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” LA VITA E LA FELICITÀ ” – DOTT.RE MARCO CALZOLI

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Redazione-  Il vangelo di Matteo, al capitolo 22, così recita:“23 In quello stesso giorno vennero a lui dei sadducei, i quali affermano che non c’è risurrezione, e lo interrogarono: 24 «Maestro, Mosè ha detto: Se qualcuno muore senza figli, il fratello ne sposerà la vedova e così susciterà una discendenza al suo fratello. 25 Ora, c’erano tra noi sette fratelli; il primo appena sposato morì e, non avendo discendenza, lasciò la moglie a suo fratello. 26 Così anche il secondo, e il terzo, fino al settimo. 27 Alla fine, dopo tutti, morì anche la donna. 28 Alla risurrezione, di quale dei sette essa sarà moglie? Poiché tutti l’hanno avuta». 29 E Gesù rispose loro: «Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture né la potenza di Dio. 30 Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo. 31 Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: 32 Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Ora, non è Dio dei morti, ma dei vivi». 33 Udendo ciò, la folla era sbalordita per la sua dottrina”.

Dei sadducei non abbiamo molte notizie, e le poche a noi giunte, sono tendenziose in quanto dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme del 70 d.C. prevale la corrente dei farisei, quella opposta, la quale non ama rivelare le tesi degli avversari. Giuseppe Flavio paragona i sadducei alla scuola filosofica epicurea in quanto più orientati alla questioni della vita terrena. Non si sa l’origine esatta della corrente dei sadducei, probabilmente derivano da Sadoc, sommo sacerdote del tempio di Salomone. A questo personaggio si rifanno anche gli scritti di Qumran. C’è un interessante passaggio della Mishnà (trattato Avot) che parla di Anticono di Soco, un grande rabbino, che dice: “Non siate come quei servi che assistono il padrone per riceverne una ricompensa, ma come coloro che lo servono senza aver lo scopo di ricevere una ricompensa”. Un midrash aggiunge che Anticono di Soco ha due discepoli, i quali si chiedono se è possibile che si deve servire il padrone senza riceverne una ricompensa. “Se i nostri maestri avessero riconosciuto l’esistenza di un altro mondo e la risurrezione dei morti, non avrebbero detto questo. Decisero di separarsi dalla Torah e si divisero in due sette: i sadducei e i baitusei”, che passavano la vita nei piaceri in quanto non credevano che dopo la morte c’erano altri mondi. I sadducei e i baitusei sono due sette ebraiche del periodo del secondo tempio, che rinnegano la Torah orale e interpretano letteralmente la Torah scritta.

I sadducei non credono nella risurrezione finale né nel mondo dopo la morte né nell’anima né negli angeli (quest’ultima notizia ci proviene, oltre che dai vangeli, anche da Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche 18, 16). La setta è legata alla aristocrazia sacerdotale del secondo tempio, ai tempi di Cristo il loro capo è un collaborazionista dei romani, che sono i dominatori invasori, quindi i farisei e soprattutto gli zeloti li odiano, essendo, questi ultimi due, assai tradizionalisti e quindi nemici dei romani.

Questo provoca la disputa con Gesù riguardo la risurrezione dei morti, alla quale invece credono i farisei. Atti 4: i sadducei insieme ai sacerdoti perseguitano gli apostoli perché non possono tollerare che gli apostoli insegnino al popolo la risurrezione dei morti. Tra i maggiori persecutori degli apostoli ci sono i sadducei. In effetti Gesù e gli apostoli sono più vicini ai farisei.

I sadducei rifiutano la predestinazione divina, esaltando la responsabilità dell’uomo. I sadducei, infatti, rimuovono del tutto il fato e pensano che i mali derivino unicamente dalle azioni umane.

Paolo (Atti 23) sfrutta questa disputa tra farisei e sadducei riguardo la risurrezione dei morti per liberarsi dal giudizio: li fa litigare tra di loro e Paolo riesce a scappare.

L’elite quindi si confronta con Gesù Cristo, cioè sadducei e sacerdoti, e lo vogliono cogliere in fallo. Lo fanno secondo un caso della legge del levirato: se una donna rimane vedova senza figli (Deuteronomio 25, 5-6) essa deve essere sposata dal fratello del marito e dare così una discendenza al defunto. Il libro di Rut è basato su questo: Booz prende Rut perché questi è il parente più prossimo e quindi ha il diritto/dovere di sposare la donna, anche per mantenerla.

Nel brano evangelico in questione i sadducei propongono una casistica che mette in ridicolo la risurrezione dei morti. Gesù risponde che tale setta non conosce la “potenza” di Dio, in greco dynamis, termine che indica anche energia e dinamicità. Quindi Cristo rileva che i sadducei vogliono un Dio statico, troppo legato alla casistica e al pensiero degli uomini, al livello materiale del mondo, alla rigidità della legge. “Voi vi ingannate” è letteralmente in greco “voi andate errando”, proprio perché si perdono in una conoscenza fittizia delle Scritture. I sadducei accettano solo il Pentateuco, quindi Cristo cita il libro dell’Esodo, al capitolo 3 (allora egli entra nella loro sfera di conoscenza – potrebbe citare altri passi per confermare la risurrezione). Bisogna dire che nel Pentateuco non vi è una dichiarazione esplicita della risurrezione, invece essa ci sarà per esempio nei Maccabei, nella Sapienza, in Daniele, testi non accettati dai sadducei. Cristo dice che Dio è “dei vivi”, cioè in sostanza “dinamico”, che si mette a servizio della vita, cioè che crea e ri-crea in continuazione la nostra vita e anche la dottrina. Alla risurrezione non ci si sposerà e tutti saranno come angeli nel cielo. Gesù vuole punire anche la mancanza della fede dei sadducei negli angeli. Gesù Cristo vuole dire che nella risurrezione non ci saranno relazioni carnali, come invece vogliono mettere in ridicolo i sadducei.

Nel libro di Tobia, a Sara muoiono sette mariti, vuole suicidarsi ma non lo fa, invece prega Dio e Dio fa l’impossibile: Egli trae da quella storia di morte qualcosa di prodigioso, invia un angelo buono che mette i bastoni tra le ruote al demonio Asmodeo che uccide i mariti di Sara, e la fa sposare con Tobia.

In Esodo 3 Dio dice di essere il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe. Dio non ha chiamato questi tre personaggi per la morte ma per l’eternità, per la vita. Le loro moglie erano tutte sterili, ma Dio ha tratto da questa storia di sterilità una grande storia di vita, ma non solo qui, anche nel mondo ultraterreno, come rivela Cristo.

Ulisse intraprende un viaggio molto lungo per ritornare a casa, in questo mondo, ma Abramo esce dalla sua terra per intraprendere un itinerario verso una grande storia di vita, che mai avrà fine! Salmo 42: l’anima mia ha sete del Dio vivente. Quindi Dio ama la vita. In Esodo 3 Dio rivela il suo nome: “Io sono Colui che sono”, quindi è un Dio vivo e pertanto presente nella storia (Dio-con-noi, Emmanuel).

Gli ebrei del tempo di Gesù, quindi anche Cristo, citano a volte un versetto per voler alludere anche all’intero brano. Quindi Dio in Esodo 3 si rivela dentro un roveto che arde ma non si consuma. I rabbini dicono che il popolo ebraico sta nelle spine, nella sofferenza perché soggetto agli egiziani, e per questo Dio si rivela nelle spine del roveto ardente. Potrebbe trattarsi anche della prefigurazione, fatta da Cristo, delle spine della corona sulla sua testa durante la passione.

Inoltre, “questo roveto non veniva mangiato dal fuoco”, dice letteralmente Esodo 3: cioè non si corrompe, come non si corrompono i corpi dei morti, che alla fine risorgeranno.

È questa la “buona novella” (in greco euanghelion, donde la parola Vangelo) venuta al mondo con l’annuncio di Cristo. Cristo ha vinto la morte e ha aperto le porte del paradiso a chi crede in Lui.

Anche le altre religioni sono dei grandi annunci di vita, sebbene i teologi cristiani dicano che i non cristiani possono salvarsi se sono “giusti” solo però per i meriti del sacrificio di Cristo, l’unico Salvatore del mondo.

Persino il buddhismo parla della vita finale o di qualcosa di simile. In Occidente il termine nirvāṇa è divenuto sinonimo di annichilimento, scomparsa nel nulla. Ma i testi buddhisti più antichi non parlano di questo. A parte il fatto che nel brahmanesimo la parola sanscrita nirvāṇa viene da tempo immemorabile utilizzata per indicare tutti gli stati di realizzazione spirituale, ma nel buddhismo più antico è sinonimo di “estinzione” (nirodha).

Questa “estinzione” non è l’annullamento, per il quale dopo la morte si andrebbe nel nulla assoluto. Invece è la “estinzione” del desiderio e dell’io illusorio, che tiene attaccata la persona a questo mondo. Chi raggiunge il nirvāṇa ha estinto il desiderio, l’attaccamento, è libero dal mondo delle illusioni, quindi non si reincarnerà più. Ciò che fa reincarnare in un ciclo infinito di rinascite (samsāra) è il desiderio. Quindi il Buddha storico, che raggiunge il nirvāṇa, continua a stare sulla terra e a ammaestrare i discepoli, ma ha raggiunto uno stato assoluto per il quale ha interrotto il ciclo delle rinascite.

Le fonti più antiche parlano anche del pari-nirvāṇa, cioè quello definitivo, che si concretizza dopo la morte. Ma anche in questo caso non è il dissolvimento completo, bensì il raggiungimento di una beatitudine eterna in una condizione totalmente diversa dalla vita biologica, un’altra esistenza non esprimibile in termini occidentali, come l’entrata nel “vuoto” che penetra ogni cosa e la fa sussistere, non nel “nulla”.

A questo punto le due scuole oggi principali del buddismo, la Hinayana e la Mahayana, si dividono. Per la prima sono quasi esclusivamente i monaci a raggiungere il nirvāṇa, cioè coloro che hanno passato intere esistenze nell’ascesi, invece per la seconda tutti, anche le persone più cattive, raggiungeranno alla fine il nirvāṇa in quanto ogni essere possiede la “natura del Buddha” (tathāgatagarbha).

Bisogna poi dire che chi ha raggiunto il nirvāṇa è detto Buddha (quindi non solo il Buddha storico, che predica in India nel VI secolo a.C. e dà avvio al buddhismo). Ogni Buddha, dopo la morte, non reincarnandosi più, non raggiungerà più questo mondo, conseguendo uno stato eterno di felicità. Invece il Bodhisattva è colui che avendo raggiunto una grande illuminazione decide volontariamente di non conseguire quella assoluta, cioè il nirvāṇa: e questo per poter stare ancora qui ad assistere gli uomini lungo il loro cammino di perfezionamento.

In ambito taoista si parla di immortalità, cioè di una persona che non muore e continua a stare in questo mondo. Tale visione ha influenzato la concezione del nirvāṇa del buddhismo, il quale in certi ambienti è divenuto sinonimo di immortalità, anche in riferimento a una errata interpretazione di un testo capitale del buddhismo, il Dhammapada. In questo testo in pali, la lingua del Buddha storico (21) è scritto:

“La consapevolezza (appamado) è il cammino che conduce a “amata” (cioè al nirvāṇa), la distrazione è il cammino della morte. Coloro che sono consapevoli non muoiono, coloro che non lo sono è come se fossero morti”.

La parola pali “amata” deriva da “a” privativo/negativo + “mata”, morte. Si può però intendere in modi diversi. Molti hanno visto in “amata” un sinonimo di vita terrena perpetua, una sorta di immortalità taoista, ma altri passi del Dhammapada (come 277) affermano che ogni cosa è transitoria. Quindi per altri la parola “amata” andrebbe letta nel suo senso più antico di “non morte”, “senza morte”, “libero dalla morte”. Cioè non immortalità terrena, bensì uno stato per cui non ci saranno altre morti, essendo interrotto il ciclo delle rinascite che condanna a infinte morti e nascite in questo mondo illusorio.

Gli esoteristi dicono che l’essere umano è un Nexion, cioè un essere spirituale che sta momentaneamente sulla terra, ma avendo una sostanza spirituale, dopo il trascorso terreno, dovrà riandare nei mondi superiori, dai quali proviene.

Che tutti gli esseri senzienti abbiamo la “natura del Buddha” e che quindi tutti raggiungeranno lo stato di beatitudine eterna, è un insegnamento affascinante del buddhismo. Somiglia alla idea della apocatastasi in ambito cristiano, per il quale l’inferno è solo temporaneo, alla fine dei tempi Dio sarà tutto in tutti, pertanto i demoni e i dannati risorgeranno alla vita eterna e beata. Ma la chiesa cattolica taccia la dottrina della apocatastasi come eretica.

I giusti sono chiamati in questa vita alla gioia nel Figlio di Dio e, nell’altra, alla gioia perfetta in paradiso, che si completerà alla fine dei tempi con la risurrezione della carne.

Ogni uomo ha la vocazione alla santità e la responsabilità di guadagnarsi il paradiso con le opere buone.

Gli antichi greci definivano la felicità una virtù, in greco aretè. Aretè non ha un unico significato morale, ma significa in greco antico una condizione di eccellenza, di perfezione. Ancora oggi diciamo di un bravo musicista che è “virtuoso”, cioè “eccellente” in una specifica performance oppure si parla anche di “virtuosismo”.

La felicità è lo stato eccellente dell’essere umano, il raggiungimento della perfezione del suo esistere, tramite le opere buone.

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 53 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.

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