecipante ha una condotta a forma libera[127].

L’ipotesi del concorso di persona nel reato associato alla banda giovanile si è manifesto particolarmente in alcuni settori come ad esempio all’interno delle sette sataniche[128]. Si pensi al caso delle “Bestie di Satana” il cui nome indicava un gruppo giovanile che sono stati accusati di aver ucciso e seppellito Fabio Tollis e Chiara Marino il 17 gennaio 1997. Tale gruppo, secondo le deposizione dei loro membri (in particolare la testimonianza è stata data da Andrea Volpe) era guidato da un’altra organizzazione che prendeva ordini da una setta che aveva sede a Torino. I membri del gruppo hanno confermato che esiste una organizzazione a più livelli nelle sette sataniche. Questi gruppi giovanili si avvalgono di soggetti minori di età (non imputabili), sviluppano una ritualistica d’ingresso nel gruppo, operano un sovvenzionamento economico dei membri e tendono a promettere la realizzazione dei loro desideri dietro la promessa di una devozione assoluta. I membri di tali organizzazioni trovano nel gruppo la propria identità e attraverso questo compiono attività che sono sostanzialmente configurabili quali veri e propri reati[129].

Il fenomeno del gruppo non si esaurisce in tali manifestazioni si pensi ad esempio alla recente baby gang (quattro minorenni tra i 15 e i 17 anni) che hanno aggredito alcuni omosessuali e un disabile nella zona di Pordenone a dicembre del 2004. Ai minori che hanno partecipato alla realizzazione dei diversi reati gli sono state formulate le ipotesi di reato di concorso in lesioni personali, furto aggravato, ricettazione, danneggiamento e incendio[130].

L’esplicazione della banda giovanile (non sempre composta da soli minori) si manifesta spesso nel diritto penale attraverso reati che singolarmente individuati con consentirebbero l’imputazione di tutti i partecipanti. Il concorso di reato quale manifestazione dello stesso, secondo le indicazioni del’art. 110 del c.p., è dunque una fattispecie essenziale all’interno dell’imputazione dei reati per le bande giovanili. Si pensi in tal senso che proprio ad una banda giovanile (costituita da ragazzi dai 18 ai 22 anni) sono stati imputati gli incendi dolosi realizzati a Ferrara nell’ultimo anno in danno di autovetture, furgoni, edifici, garages, tendaggi esterni, ciclomotori, stabilimenti balneari[131]. Il coinvolgimento del gruppo dei giovani è avvenuto attraverso la ricostruzione dei soggetti che, dopo i vari atti vandalici, hanno prestato a seguito della consumazione dei reati, espresse testimonianze proprio nei confronti delle forze dell’ordine. Il movente dell’azione è da ricercarsi nell’atteggiamento di sfida “alle Forze dell’Ordine” dopo la realizzazione degli atti illeciti.

Presupposto essenziale per l’esame delle fattispecie penali che possono interessare il fenomeno delle bande giovanili è l’analisi delle stesse e la definizione del fenomeno dal punto di vista criminologico[132].

Par. 3 Violenza sessuale di gruppo

La pratica della violenza sessuale è un fenomeno che spesso si è manifestato all’interno dei gruppi giovanili.

Nel gruppo colui che agisce in modo violento dimostrando la propria forza contro altri può determinare l’approvazione altrui[133].

All’interno della violenza di gruppo il senso di colpa e l’approvazione altrui determina la forza del gruppo.

A fronte di tale fenomeno è stato introdotto l’art. 609 octies del c.p. ad opera della l. 15 febbraio 1996 n. 66 che ha introdotto le “norme contro la violenza sessuale”.

In giurisprudenza il fenomeno si è manifestato all’interno attraverso la forma del concorso all’interno all’interno del reato di violenza sessuale art. 609 octies, co. 1 e 2 del c.p..

Non è configurabile il reato di violenza sessuale di gruppo di cui all’art. 669 octies del c.p., nel caso in cui due agenti, in modo autonomo e del tutto estemporaneo, abbiano indotto una danna a subire, nel medesimo contesto di tempo e di luogo, due atti sessuali tra loro distinti, consistiti, in particolare nel toccamento del seno, da parte di uno dei due, e nello strofinamento dell’organo genitale sul di lei corpo, da parte dell’altro, senza che vi sia alcuna prova certa che l’uno abbia partecipato, anche a livello di rafforzamento del proposito criminoso, alla condotta posta in essere dall’altro[134]”.

Non manca dunque la giurisprudenza che sostiene l’ipotesi in cui la violenza sessuale realizzate più persone non integra un’ipotesi di diritto di violenza sessuale di gruppo.

La sentenza non dubita che si tratti di violenza sessuale non solo per i tipi di atti compiuti ma anche sostanzialmente per l’assenza del consenso della vittima.

Nel caso di specie una donna, si trovava in un locale notturno in compagnia del marito, quando uno degli imputati in stato di ubriachezza ha iniziato ad importunarla verbalmente, dopo essersi allontanato questo soggetto si è avvicinato nuovamente insieme ad un altro imputato, ed entrambi la costringevano a subire atti sessuali. La donna è riuscita a richiamare agenzie del marito è stato picchiato da uno degli imputati anche alla presenza delle forze dell’ordine intervenute sul luogo. L’accusa ha riconosciuto il fatto criminoso come violenza sessuale di gruppo. Il tribunale ha invece deciso che i giovani non hanno partecipato ad un identico atto sessuale bensì i si sono rese responsabile di altri tra loro distinte ti anche se commessi nel medesimo contesto di tempo e di luogo[135].

In senso opposto sia espressa la corte di cassazione con la sentenza dell’11 ottobre 1999 n. 2078 col la quale ha affermato che: “ riferimenti reato di cui all’articolo 609 octies del codice penale la violenza di gruppo richiede la necessaria presenza di sul luogo e al momento della dell’illecito di più soggetti non essendo invece necessario l’effettivo compimento, dell’atto sessuale da parte di ogni compartecipe. Deve pertanto considerarsi punibili a tal fine qualunque condotta partecipativa purché tenute situazione di effettiva presenza sul luogo e al momento del reato[136]”.

Il requisito di qualificante della partecipazione agli atti di violenza sessuale è configurabile ogni qualvolta almeno due agenti concorrono nel compimento di un atto di violenza sessuale secondo lo schema indicato nel concorso di persone previsto dall’articolo 110 del codice penale.

Quanto al concetto di partecipazione l’orientamento dottrinale non è ancora riuscito ad operare una sua identificazione certa: “in particolare si discute se la figura delittuosa in esame configuri una fattispecie meramente concorsuali di realizzazione dell’illecito o se invece costituisce una forma di cooperazione esecutiva del reato[137]”.

Una parte della dottrina[138] ritiene che sussiste una mera ipotesi di concorso di persone eccezionalmente tipizzata dallo stesso legislatore.

Secondo un’altra corrente dottrinale[139] di reato di violenza sessuale di gruppo rappresenta un reato collettivo, con uno scopo specializzato il comune e differenziato rispetto al concorso di persone.

Di particolare importanza è apparso nella giurisprudenza le eventuali ipotesi che alla violenza sessuale di gruppo, possa essere eventualmente applicata la disposizione attenuante di minore gravità prevista dall’articolo 609 bis terzo comma del codice penale. In tal senso la Cassazione[140] ha precisato che in ragione del numero di partecipanti si tratterebbe di un’ipotesi autonoma di reato configurabili, anche nel caso di condotta tenuta da due persone riunite e, in merito alla quale non sarebbe applicabile la circostanza attenuante del fatto di minore gravità di cui all’articolo 609 bis III comma del codice penale, in quanto non espressamente menzionato dal legislatore all’interno dell’articolo 609 octies del codice penale. Viene inoltre confermato dallo stesso orientamento della giurisprudenza che deve configurare il reato di violenza sessuale di gruppo è sufficiente la partecipazioni due persone conforme alla giurisprudenza di merito, considerando la stessa fattispecie come una aggravante speciale[141].

Par. 4 Associazione a delinquere di stampo mafiosa

L’art. 416 bis del c.p. prevede un particolare ciclo di reato e stabilisce che “ chiunque fa parte di una associazione di tipo mafioso formata tre o più persone, è punito con la reclusione da tre a sei anni”. “Coloro che promuovono o dirigono o organizzano fu l’associazione sono puniti per ciò solo con la reclusione da quattro a nove anni”. “ l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto e indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche di concessioni, di autorizzazioni….”.

Si la giurisprudenza[142] che la dottrina[143] ha sostenuto che il reato di associazione mafiosa è un autonomo reato caratterizzato dal suo elemento specializzante e dal vincolo intimidatorio dell’organizzazione.

La criminalizzazione di tali organizzazioni è stata prevista attraverso l’intervento del legislatore in senso specifico ai fini della tutela dell’ordine pubblico. La dottrina[144] da una parte ha sostenuto la tutela dell’ordine pubblico in senso materiale, mentre un’altra parte della dottrina fa riferimento all’ordine pubblico economico[145].

Sempre la dottrina[146] cerca di superare le impostazioni indicate e pone in rilievo la necessità di tutelare le esigenze di legalità e di trasparenza dell’azione dei pubblici poteri, quale interesse posto a tutela dell’art. 416 bis del c.p..

La giurisprudenza anche a seguito della modifica della fattispecie in base all’art. 11 bis della legge 7 agosto 1992, n. 356 ha identificato la tutela dell’interesse nella tutela delle attività socio economiche insite nel vincolo associativo[147].

Il delitto di associazione mafiosa richiede per la sua configurazione non solo un’organizzazione stabile (come per l’art. 416 del c.p.) ma anche il conseguimento di una capacità intimidatoria[148] (fattispecie caratterizzante l’art. 416 bis del c.p.).

Proprio la forza intimidatrice e la condizione di assoggettamento e di omertà[149] che ne deriva costituiscono parte dell’elemento oggettivo dell’art. 416 bis del c.p.. E’ parte integrante dello stesso elemento oggettivo: la metodologia delittuosa dedita allo sfruttamento della forza intimidatrice del vincolo associativo, la condotta di partecipazione, le condotte di promozione direzione ed organizzazione[150].

La forza intimidatrice che deriva dal vincolo associativo si estrinseca in atti che non rappresentano delle concrete violenze ma rappresentano delle minacce in forma subdola e tendenti ad assoggettare altri soggetti[151]. La forza intimidatrice consiste pertanto nella capacità di suscitare terrore scaturente dall’associazione[152].

Sussiste comunque un diverbio in dottrina[153] tra chi considera il reato previsto dall’art. 416 bis del c.p. come reato di tipo associativo e tra chi invece sostiene che l’accertamento dell’esercizio del metodo mafiosi avviene attraverso la verifica degli effetti concreti[154].

Per quanto attiene alla condotta la stessa giurisprudenza[155] sostiene che ai fini della configurabilità dell’art. 416 bis del c.p., non è necessario che il soggetto agente abbia effettivamente e concretamente raggiunto uno o più scopi dell’associazione mafiosa ma è necessario che ciascuno utilizzi la forza intimidatrice operando per se o per altri un effettivo profitto contrassegnato dal connotato dell’ingiustizia.

Il fenomeno della criminalità organizzata di stampo mafioso e è l’effetto di due modelli criminologici. Il primo è denominato “american way of life” o teoria dell’anomia. la causa di questo fenomeno è da ricercare “all’interno della società americana, delle sue disfunzioni tensioni ineliminabili, legate ad un sistema, quello capitalistico, generatori di anomia sociale e quindi di tutte le condizioni facilitanti il crimine[156]”. Questo modello si sviluppa nei momenti in cui gli emigranti in entrati negli Stati Uniti si rendono conto di non poter avere delle regolari condizioni di lavoro rientrano all’interno della vita criminale al fine di operare una anomala scalata di mobilità sociale.

Il secondo modello è quello “dell’alien conpiray” o teoria dell’importazione secondo il quale i fenomeni di crimine organizzato dovrebbe essere riconosciuti alla venuta negli Stati Uniti di immigranti particolarmente predisposti al comportamento deviante[157]”.

L’appartenente alla cosca mafiosa gode della protezione della stessa organizzazione la quale è improntata sul principio della segretezza. Possono accedere all’organizzazione solo italiani, solitamente membri di famiglie già appartenenti all’organizzazione, attraverso un rito di iniziazione. l’organizzazione oltre ad essere gerarchica è basata sulla struttura economica. “La decisione di appartenervi è lasciata alla motivazione individuale, la quale tuttavia può risentire delle pressioni sociali dell’ambiente circostante[158]”.

L’organizzazione mafiosa è un’associazione volontaria, svincolate in via esclusiva da legami di tipo ascrittivo e la segretezza è il fondamento delle relazioni tra gli appartenenti. Le sanzioni esistenti all’interno dell’organizzazione servono sia come elemento deterrente contro la violazione del segreto sia per riaffermare le regole interne.

I caratteri della cultura mafiosa sono state oggetto di diversi studi specialmente nel contesto giovanile e minorile. In particolare tra gli anni 50’ e gli anni 70’ si verifica una profonda trasformazione della mafia siciliana che abbandona il settore dell’agricoltura e si dedica a quello industriale e commerciale.. Negli anni ’70 il contrabbando di sigarette si trasforma in contrabbando di sostanze stupefacenti e in traffico di armi. Si organizza la sua infiltrazione all’interno dei mercati finanziari. I valori di fondo nonostante l’evoluzione restano immutati “ il nucleo di questa cultura si caratterizza per la forza intrinseca di consuetudini profondamente radicate che consentono lo sviluppo del giovane solamente entro le regole tradizionalmente stabilite[159]”. “I giovani arruolati possono accedere solo ai gradini più bassi della piramide, percorrendo un vero e proprio itinerario delinquenziale che porterà solo i più bravi e i più determinati ad inserirsi stabilmente, avendo superato tutti gli esami nella mitica criminalità organizzata[160]”. Non sempre i giovani che entrano a far parte delle organizzazioni malavitose appartengono alle famiglie dello stesso ambito.

I giovani attraverso un percorso di esperienze criminali e riti iniziati percorrono un percorso deviato con la supervisione di delinquenti esperti. Per i minori che entrano a far arte dell’organizzazione mafiosa le la violazione della legge rappresenta “un valore simbolico” in tal modo si dimostra di essere maturi ed affidabili e di essere legati alla causa del clan. Per l’organizzazione mafiosa i minori sono sanzionati meno severamente dalla legge penale, mentre l’infraquattordicennee è addirittura non imputabile, e rappresentano dunque dei soggetti ideali da coinvolgere ed eventualmente da rendere autori degli stessi reati.

All’interno di questa logica nasce il delitto di associazione mafiosa. Gli elementi giuridici relativi all’associazione di tipo mafioso sono:

  1. l’esistenza di un vincolo associativo tra tre o più persone;
  2. Lo scopo dell’associazione che può essere non solo quello di commettere più delitti, ma anche, e soprattutto quello di acquisire, in modo diretto e indiretto il controllo di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti, per realizzarne profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri;
  3. L’avvalersi da parte di singoli associati della forza di intimidazione per rafforzare o mantenere il vincolo associativo determinando una condizione di assoggettamento il e di omertà nei soggetti partecipanti.

In tale reato si possono distinguere i semplici associati i promotori, gli organizzatori e i dirigenti.

Il reato richiede il dolo specifico che consiste nella coscienza e volontà di far parte dell’associazione e di perseguire i fini esaminati. La consumazione del delitto si realizza appena si costituisce il vincolo associativo i non è necessario l’inizio dell’attività delittuosa. In tale ambito vengono inseriti solitamente all’interno di un ruolo associativo e non di promozione i minori o membri giovani che entrano all’interno dell’organizzazione in base ai fattori sopra descritti. Questi soggetti sono particolarmente richiesti dall’organizzazione mafiosa sia per chi in quanto soggetti minori hanno trattamenti differenziati rispetto e ad un altro qualsiasi soggetto agente, sia per chi sono facilmente manovrabili e soggiacciono alle regole dell’organizzazione, sia perché sono incensurati pertanto pur essendo maggiorenni usufruiscono di procedimenti speciali che sono preclusi ai delinquenti abituali[161].

In alcuni casi e prima della riforma del processo penale nonché del processo minorile e in riferimento all’art. 9, II co., del Regio Decreto del 20 luglio 1934, n. 1404 (legge minorile), è stata considera legittima la sottrazione dei minori, coimputati con maggiorenni, alla giurisdizione del Tribunale dei minori, che attribuiva al giudice ordinario la competenza a giudicare i minori coimputati con i maggiorenni[162].

A seguito dell’emergente fenomeno della criminalità organizzata viene introdotto il D. L. del 13 novembre 1990 n. 324 (“provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e di buon andamento dell’attività criminosa”) attraverso il quale si dispone l’aumento di pena per coloro che anche in forma organizzata si avvalgono dei soggetti indicati dall’art. 112 del c.p., come i non imputabili e i semi imputabili, incapaci o non punibili per il compimento dei reati. Si ritiene sussistere la circostanza “anche se taluno inserisce nel proprio quadro di attività criminosa, funzionalizandoli a tale quadro i comportamenti delinquenziali i minori, incapace etc… magari indicando loro soltanto modalità esecutive secondarie o accessorie di reati che questi motu proprio , già intendono e sono soliti commettere[163]”.

Par. 5 I reati conflittuali.

I minori compaiano molti reati che possono considerarsi conflittuali e il più diffuso è quello di danneggiamento in particolare secondo l’articolo 635 del codice penale “ chiunque distrugge, disperdere, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili e immobili altrui è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a un anno o con la multa…..”.

Non tutti sono concordi sul tipo di interesse che è tutelato dalla stessa norma giuridica. Una parte della dottrina[1] ritiene che l’interesse giuridico tutelato e comprende l’integrità e la possibilità materiale di godimento della cosa. Un’altra parte della dottrina[2] ritiene invece che sia la proprietà della cosa stessa a costituire il valore tutelato della disposizione. Secondo quest’ultimo orientamento attraverso tale tipo di interesse si tutelerebbe sia la proprietà che l’integrità della cosa.

Si è comunque considerato che il delitto previsto dall’articolo 635 del codice penale possiede una funzione sussidiaria  rispetto ai reati di danneggiamento fu b lesivi di beni di particolare delle bene .

Il soggetto attivo è chiunque operi un danneggiamento relativo ad un bene di proprietà altrui. La dottrina[3] e la giurisprudenza[4] si sono posti dunque il problema se fosse possibile considerare soggetto attivo il proprietario del bene che abbia dato in godimento a terzi il bene stesso.

La giurisprudenza citata da scarse indicazioni in proposito in quanto ha ritenuto che  non costituisce reato il danneggiamento effettuato dal proprietario, pur se il bene è stato concesso in godimento a terzi.

E’ da evidenziare però che può essere considerato soggetto passivo tanto il proprietario quanto colui che gode del bene manifestando in questo modo una certa antinomia rispetto a chi possa essere considerato soggetto attivo [5].

Un determinato orientamento ha in tal modo specificato che bisogna distinguere in questo reato tra colui che può essere qualificato come soggetto passivo e l’eventuale danneggiato.

Il danneggiato è colui che subisce nel reato un danno patrimoniale valutabile mentre il soggetto passivo si identifica nel titolare del bene interesse tutelato dalle norme penali che è leso o che viene posto in pericolo[6].

Per ciò che riguarda l’elemento oggettivo si deve far presente chi può essere considerato oggetto materiale dell’azione qualunque cosa mobile o immobili comprese le energie naturali. La cosa può essere di proprietà di qualsiasi soggetto persona fisica o persona giuridica, privata o pubblica[7].

La condotta dev’essere relativa a distruggere, disperdere, deteriorabile, rendendo in tutt’e in parte inservibile la cosa rispetto a suo specifico uso.

Per distruzione si intende annientare la cosa non nella materialità quanto nel suo uso funzionale a cui è destinata[8].

Per dispersione si intende invece l’allontanamento della cosa mobile dalla sfera delle disponibilità dell’avente diritto.

È considerato deterioramento la modifica della cosa che ne diminuisca in modo apprezzabile valore o l’utilizzabilità al di fuori di ogni distruzione o dispersione della cosa

La cosa è inoltre inservibile quando essa risulta non essere più utilizzabile rispetto al suo fine funzionale originario.

Quanto alla possibilità di commettere tale reato mediante comportamento omissivo si deve specificare che non c’è un orientamento univoco. Parte della dottrina[9] ha osservato come alcune condotte utilizzate nell’articolo 635 del codice penale sono necessariamente relative ad un comportamento attivo come nel caso di “distruggere” e di “deteriorare”. E’ però possibile anche un comportamento omissivo quando il soggetto attivo sia titolare di un obbligo di garanzia nei confronti del bene leso[10].

[1] F. Bricola, voce Danneggiamento (dir pen.), Enc. Dir., vol. XI, Milano, 1962, p. 603.

[2] S. Ranieri Manulae di diritto penale, III, Padova, 1952, p. 356 e ss..

[3] B. Assumma, voce Danneggiamento, in Enc. Giur. Treccani, vol. X, 1988, 2;

[4] Cass.,17 febbraio 1953, Germi, in Riv. it. dir. pen., 1952, p. 373. ho

[5] F. Bricola, voce Danneggiamento (dir. pen.), in op. cit., p. 604

[6] Cass. 3 maggio 1988, Zoerdan, in Riv pen., 1989, p. 250 e ss.; Cass. 21 ottobre 1981, Allegrini, in Giust. Pen., 1982, II, p. 617 e ss..

[7] F. Bricola, voce Danneggiamento, op cit., p. 605 e ss..

[8] F. Bricola, voce Danneggiamento, op cit., p. 600 e ss..

[9] B. Assuma, voce Danneggiamento, in Enc. Giur. Treccani, vol. I, 1988, p. 7.

[10] Pret. Palestina, 13 novembre 1977, De Bellis, in Riv. dir. pen., 1978, p. 408 e ss..

Par. 6 I reati contro il patrimonio

Un altro genere di reato molto comune nel quale i minori vengono solitamente coinvolti quali soggetti attivi sono i reati contro il patrimonio e in particolare la rapina.

In base all’art. 628 del c.p. “Chiunque, per procurare a se’ o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa ….” Alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione per assicurare a se o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a se o ad altri l’impunità.

La pena è della reclusione da quattro anni e sei mesi a venti anni e della multa da lire due milioni a lire sei milioni:

1) se la violenza o minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite.

2) se la violenza consiste nel porre taluno in stato d’incapacità di volere o di agire;

3) se la violenza o minaccia e’ posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’articolo 416 bis”.

L’art. 628 prevede, sotto il generico titolo di rapina, due diverse ipotesi criminose, il cui elemento comune è dato dall’impossessamento di cose mobili altrui e dall’uso di violenza o minaccia alla persona.

Le due figure criminose sono identificate come rapina propria e rapina impropria. Compie il reato di rapina propria chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profìtto, mediante violenza alla persona o minaccia, si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene. Pone in essere invece il reato di rapina impropria chiunque adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé o ad altri l’impunità.

In entrambi i casi, ricorre la figura del reato complesso di cui all’alt. 84, cioè di una fattispecie i cui elementi costitutivi fondano due autonome figure criminose che, nella fattispecie in esame, sono il furto e la violenza privata.

L’oggetto del reato della rapina propria è la cosa mobile altrui. L’azione criminosa è identica a quella del furto, con in più l’elemento della violenza o della minaccia.

Per violenza si deve intendere qualsiasi impiego di energia fisica diretto a vincere un ostacolo reale o supposto.

Secondo la giurisprudenza, perché si realizzi la minaccia è sufficiente che il pregiudizio minacciato, con parole o con atti, in modo espresso o tacito, sia idoneo a produrre normalmente l’effetto di turbare o diminuire la libertà psichica e morale della vittima senza che occorra che tale effetto si sia realmente verificato[174].

È opinione comune che per aversi impossessamento il soggetto debba sottrarre con le proprie mani la cosa alla vittima, poiché, se è quest’ultima a consegnarla all’aggressore, ricorre la diversa figura criminosa dell’estorsione.

La distinzione tra rapina ed estorsione risiede pertanto nella possibilità di scelta da parte della vittima tra il male minacciato e la consegna della cosa.

La rapina propria si consuma con l’avvenuto impossessamento della cosa da parte dell’agente che si traduca nell’acquisto della mera disponibilità materiale della cosa stessa, anche se temporaneo e nello stesso luogo in cui la condotta è stata posta in essere[175].

Il tentativo è senz’altro configurabile, e si realizza quando la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea a produrre l’impossessamento della cosa mobile altrui mediante violenza o minaccia, e quando la direzione univoca degli atti renda manifesta la volontà di conseguire l’intento non ottenuto per ragioni indipendenti dalla volontà dell’agente[176].

II dolo del reato di rapina propria consiste nella coscienza e volontà di impossessarsi della cosa mobile altrui, sottraendola al detentore, accompagnata dalla coscienza e volontà di adoperare a tale scopo violenza o minaccia. Occorre, altresì, l’intento dell’agente di conseguire un ingiusto profitto. Il reato pertanto richiede il dolo specifico.

Il reato di rapina impropria è previsto a norma del comma II dell’art. 628 c.p..

Per quanto attiene alla configurabilità del tentativo sussiste una forte diatriba in merito alla sua ipotizzabilità specie se il soggetto immediatamente dopo aver posto in essere degli atti idonei ed univoci alla sottrazione della cosa, adopera violenza o minaccia alle persone per procurare a sé o ad altri l’impunità[177].

Parte della Giurisprudenza, sostiene che uno degli elementi costitutivi della rapina impropria è “l’avvenuta sottrazione”, e giunge alla conclusione che, laddove ci siano stati atti potenzialmente idonei all’impossessamento della cosa, senza che questa sia avvenuta, seguiti da atti idonei e diretti a procurare l’impunità, non può configurassi il tentativo di rapina impropria, poiché ne mancherebbe il “presupposto” necessario (cioè la sottrazione), dandosi luogo invece alla configurabilità del tentato furto ed eventualmente dell’altro autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la minaccia[178]. Dalla lettura della Sentenza non è però dato desumere quale sia la esatta qualificazione giuridica che la pronunzia ha voluto dare al sostantivo “presupposto”. Poiché, se è chiaro che la S.C. non ha ritenuto la sottrazione come un elemento costitutivo del reato in esame, poiché, altrimenti, sarebbe dovuta giungere alla logica conseguenza che il giudizio di idoneità ed univocità ben può farsi anche per gli atti diretti alla sottrazione e che dunque è ben configurabile il tentativo di rapina impropria, non è però altrettanto chiaro perché la sottrazione non possa essere ritenuto elemento costitutivo del reato.

In senso contrario si è espressa la sentenza della Corte di Cassazione n. 1291 del 31 gennaio 1991, in cui si riteneva sussistere il tentativo di rapina impropria quando l’agente, dopo aver compiuto atti idonei all’impossessamento della cosa altrui, che si sono arrestati in itinere per cause indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità.

Par. 7 Casistiche

Le strutture istituite dall’ordinamento legislativo italiano per il recupero dei minorenni sono costituite dai centri di Prima accoglienza e dall’Istituto Penale per minorenni: .
I Centri di prima accoglienza: (C.P.A.) ospitano i minori arrestati, fermati o accompagnati fino all’udienza di convalida, svolgendo nei loro confronti attività di sostegno e di chiarificazione. Essi inoltre forniscono all’Autorità Giudiziaria procedente i primi elementi di conoscenza della situazione che riguarda il minore e cercano di attivare le risorse familiari e ambientali, coinvolgendo gli altri Servizi dell’Amministrazione della Giustizia Minorile e quelli del territorio. Preparano le dimissioni del minore dal Centro o l’eventuale trasferimento ad altri Servizi o strutture. E’ una struttura non carceraria, collocata in gran parte presso gli Uffici Giudiziari; pertanto, il periodo di permanenza in questa struttura, anche se molto breve, permette di evitare l’impatto con l’istituto penale. Ma, ai sensi dell’art.18 c.2 D.P.R. 448/88, non tutti i minori arrestati o fermati vengono condotti in C.P.A. .
Istituti penali per minorenni: (I.P.M.) ospitano i minori sottoposti a provvedimento dell’Autorità Giudiziaria, che si trovano in custodia cautelare o in espiazione di pena. Ospitano inoltre i “giovani adulti” che hanno commesso reato da minorenni e che, come previsto dalla legislazione italiana, espiano la pena nelle strutture per minorenni fino al compimento del 21° anno di età. Le finalità proprie dell’I.P.M. sono identificabili nell’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, nel rispetto dei diritti soggettivi dei minori, e nell’attivazione di processi di responsabilizzazione e di promozione umana del minore. Gli I.P.M. sono 17, dislocati in quasi tutte le Regioni.

I dati sulla criminalità minorile in Italia indicano una diminuzione del numero complessivo dei minori denunciati (nel 1999, 22.132 –10,8%) nonostante l’aumento dei reati più gravi commessi dai giovanissimi (+61,1% di denunce per rapine, +65,4% per produzione e commercio di stupefacenti negli ultimi 5 anni). Preoccupante il fenomeno dell’abbassamento dell’età media di ingresso nei circuiti criminali (fatto che porta il 30% degli italiani a dichiararsi favorevole a portare da 14 a 12 anni l’età minima della punibilità)[179].
I dati sulle carcerazioni minorili in Italia  segnalano una sostanziale stabilità (dal 1991 al 1998 si è verificata una diminuzione dei minori negli istituti penali (-66) ed un lieve aumento  nei centri di prima accoglienza (+150).

Ingressi negli Istituti penali minorili
1991 Tot. 1.954
1998 Tot. 1.888          -66
Ingressi nei centri di prima accoglienza
1991 Tot. 4.072
1998 Tot. 4.222          +150
Ingressi negli Istituti penali minorili
1991 Tot. 1.954
1998 Tot. 1.888          -66

Analizzando le imputazioni per i singoli reati risulta che il maggior numero di esse ha riguardato, per i minori italiani, reati contro il patrimonio: 63,7% del totale, seguite dalle violazioni della legge sugli stupefacenti (20,5%) e da quelle relative a reati contro la persona (5,9%). Per i minorenni stranieri la stragrande maggioranza delle imputazioni ha riguardato reati contro il patrimonio: il 77,5% del totale,  che sale addirittura al 97,3% se ci riferiamo alla sola componente femminile[180].

Un quadro più ampio, a livello internazionale, evidenzia, invece come cambi la soglia di età nell’ambito della responsabilità penale dei minorenni[181].

Responsabilità penale dei minorenni: soglia di età nei vari stati
 

7 anni

 

8 anni

 

9 anni

 

10 anni

 

12 anni

Bangladesh Saint Kitts Etiopia Australia Canada
Barbados Scozia Filippine Fiji Corea del Sud
Belize Sri Lanka Irak Galles Giamaica
Cipro     Inghilterra Honduras
Ghana     Irlanda del Nord Marocco
Giordania     Nepal Uganda
Hong Kong     Nicaragua  
India     Nuova Zelanda  
Iralanda     Sierra Leone  
Kuwait     Vanuatu  
Libano        
Birmania        
Namibia        
Nigeria        
Pakistan        
Siria        
Stati Uniti        
Sudafrica        
Sudan        
Tasmania        
Thailandia        
Trinidad e Tobago        
Zimbabwe        
 

13 anni

 

14 anni

 

15 anni

 

16 anni

 

18 anni

Algeria Bulgaria Danimarca Argentina Belgio
Benin Camerun Egitto Bolivia Brasile
Burkina Faso Cina Finlandia Cile Colombia
Burundi Croazia Islanda Cuba Costa Rica
Cambogia Fed. Russa Isole Maldive El Salvador Guatemala
Ciad Germania Laos Indonesia Messico
Costa d’Avorio Giappone Norvegia Mongolia Panama
Francia Mauritius Perù Portogallo Uruguay
Guineda Israele Rep.Ceca Spagna  
Madagascar Italia Sudan Ucraina  
Mali Libia Svezia    
Niger Paraguay      
Polonia Romania      
Senegal Ruanda      
Togo Russia      
Tunisia Slovenia      
  Ungheria      
  Vietnam      
  Yemen      
Nota: le età sono indicative, possono differire in determinate circostanze in caso di gravi infrazioni o quando non può essere provata la capacità di discernimento del minore.

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Trib. per i minorenni di Torino, 24 febbraio 1978, in Foro it., 1979, II, p. 55.Tribunale min. Roma, 19 aprile 1983, in Nuovo dir. 1983, p. 746 e ss..Trib. L’Acquila, 16 novembre 1994, in Giur. merito, 1996, p. 105 e ss..Trib. Reggio Emilia 2 luglio 1997, in Il foro italiano, 1998, fasc. 5, pt. 2, pp. 349-451.Tribunale di Reggio Emilia, 2 luglio 1997, in Il foro italiano, 1998, fasc. 5, pt. 2, pp. 349-451.Tribunale di Palermo del 23 ottobre 1999, Andreotti, in Foro it., 2001, II, p. 96.LaureandoRomandini Riccardo

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  27. P. Marsh, E. Rosser, R. Harre, ult. op. cit., p. 86.
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  30. P. Marsh, E. Rosser, R. Harre, ult. op. cit., p. 138.
  31. P. Marsh, E. Rosser, R. Harre, ult. op. cit., p. 134.
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  39. Lamanna, “Gruppi minorili devianti e profilo di personalità dei leader”, in SRM Psicologia.
  40. Lamanna, ult.op.cit., in SRM Psicologia.
  41. La rinveniamo adottata per la prima volta verso la metà del ’700 da parte di alcuni autori tedeschi: HEIMBERGER, Die Teilnahme am Verbrechen in Gesetzgebung und Litteratur von Schwarzenberg bis Feuerbach, 1896, 146, 148, 154.
  42. PECORARO-ALBANI, “Il concorso di più persone nel reato”, Milano, 1961, p. 5-6.
  43. PECORARO-ALBANI, ult. op. cit., p. 6-7.
  44. Lamanna,” Gruppi minorili devianti e profilo di personalità dei leader” , in SRM Psicologia. L’autrice a sua volta un’indagine condotta da Erikson M.L. e Empey L.T. nel 1965.
  45. Faretto T.,” Bande minorili: Quando la violenza sessuale diventa di gruppo” , Associazione Italiana di Psicologia Giuridica Corso di Formazione in Psicologia Giuridi, Psicopatologia e Psicodiagnostica Forense, 2004, p. 2.
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  47. Fiorentino Frigerio, ult. op. cit. p. 228.
  48. Anche in riferimento ai diversi conflitti giudiziari che in tali casi si sono manifestati cfr. Tribunale di Roma, ord. del 9 febbraio 2003, il Tribunale di Roma ha osservato: “che il pieno sviluppo della persona umana mediante un proficuo inserimento nella nostra scuola (…v. art. 12 comma 2 L. 104/92) è un obiettivo al quale è strumentale il compito della Repubblica di prestare i mezzi per raggiungerlo ed ad esso fa riferimento l’art. 3 comma 2 della Costituzione interpretato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 215/1987 in connessione con le disposizioni di cui all’art. 2 8che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali qual è appunto la scuola), 34 (che garantisce l’effettiva istruzione) e 38 Cost. (che tutela con pienezza il diritto dei disabili all’educazione disponendo che ai compiti a ciò inerenti provvedano gli organi ed istituti predisposti ed integrati dallo Stato), è evidente che l’organizzazione dell’attività di sostegno da parte delle istituzioni scolastiche non può in via di fatto comprimere o vulnerare quel diritto riconosciuto alla persona de fonti sopranazionali, dalla Costituzione e dalla legislazione ordinaria”.
  49. Commissione VII, Cultura scienza e istruzione, Indagine conoscitiva sulla dispersione scolastica, 4 marzo 1999, in www.edscuola.it/archivio/statistiche/dispersione.pdf.
  50. Faretto T., Bande minorili: Quando la violenza sessuale diventa di gruppo, Associazione Italiana di Psicologia Giuridica Corso di Formazione in Psicologia Giuridica, Psicopatologia e Psicodiagnostica Forense, 2004, p. 3.
  51. Faretto T., Bande minorili: Quando la violenza sessuale diventa di gruppo, Associazione Italiana di Psicologia Giuridica Corso di Formazione in Psicologia Giuridica, Psicopatologia e Psicodiagnostica Forense, 2004.
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  55. Faretto T., “ Bande minorili: Quando la violenza sessuale diventa di gruppo”, Associazione Italiana di Psicologia Giuridica Corso di Formazione in Psicologia Giuridica, Psicopatologia e Psicodiagnostica Forense, 2004, p.5.
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  63. 51 Fiorentini G.,” Il coinvolgimento dei minori da parte della criminalità organizzata” in Rass.It. di Crim.,1995, Fasc. II, p. 225-252 e ss.
  64. Fiorentini G. Ult.Op. cit., pag. 234 e ss.
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  66. Legge 28 febbraio 1990 n. 39 in Gazzetta Ufficiale del 28 febbraio 1990 n. 49 denominata legge Martelli, e la legge 6 marzo 1998, n.40.
  67. Un’esposizione della storia delle diverse legislazioni è fatta da Di Nicola S., Migrazione e criminalità. Trent’anni dopo, in Rass. It. di Crim., 1998, p. 171-206.
  68. Caruso A., Da cosa nasce cosa : storia della mafia dal 1943 a oggi, Milano, 2004, p. 45 e ss..
  69. Lupo S., Storia della mafia : dalle origini ai giorni nostri, Roma, 2000, p. 56 e ss..
  70. Sesso R., Imputabilità e sistematica del reato, Milano 1963, p. 90 e ss..; Bettiol G., Diritto penale, Padova 1976, pag. 386 e ss..; Maggiore G., Diritto penale, Bologna, 1949, vol. I, p. 205 ss.; Manzini V., Trattato di diritto penale italiano, 1961, voi. I, p. 517 e p. 676 e ss..
  71. Carrieri F. Catanesi R., La perizia psichiatrica sull’autore del reato: evoluzione storica e problemi attuali, in Riv. It. Medicina legale, 2001, p. 15 e ss..
  72. Poetigliati Babbos M. Marini G., La capacità di intendere e di volere nel sistema penale italiano, Milano, 1964, p. 89 e ss..
  73. Bellavista G., Il problema della colpevolezza, Palermo, 1942, p. 67 e ss.; Dell’Andrò R., Capacità penale, voce in Enciclopedia del diritto, vol. VI, p. 130 e ss..
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  75. Russo Parrino E., Diritto penale minorile, Caltanissetta, 1951, p. 62.
  76. Antolisei F., Manuale di diritto penale, parte generale, VII ediz., Milano, 1975, p. 489 e ss..
  77. Secondo la giurisprudenza l’età del minore deve essere calcolata tenendo conto anche dell’ora di nascita Cass., 8 gennaio 1961, Tinti, in Giust. Pen. 1961, II, p. 386. In senso contrario si è espressa la sentenza del Corte di Cass. 16 gennaio 1974, Frulla, in Cass. pen. 1975, p. 522 che applicando il sistema di computazione civile ha affermato che è considerato minorenne che compie il delitto nel giorno del suo diciottesimo compleanno, benché in ora successiva a quella riportata sull’atto di nascita.
  78. Alta Villa E., La capacità di intendere e di volere del minore di 18 anni, in Rass. studi penit., 1953 p. 591 e ss..
  79. Manzini, ult. op. cit., vol. II, p. 81 e ss..
  80. Nello stesso senso Marucci A., La capacità di intendere e volere dell’imputato minorenne, in La scuola positiva, 1951, p. 228 e ss.. Cass., sez. VI, 12 marzo 2003, in Rep. Foro it., voce: imputabilità, 2003, n. 7.
  81. Trib. L’Acquila, 16 novembre 1994, in Giur. merito, 1996, p. 105 e ss..
  82. Cass. 20 aprile 1989, in Riv. Pen., 1990, p. 781.
  83. Corte di Appello di Milano, 21 maggio 1999, in Famiglia e dir., 2000, p. 145 e ss..
  84. Cass., sez. VI, 10 marzo 2003, in Rep. Foro it., voce: Imputabilità, 2003, n. 6.
  85. Il codice Zanardelli non faceva riferimento alla capacità di intendere e volere ma al termine “discernimento” anche se la dottrina non ha considerato positivamente tale riferimento essendo in realtà impreciso cfr. Ponti G. , Gallina Fiorentini P., Imputabilità e immaturità nel procedimento penale minorile, in Riv. di polizia 1983. p. 562.
  86. Ponti G. , Gallina Fiorentini P., ult. op. cit., p. 563 e ss..
  87. Trib. per i minorenni di Torino, 24 febbraio 1978, in Foro it., 1979, II, p. 55.
  88. Assisi Foggia, 9 febbraio 2000, in Riv. It. Dir e proc. Pen., Infante, 2000, p. 1561
  89. Trib. per i minorenni di Torino, 24 febbraio 1978, in Foro it., 1979, II, p. 55.
  90. Trib. per i minorenni di Firenze, 4 giugno 1975, in Dir. di famiglia e delle persone 1977, p. 185.
  91. Trib. per i minorenni di Roma, 22 marzo 1973, in Giust. pen., 1974, II, p. 87.
  92. Cass. 10 novembre 1987, in Giust. Pen., 1988, II, p. 321.
  93. Cass. 22 gennaio 1993, Rizzotto, in Cass. pen., 1993, p. 805; G. M. Vulcano, Sulla capacità di intendere e di volere dei minori ultraquattordicenni, in Nuov. Dir., 1986, p. 746.
  94. Tribunale min. Roma, 19 aprile 1983, in Nuovo dir. 1983, p. 746 e ss.; Cass. 1 ottobre 1990, Triolo, in Riv. Pen. , 1991, p. 861 e ss..
  95. Cass., 9 aprile 1990, Massa, in Cass. pen., 1981, p. 1221 e ss..
  96. Cass., 11 gennaio 1988, Marcioni, in Giust. Pen., 1989, II, p. 227.
  97. Cass. 10 maggio 1991, Giarratano, in Riv. Pen., 1992, p. 29 e ss..
  98. Cass. 4 novembre 1980, Miniaci, in Giust. Pen., 1981, II, p. 640 e ss.; Cass. 10 gennaio 1981, Mazzotti, in Cass. pen., 1982, p. 1299.
  99. A. Di Nicola, Piccole gang, forte disagio, in Polizia Moderna, Anno LII, n. 2, febbraio 2000, p. 2 e ss..; A.K. Cohen, Ragazzi delinquenti una penetrante analisi sociologica della cultura della gang, Milano, Feltrinelli, 1963,p. 78 e ss..
  100. A.K. Cohen, ult. op. cit., p. 89 e ss..
  101. Secondo questo rapporto i minori denunciati alle forze dell’ordine sono diminuiti del 17,4 % passando da 26.783 a 22.132. Se, inoltre, si guarda ai dati relativi ai ragazzi denunciati alle procure, che comprendono sia i soggetti denunciati direttamente dai cittadini sia quelli per cui si procede d’ufficio, si nota anche qui un trend decrescente: si passa da 44 .977 a 43.897 casi con una variazione percentuale in negativo del 2,4 %.
  102. Cappello G., Il rato di violenza sessuale di gruppo nell’ambito della responsabilità di tipo concorsuale, in Diritto e Formazione, 2002, fasc. 4, p. 591 e ss..
  103. Becucci S., La criminalità organizzata di matrice etnica negli Stati Uniti: la cosa nostra e i gruppi criminali cinesi, uno studio comparato, in Rass. It. Criminologia, 1998, fasc. 3-4, p. 451 e ss..
  104. Cass., 11 marzo 1991, in Riv. pen., 1992, p. 498 e ss..
  105. In senso contrario Assisi A. Caltanisetta, 7 aprile 2000, Aglieri, in Foro it., 2002, II, p. 360 la cui sentenza afferma che “l’appartenenza ad un organismo di vertici quale la commissione di Cosa nostra è sufficiente a fondare la responsabilità, a titolo di concorso morale, per gli omicidi <<eccellenti>> commessi da altri associati nell’interesse strategico dell’organizzazione criminale…”
  106. Cass., sez. VI, 21 settembre 2000, Villecchia, in Foro it., 2001, II, p. 405 e ss.. La sentenza afferma che “la realizzazione di una condotta punibile ai sensi dell’art. 642 ter c.p.p, pur se aggravata dal fine di agevolare l’associazione mafiosa, non è di per sé sufficiente ad integrare in capo a un soggetto non facente parte del sodalizio gli estremi del concorso esterno nel reato di cui all’art. 416 bis del c.p., a meno che non si traduca in un intervento di sostegno all’organizzazione criminale tendente a farle superare una situazione di momentanea difficoltà, e sia comunque dimostrato che l’agente si sia avvalso della forza d’intimidazione del vincolo associativo di tipo mafioso e dello stato di assoggettamento e omertà che ne deriva”.
  107. Secondo il Tribunale di Palermo del 23 ottobre 1999, Andreotti, in Foro it., 2001, II, p. 96: “per configurarsi la sussistenza dell’elemento soggettivo del concorso eventuale nel reato di cui all’art. 416 bis del c.p.p è necessario provare che l’imputato abbia agito con coscienza e volontà di apportare all’associazione di tipo mafioso un contributo casualmente rilevante per la conservazione che essa può indifferentemente manifestarsi o come previo concerto o come intesa istantanea ovvero come semplice adesione all’opera di un altro che rimane ignaro”.
  108. Cass., sez. un., 30 ottobre 2002, Carnevale, in Foro it., 2003, II, p. 453 e ss. specifica che “quanto al profilo soggettivo, il concorrente esterno nel reato di associazione di tipo mafioso è tale quando, pur estraneo all’associazione, della quale non intende far parte, apporti un contributo che sa e vuole sia diretto alla realizzazione, magari anche parziale, del programma criminoso del sodalizio”.
  109. Cass., 15 dicembre 1978, Campagna, in Cass. pen., 1980, p. 1513 e ss..
  110. Cass. 4 maggio 1987, Lombardi, in Giust. Pen, 1988, II, p. 213 e ss..
  111. Cass., 31 marzo 1952, Bonifazi, in Giust. Pen., 1952, II, p. 814 e ss..
  112. Cass., 30 aprile 1999, in Cataldo, C.E.D., Cass., n. 213846.
  113. Cass., 22 febbraio 1979, Pino ed altri, in Giust. Pen., 1980, II, p. 162 e ss..
  114. Cass., 22 luglio 1995, Barchiesi, in Riv. Pen., 1996, p. 504 e ss..
  115. Cass., 5 dicembre 1994, Semeraro, in Cass. Pen., 1996, p. 77 e ss..
  116. Cass. 15 gennaio 1997, Ciampà, in Cass. pen., 1998, p. 803 e ss..
  117. De Francesco G., voce Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. Disc. Pen., 1987, vol. I, p. 289 e ss..
  118. Manzini, ult. op. cit., vol. VI, p. 195 e 205.
  119. Cass. 17 giugno 1987, Arcella , in Cass. pen., 1989, p. 378 e ss.; Cass. 14 marzo 1997, Maranto, in cass. pen., 1998, p. 2345 e ss..
  120. Cass. 22 aprile 1985, Alsan, in Cass. pen., 1987, p. 1323.
  121. Spagnolo G., L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, p. 90 e ss..
  122. G. Marini, voce Ordine pubblico, (delitti contro l’), in Nss. Dig. It., App. vol. V., Torino, 1984, p. 574 e ss..
  123. Cass. 22 maggio 1987, Saccà, in Cass. pen. 1988, p. 1846 e ss..
  124. Cass., 26 gennaio 1993, Beni, in Riv. Pen., 1993, p. 1148.
  125. Cass., 18 maggio 1994, Clementi, in Foro it., 1994, II, p. 560 e ss..
  126. Corte Appello di Milano, 5 novembre 1993, in Foro it., 1995, II, p. 689 e ss.; Colaianni N., Caso Scientology: associazione religiosa o criminale?, in Foro it., 1995, p. 689 e ss..
  127. G. Insolera, L’associazione per delinquere, Padova, 1983, p. 229.
  128. De Luca R., Vivere per uccidere, a cura di Calusca, Padova, 1997, p 78 e ss.. L’autore a partire dal 2000, coordina il coordinatore del GORISC («Gruppo Osservatorio di Ricerca, Intervento e Studio sulla Criminalità»), un gruppo di lavoro in ambito universitario che si occupa di omicidio seriale, crimini sessuali e pedofilia, sette sataniche, criminalità organizzata, terrorismo e computer crime.
  129. Satanisti, al lavoro il Ris, S’indaga su dieci morti sospette, in Repubblica, 12 giugno 2004.
  130. Baby gang contro gay e disabili quattro minorenni arrestati, in Corriere della Sera, del 22 dicembre 2004.
  131. Roghi di auto, indagata ‘baby gang’, in QuotidianoNazionale.it, del 30 marzo 2005.
  132. L’esame della tematica è affrontato nel successivo capitolo.
  133. Rossi M., Un’ipotesi di violenza sessuale realizzata da parte di più persone non integrate il delitto di violenza sessuale di gruppo, in Giur. Di merito, 1998, fasc. II, p. 292 e ss..
  134. Tribunale di Reggio Emilia, 2 luglio 1997, in Il foro italiano, 1998, fasc. 5, pt. 2, pp. 349-451.
  135. Rossi M., ult. op. cit., p. 293.
  136. Cass. sez. III pen. 11 ottobre 1999, in Diritto penale e processo, 2000, fasc. 1, pp. 103-105; Fiandaca Giovanni, La Cassazione definisce (ma non troppo) la violenza sessuale di gruppo, in Diritto penale e processo, 2000, fasc. 1, pp. 103-105
  137. Genovese I., Sulla violenza sessuale di gruppo, Nota a Trib. Reggio Emilia 2 luglio 1997, in Il foro italiano, 1998, fasc. 5, pt. 2, pp. 349-451.
  138. Mulliri, La legge sulla violenza sessuale. Analisi del testo, primi raffronti e considerazioni critiche, in Cass. pen., 1996, p. 746 e ss.; Musacchio, Le nuove norme sulla violenza sessuale: un’opinione sull’argomento, in Giust. Pen., 1996, II, p. 121 e ss..
  139. Padovani, Commento al’art. 1, in Commentario delle norme contro la violenza sessuale, a cura di Cadoppi A., padova, 1996, p. 1.
  140. Cass. 1 luglio 1996, in Rep. Foro it., 1996, voce: Violenza sessuale, nn. 28, 29 33.
  141. Cass. 20 giugno 1988, in Rep. Foro it., 1989, voce: rapina, n. 14.
  142. Cass., 9 giungo 1983, in Giust. Pen., 1984, II, p. 144; Cass. 30 gennaio 1984 in Giust. Pena, 1985, II, p. 725 e ss..
  143. Fiandaca G., Criminalità organizzata e controllo penale, in Ind. Pen., 1991, p. 5 e ss..
  144. De Vero G., Tutela penale dell’ordine pubblico, Milano, 1988, p. 290 e ss..
  145. Valiante M., L’associazione criminosa, Milano, 1997, p. 275 e ss..
  146. Turone G., Il delitto di associazione, Milano, 1995, p. 265 e ss..
  147. Cass., 1 aprile 1992, Bruno, in Cass. Pen., 1993, p. 1987 e ss..
  148. Cass. 6 dicembre 1994, Inerti, in Cass. pen. 1996, p. 3627.
  149. Isolera G. Diritto penale e criminalità organizzata, Bologna, 1996, p. 70 e ss..
  150. Ingroia A., voce: Associazione di tipo mafioso, in Enc. dir., Milano, 1997, Agg., vol. I, p. 137 e ss..
  151. Cass. 30 gennaio 1985, Scarafaggio, in Cass. pen., 1986, p. 1519 e ss..
  152. Cass., 30 settembre 1986, Amerato, in Riv. Pen., 1987, p. 871 e ss..
  153. Spagnolo, ult. op. cit., p. 47 e ss..
  154. Ingroia A., ult. op. cit., p. 80 e ss..
  155. Cass., 15 aprile 1994, Matrone, in Cass. pen., 1996, p. 76 e ss..
  156. Becucci S., La criminalità organizzata di matrice etnica negli Stati Uniti: la cosa nostra e i gruppi criminali cinesi. Uno studio comparato, in Rass. It. Crim., 1998, fasc. 3-4, p. 451 e ss..
  157. Becucci S., ult. op. cit., p. 452.
  158. Becucci S., ult. op. cit., p. 452.
  159. Forentini G., Il coinvolgimento dei minori da parte della criminalità organizzata, in Rass. It. di crim., 1995, fasc. II, p. 225-252 e ss..
  160. Forentini G., ult. op. cit., p. 234 e ss..
  161. Mortone G., Delinquenza minorile e criminalità organizzata nella Puglia, in Minori e Giustizia, 2000, fasc. 1, p. 124 e ss..
  162. Ghiara A., E legittima la sottrazione dei minorenni, coimputati con maggiorenni, alla giurisdizione del tribunale dei minori?, in Giur. Pen. 1982, p. II, p. 177 e ss..
  163. Gerosa G., L’induzione a delinquere di minori incapaci nel quadro dell’emergenza criminalità, in Riv. Pen., 1991, fasc. 2, p. 127 e ss..
  164. F. Bricola, voce Danneggiamento (dir pen.), Enc. Dir., vol. XI, Milano, 1962, p. 603.
  165. S. Ranieri Manulae di diritto penale, III, Padova, 1952, p. 356 e ss..
  166. B. Assumma, voce Danneggiamento, in Enc. Giur. Treccani, vol. X, 1988, 2;
  167. Cass.,17 febbraio 1953, Germi, in Riv. it. dir. pen., 1952, p. 373. ho
  168. F. Bricola, voce Danneggiamento (dir. pen.), in op. cit., p. 604
  169. Cass. 3 maggio 1988, Zoerdan, in Riv pen., 1989, p. 250 e ss.; Cass. 21 ottobre 1981, Allegrini, in Giust. Pen., 1982, II, p. 617 e ss..
  170. F. Bricola, voce Danneggiamento, op cit., p. 605 e ss..
  171. F. Bricola, voce Danneggiamento, op cit., p. 600 e ss..
  172. B. Assuma, voce Danneggiamento, in Enc. Giur. Treccani, vol. I, 1988, p. 7.
  173. Pret. Palestina, 13 novembre 1977, De Bellis, in Riv. dir. pen., 1978, p. 408 e ss..
  174. Cass. 18 febbraio 1991, n. 2224 in Rep Foro it., 1992, voce: rapina, n. 96; Cass. 27 febbraio 1978, n. 2238 in Rep. Foro it., 1979, voce: rapina, n. 105.
  175. Cass., 30 gennaio 1998, n. 1237 in Rep. Foro it., 1998, voce: rapina, n. 89.
  176. Cass. 25 marzo 1994, n. 3596 in Rep. Foro it., 1995, voce: rapina, n. 109.
  177. Cass. 31 gennaio 1991, n. 1291, in Rep. Foro it., 1992, voce: rapina, n. 119.
  178. Cass., 3 novembre 1999, n. 3791, in Rep. Foro it., 2000, voce: rapina, n. 79.
  179. Censis, Prevenire per non peggiorare. Un manuale europeo per la prevenzione della criminalità giovanile, in “Censis note & Commenti”, n 629, 2002, pp. 72-73
  180. Gruppo Abele, Annuario Sociale 2000, Feltrinelli, Milano, 2000, pp. 256 – 261.
  181. Gruppo Abele, Annuario Sociale 2001, Feltrinelli, 2001, p. 262.

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