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” IL MODELLO DELLA POLIS GRECA ” DOTT.SSA GIOIA GRECO

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Redazione-  Il termine polis è legato innanzitutto alla difesa, infatti si può notare come la sua radice sia la stessa della parola pólemos, che vuol dire proprio ‘guerra’. Inoltre, in età classica, ci sono casi in cui polis è sinonimo di akrópolis, cioè ‘cittadella fortificata’. Dunque, è probabile che in origine per polis si intendesse l’insediamento sorto ai piedi della cittadella. Tuttavia, nell’uso della parola vi sono due accezioni differenti. La polis è in primo luogo da considerarsi un agglomerato urbanistico che ha alcune caratteristiche come una cittadella fortificata, un circuito murario, un’agorà. Tuttavia, questi elementi non erano sempre riscontrabili all’interno delle singole città-stato, come le traduciamo ora. Per tale motivo, sarebbe più corretto, seguendo le fonti antiche, tener maggiormente conto, nel concetto di polis, dell’aspetto sociopolitico. Perciò la polis è da considerarsi, prima di tutto, una comunità di uomini di condizione libera, retta da leggi. Il concetto può essere compreso meglio attraverso una frase scritta dal drammaturgo Euripide, Frisso fr. 828: «le città infatti sono gli uomini, non un luogo solitario». Dunque, per tradurre la parola in italiano il nostro termine città sarebbe inadatto, perché pone in evidenza l’aspetto materiale e urbanistico. La lingua latina, invece, distingue fra urbs e civitas: urbs “intesa come l’insieme degli edifici e delle infrastrutture”; mentre civitas pone l’accento sugli aspetti politici e sociali della comunità degli abitanti.

La polis è sempre vista più come una ‘comunità’, cioè come l’insieme dei cittadini, che come uno ‘Stato’, ovvero come un’istituzione collocata al di sopra dei singoli individui. Ciò è dovuto al fatto che essa consente una maggiore partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica. D’altra parte, la prevalenza dell’idea di comunità si spiega anche con il rifiuto della polis a riconoscere un potere o un’autorità che non derivano dalla volontà di costoro.

Nonostante il VIII secolo a.C. possa sembrarci come un tempo infinitamente lontano da noi, sicuramente è affascinante fare una riflessione che, partendo dalla semplice etimologia, può farci comprendere come la forma-mentis dei greci fosse già così simile alla nostra, proprio perché ne è a fondamento. Tali riflessioni che apparentemente sembrano essere puramente linguistiche, in realtà rivelano un modo di concepire la vita politica che è sicuramente attuale, e che ogni comunità dovrebbe ancora oggi far proprio quando si trova ad interrogarsi su cosa sia in realtà una città, un paese, poiché la sua natura, in vero, ne rivela anche lo scopo primario: quello di presiedere al bene comune. Sarebbe utile, dunque, guardarci attorno e capire se oggigiorno ciò avviene. Se la risposta a questo quesito fosse negativa basterebbe che ogni singolo diventasse promotore di una piccola grande rivoluzione, ovvero, agire in virtù dell’altro e, di conseguenza, anche del proprio bene.

A tal proposito, una grande pensatrice moderna, Hannah Arendt, in uno dei suoi libri, “Vita Activa” pubblicato nel 1958, propone pagine molto belle sulla civiltà dell’antica polis, in particolare quella dei tempi di Pericle, che esaltava i valori dell’interazione comune tra gli uomini liberi, cioè cittadini, in quanto protagonisti della vita pubblica. Dal suo punto di vista, alla base della coscienza politica greca vi era “la consapevolezza della superiorità della vita libera sul regno della necessità naturale”. La polis, secondo Arendt, rappresenta la realizzazione dell’ideale di libertà in un contesto pubblico. La libertà del singolo si manifesta quando è vista da altri, e nell’ambito pubblico, gli individui si incontrano in quanto cittadini, non come individui privati.

È bello pensare ad una vita politica fondata non sull’io ma sul noi, perché essere cittadino, e non individuo privato, vuol dire anche metter da parte oppure sacrificare il proprio ego, per avere a cuore la causa altrui e farla divenire propria. Significa far valere la propria idea, ma in un’ottica collettiva. Indica svestirsi dei propri panni di uomo o donna con i suoi egoismi, ma rimanere essenzialmente persona che abita una casa comune, dove il giardino di tutti rimarrebbe incolto se ognuno si occupasse esclusivamente di un angolo della propria stanza.

Ciononostante, questo non vuol dire riprendere e riproporre al presente  il modello della polis greca, poiché sarebbe un ragionamento anacronistico. Non bisogna certamente vivere nel passato, ma solo avere consapevolezza del legame con esso e trarne ciò che di buono ci ha lasciato.

Difatti nella politica dell’antica Grecia non vi era un distacco tra governatori e governanti, distacco che spesso proviamo oggigiorno, specialmente noi giovani, e che ci appare incolmabile. Nonostante possediamo mezzi di comunicazione che ci consentono quasi totalmente di azzerare le distanze e che ci tengono costantemente informati, percepiamo la politica come un qualcosa che non sembra toccarci in prima persona. Si può notare come negli ultimi tempi molte figure di spicco nel nostro panorama politico sono “sbarcate” sui social network. Potremmo immaginare questi come le agorà di un tempo, cioè piazze, spazi pubblici di riunione, ma che sono in grado “accogliere” e “connettere” il mondo intero. Si tratta di un passo avanti nei confronti dei ragazzi, ma sicuramente non di quello decisivo. Se la strategia è quella di pensare di coinvolgere attraverso post accattivanti, non si raggiungeranno grandi risultati. Quello che manca alla nostra popolazione di giovani è la presenza di figure che possano essere da esempio concreto. Se le generazioni passate sentivano di esser parte di un qualcosa, è perché avevano davanti loro persone che credevano fermamente nel loro potenziale. Oggigiorno, invece, il giovane viene percepito come indifferente, indisponente, disattento. Però quando guarda la tv o legge sullo schermo dello smartphone, si confronta con pensieri, modi di fare che non sembrano rappresentarlo a pieno.

 La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica. È un po’ una malattia dei giovani l’indifferentismo. «La politica è una brutta cosa. Che me n’importa della politica?»

Queste sono alcune delle parole tratte dal discorso che Piero Calamandrei pronunciò il 26 gennaio 1995 Milano nel Salone degli Affreschi della Società Umanitaria, partecipando ad un ciclo di conferenze sulla Costituzione. Le sue parole erano rivolte a studenti universitari e medi. Anche egli sosteneva che l’indifferenza fosse “un po’ la malattia dei giovani”. Tuttavia, non la pone come una critica decostruttiva, volta esclusivamente a puntare il dito. Al contrario, egli in prima persona si rivolge ad una folla di ragazzi, senza filtri, senza strumenti che non siano le sue parole e, così facendo, annulla la distanza tra politica e giovani, semplicemente perché dimostra di aver fiducia in loro. Questa fiducia la mostrò rivolgendosi a loro e avendo la consapevolezza che essi sarebbero stati il futuro. Proprio per questo, porge nelle loro mani la chiave di conoscenza dello strumento principale del nostro paese: la Costituzione.

In questo modo si pone l’antidoto per la malattia dell’indifferenza, parlando con schiettezza, sincerità, considerando i ragazzi il motore del futuro e non rappresentanti di una generazione ormai “bruciata”.

Come diceva Aristotele l’uomo è politikòn zôon, uomo politico, e Zòon lògon èchon, uomo dotato di parola: essa è infatti elemento essenziale alla creazione di uno spazio d’intelligenza collettiva. Ciò vuol dire che tutti noi siamo portati per la nostra stessa essenza, a sentirci parte di una polis, sia che essa venga considerata come città di persone, sia come comunità di anime.

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