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D’ANNUNZIO, DISNEYLAND E LA CULTURA DEL GIACIMENTO-DI ANTONIO ZIMARINO

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Redazione-Una delle più grosse incomprensioni politiche e sociali rispetto al patrimonio culturale materiale e immateriale che l’Italia possiede (e che a dispetto di tutto, continua ad essere ampliato), è la questione del suo utilizzo.

Già di per sé, il termine “utilizzo” appare pericoloso: usare qualcosa significa servirsene per specifiche ( o individuali) finalità, per cui usare qualcosa di culturale, significherebbe usare significati e valori elaborati da altri (o dalla storia, o dal tempo) per proprie o specifiche finalità. Già questa è una grossa contraddizione rispetto al “campo di senso” e all’identità stessa di ciò che noi intendiamo nel termina “cultura”: una “cultura” che sia artistica, sociale, musicale, letteraria, scientifica etc. ha una propria identità e pensare di usare l’identità di qualcuno o qualcosa per ciò che interessa trarne, appare qualcosa di evidentemente stonato. Un tale atteggiamento presuppone la riduzione di quella cultura, di quella identità e di quei valori alla finalità che ho scelto per servirmene; tra l’altro, per compiere questa operazione, non ho necessariamente bisogno di guardare l’identità di ciò che ho di fronte, non sono tenuto a valutare il senso proprio di ciò di cui intendo servirmi.

Il fatto è che la “cultura” viene considerata oggi come bene materiale; ad esempio: “ho un museo e devo far si che produca risorse per se stesso e per l’indotto”. “Ho un monumento conosciuto e importante (o meno) e mi serve per far lavorare alberghi, ristoranti, editori, fotografi etc.” “Ho un libro e devo poterlo vendere al maggior numero di persone” etc. Credo però che ormai tutti siamo coscienti che “vendere” prodotti, che siano dentifrici, auto, prosciutti immagini, emozioni, ricordi, gusti, sia una operazione totalmente svincolata dalla necessità materiale di quel prodotto. Il marketing moderno insegna appunto che la pubblicità non vende automobili, ma sogni, aspirazioni e identità psico-sociali [1].

Insomma la “cultura” viene banalmente inserita nei processi di packaging, di branding  utili a collocarlo e a renderlo appetibile ad un mercato di consumatori di esperienze e di emozioni. In questo modo il prodotto di cultura per essere efficace e utile, deve poter essere gestito dalle strategie della sua valorizzazione economica, per cui la sua immagine, e quindi la percezione della sua identità, deve poter essere modellata sulle esigenze e le finalità della strategia di vendita. Ovviamente è più facile modellare qualcosa di poco consistente per cui, la cultura da piazzare sul mercato deve essere trattata in modo tale da poter stare nelle logiche promozionali e di vendibilità. Necessità quindi che di essa non si percepisca la reale identità ma solo ciò che mi è utile allo scopo di “venderla”.

Un esempio lampante di ciò, credo possa essere chiaramente visto nella recente produzione Rai della serie televisiva dedicata alla famiglia  Medici. La “storia”, quella del documento, dell’avvenimento, del contesto, della “realtà” è stata manipolata, colorata, forzata, distorta, spettacolarizzata, inventata di sana pianta secondo le regole della fiction. Analogo problema emerse, con ben altre polemiche sulla famosa operazione di marketing del “Codice Da Vinci”. Legittimamente, si può produrre finzione, dichiarandolo, ma Il problema emerge quando la “cultura di massa” non è cosciente della distinzione tra immagine venduta e dato del reale. Il pubblico di massa a cui questo tipo di produzioni vengono dedicate, non ha lo strumento di confronto tra immaginazione e documento, per cui finisce per considerare come vero il dato storico falsificato. In sostanza, il marketing e la sua strategia, non fa che “riscrivere” la storia, il documento, la percezione, il “senso” delle opere di cultura, secondo le regole della “funzione” a cui il marketing risponde. L’immaginario si svincola dal reale e non c’è più la percezione di esso.

Le conseguenze di tale questione sono tante e notevoli [2] ma adesso non mi vorrei soffermare su di esse, per altro molto urgenti e dibattute, ma mi focalizzerei su un altro modo di pensare ad un senso oeconomicus della cultura più coerente al “campo di senso” indicato dal termine stesso.

Economia deriva dal termine greco oikos che di per sé indica “ambiente/casa/spazio chiuso ma anche “comunità” “relazioni nello spazio”. Il termine ha quindi un campo di senso estremamente vasto e di per sé, sociale e relazionale [3]: credo che la vera identità del termine economico, non stia tanto in ciò che noi l’abbiamo fatta diventare attraverso la manipolazione storicamente attuata dall’ideologia del Capitalismo ovvero, sinonimo di produzione / vendita / monetizzazione / finanziarizzazione etc. Per rispettare l’identità del termine, o almeno la complessità del suo campo semantico, dovremmo piuttosto tornare ad associare l’idea di “economia” a quella  di “risorsa” cioè ad una condizione generale di spazi, beni e relazioni che offrono l’opportunità materiale di realizzare concretamente una possibilità.

Se parliamo di “cultura come risorsa” il discorso si fa piuttosto interessante: infatti, i fondamenti dell’antropologia culturale ci dicono che “cultura” è la complessa interazione tra dimensione antropica, sociale e ambientale in certo segmento spazio temporale. La cultura crea e ricrea se stessa, è dinamica, è un sistema adattivo di estrema complessità che genera costantemente altro da sé [4]. In quest’ottica, “cultura” è allo stesso tempo tanto “risorsa” che “prodotto”, ovvero, concretizzazione della risorsa stessa; quindi, se noi pensiamo a cultura come risorsa capiamo che essa rappresenta effettivamente il processo, la possibilità che ho di rendere reale e percettibile una “possibilità” pensata.

Immaginiamo ad esempio, la cupola di Brunelleschi: essa è cultura in quanto è la realizzazione concreta e simbolica di un progetto mentale che ha dovuto trovare la strada nel suo tempo e nel suo spazio per rendersi concreto. Lì dentro c’è il sapere di un epoca, la sua visione immaginale, le sue risorse finanziarie, la simbolizzazione di una città, di un tempo, di uno spazio. Lì dentro c’è l’intera cultura che noi riconosciamo come “rinascimentale” perché quella cupola non è la “finzione” imitativa del passato ma esattamente la possibilità che il passato e il presente hanno dato di pensare un futuro.

Credo dunque che se pensiamo alla cultura come “risorsa” dovremmo pensarla in questi termini: come qualcosa che mi permette di immaginare una diversa possibilità attuativa nel e del reale.

Se ciò si comprendesse, dunque non parleremmo più di bestialità come quella del “giacimento culturale” o di “sfruttare il turismo”, ma cominceremmo a vedere che la cultura è la risorsa per pensare cose diverse: il binomio economia – cultura non significherebbe “ti prendo dei soldi al museo, al ristorante e in albergo attirandoti qui e facendoti credere ciò che vuoi” ma piuttosto “offro l’opportunità di costruire le possibilità di creare un contesto di attività e di significati credibili”. Questa strategia, accompagnata da una comunicazione coerente, dovrebbe sostenere le persone sia nella realizzazione che nella fruizione (anche negli alberghi e nei ristoranti) di eventi o fatti culturali innovativi, perché la “novità” li rende interessanti da vedere in quanto possono dirmi quello che io sono e posso essere e non solo quello che sono stato.

Questa Economia questa Cultura creano “futuro” mettendo in opera le possibilità offerte dal Presente.

Facciamo un esempio particolare, che ovviamente ha tutti i limiti della “località” ma che credo sia esemplare di quanto sia quanto meno asfittico, pensare a “giacimenti culturali” cioè a cose immobili e non rinnovabili ma solo consumabili: Pescara, la città in cui abito non ha nulla o quasi di storicamente riconoscibile e caratterizzante. Che senso ha cercare di spremere significati o inventarsi nuove vuote retoriche sul poco che si ha? Come faccio a portare un turista in una casa dove D’Annunzio non ha mai abitato, in una città che fondamentalmente odiava e nella quale non ha messo più piede in tutta la sua vita?

Il marketing mi dice invece che D’Annunzio è un’idea forte, (non a caso è stato uno straordinario venditore di sé) molto riconoscibile in Italia e all’estero; mi dice pertanto che è l’idea più facile e conveniente per vendere un prodotto perché non devo spiegarlo ma è già brandizzato. Questo avrebbe senso a Gardone Riviera, per il Vittoriale, ma io nel caso di Pescara, non vendo un prodotto reale ma solo la sua illusione. Manipolo quindi la storia e cerco di creare qualche assurdo riferimento retorico o visivo o celebrativo per vendere un prodotto che ovviamente non è quello culturale ma è piuttosto la pizza del pizzaiolo, il brodetto del ristorante (alla D’Annunzio), il negozio di moda trendy o hipster (dannunzianissimo) che è nella città di D’Annunzio. Mi invento (e pago) marchi, stemmi, decorazioni posticce, conferenze dannunziane, biciclette dannunziane, mostre dannunziane etc. per vestire di credibilità una autentica baggianata storica, occultando la storia reale e riscrivendola ad usum pecuniae. Creo una realtà che non esiste, un non-luogo come Disneyland che ha continuamente bisogno di alimentarsi come illusione (prima di tutto filmica) in un luogo (Stati Uniti) decisamente poco caratterizzato storicamente. Si, bene, faccio i soldi, investo soldi, ma realizzo un immaginario svincolato dal luogo, cerco di rendere concreto qualcosa che non ha storia. Non è la stessa cosa della Cupola del Brunelleschi perché Disneyland non è il luogo del reale, ma della realtà della finzione. E’ entertainement, “società dello spettacolo”, spettacolo di immaginario mercificato (Marcuse e Debord docent), dove Pinocchio non è il Pinocchio di Collodi, ma quello riscritto e massacrato da Disney per gli americani. Il luogo dove tutte le favole sono state riscritte per essere rivendute all’ american way of life, dove quello stesso stile di vita ha scritto la sue becere favole di ambizioni, supremazie ed ego (Re Leone) .

Se invece penso la cultura come risorsa penso ad investire sulle possibilità che possono essere offerte adesso, da una città, di fatto, con poca storia riconoscibile. E allora penserei alla sua attualità, alla sua struttura urbanistica degradata, alle forze creative che non riescono ad uscir fuori, al disagio del lavoro giovanile, alla sua “vocazione” obbligata a fare i conti con le sfide (sfighe) del Contemporaneo. “Fare cultura” significherebbe identificare e offrire risorse perché si realizzino delle “possibilità”, cioè delle opportunità per dare un volto interessante e diverso che attiri certo, ma rispetto alla “realtà” che il tempo propone.

Brunelleschi non voleva rifare le antichità romane finte, ma qualcosa che desse il senso al suo spazio di vita e al problema reale di coprire “quella” chiesa senza cupola, in quella città, in quel tempo storico.

Insomma, credo che, pur custodendo e valorizzando correttamente ciò che è storico, non è possibile dimenticare che lì dove lo “storico” non sia così evidentemente caratterizzante il contesto contemporaneo, bisognerebbe cominciare a guardare, capire e valorizzare che cultura siamo ora o vorremmo essere domani. L’operazione di investire risorse su ciò che ha le potenzialità per durare e per costruire altre possibilità, deve poter andare di pari passo con il riconoscimento, la conservazione e la salvaguardia della propria identità; le due cose non possono essere distinte. Pertanto credo che l’unico vero possibile termine associabile a quello di “cultura” non sia qualcosa che la renda statica, morta e residuale, come il termine necrofilo di “giacimento”, ma piuttosto quello di vitale e propositivo di “risorsa” che la renda la cultura pensabile, progettabile, immaginabile.

Non più dunque giacimenti da sfruttare ma piuttosto identità da scoprire, capire e

valorizzare nella loro dignità.

[1] Cfr. ad es. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale, Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.

[2] N.D.R, moltissime le pagine citabili tra Marcuse e Debord, ma rimandiamo in generale a: Riccardo Motti, La mistificazione di massa. Estetica dell’industria culturale, Mimesis, Milano – Udine, 2013; o anche al più filosofico Slavoj Zizek, Che cos’è l’immaginario, Il Saggiatore, Milano, 2016.

[3] Max Weber M., Roth G., Wittich C., Economy and Society: An Outline of Interpretive Sociology, Univesity of California Press, 1978, p.348

[4] Cfr. Ad es.Ugo Fabietti, Elementi di antropologia culturale, Mondadori Università, Milano, 2004, pp.11-39.

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