CULTURA E COMUNICAZIONE NEI PROCESSI ESTETICI- DOTT.SSA STELLA CHIAVAROLI
«Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza,
scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima».
(Ingmar Bergman)“È assolutamente evidente che l’arte del cinema si ispira alla vita,
mentre la vita si ispira alla televisione.”
(Woody Allen)
Redazione-Prima di soffermare l’attenzione verso la cultura cinematografica, è necessario precisare cosa s’intenda per cultura, ovvero:“ L’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio. Complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico.“
La cultura nell’ambito cinematografico investe certamente anche l’area delle arti. La cultura e la creatività sono il fulcro connettivo della centralità cinematografica. La cultura plasma le nostre identitàe aspirazionie il nostro modo di relazionarci con gli altrie con il mondo. Inoltre, permea i luoghi e i paesaggi incui viviamo e gli stili di vita che adottiamo.
La rapida evoluzione delle tecnologie crea nuove sfidee opportunità per il settore culturale e creativo in Europa. L’Unione europea (UE) è impegnata ad aiutare chiunque partecipi a questo settore (dalle comunità locali che celebrano il loro patrimonio culturale ai produttori di film vincitori di concorsi) per cogliere le opportunità che si presentano e superare gli ostacoliesistenti.
Le sfide sono enormi. La diversità culturale è un punto di forza dell’UE, ma le differenze linguistiche e culturali determinano la frammentazione del mercato. La crisieconomica mondiale rende sempre più difficilefinanziare il settore creativo. Le nuove tecnologie digitali stanno avendo un impatto significativo suimetodi tradizionali di distribuzione: i contenuti delle grandi biblioteche vengono digitalizzati, ma è difficile sviluppare modelli economici sostenibili.
Il cinema è quel “complesso delle attività artistiche, tecniche, industriali che concorrono alla realizzazione di spettacoli cinematografici (film) e anche l’insieme di questi, come opera complessiva, in quanto concreta espressione d’arte nel campo della fantasia o strumento d’informazione, di documentazione scientifica, a fini didattici, informativi, ricreativi.”[1]
La produzione cinematografia d’impresa, quasi totalmente arrestatasi dagli anni ‘90, rappresenta oggi: un’espressiva testimonianza per immagini della storia economica e sociale del Paese; un patrimonio utile per incentivare una più attenta riflessione sul ruolo dell’impresa nella società
contemporanea; una ricchezza di cui recentemente si è intuito il valore storico e sociale, oltre che artistico.
Una forma importante di comunicazione sociale, che fonde insieme il gratuito dell’arte con il mercantile della comunicazione di massa, è lo spettacolo.
Lo spettacolo entra a costituire, come elemento decisivo, il sistema ‘cultura’. Per questo è presente, in forme diverse, congeniali all’indole di ogni popolo ed espressive della sua fisionomia spirituale, presso ogni cultura.
Della cultura di un popolo, lo spettacolo rappresenta prima di tutto uno specchio: nei suoi spettacoli ogni popolo rappresenta anzitutto se stesso, la sua storia passata, la sua vita attuale con le sue tensioni e le sue credenze, le paure e le speranze nei confronti del futuro.
Attraverso questo suo rappresentarsi, una cultura si autoriproduce, garantendosi continuità e creatività. Considerata da questo punto di vista, tutta la vita di un popolo è spettacolo nel senso etimologico della parola: vita allo specchio.Ma lo spettacolo non è solo un riflesso fedele e speculare della realtà; allo spettacolo vero e proprio compete sempre un certo carattere fittizio; lo spettacolo è una rappresentazione simbolica che trasfigura gli eventi, ne illumina il senso e li rende significativi per la vita dello spettatore. Del resto questa è una caratteristica, come si è già detto, di tutte le forme di arte.
Se nelle sue forme più elementari lo spettacolo è cosa di tutti, al punto che tutti ne sono insieme spettatori e attori, esso tende inevitabilmente a diventare più complesso. Anche per questo, presto o tardi, la funzione pubblica dello spettacolo viene affidata alla competenza di un gruppo ristretto di specialisti, particolarmente dotati e formati, che vengono a costituire una vera e propria professione, tanto più complessa e articolata quanto più complessa e articolata è la società: la professione degli uomini dello spettacolo.
Nella nostra attuale società, questa professione unisce in una sola funzione autori di testi, attori, registi, produttori, tecnici della ripresa cinematografica e televisiva, e mille altre competenze e specializzazioni particolari diverse. Questa intima correlazione tra la vita di un popolo e lo spettacolo che la rappresenta, trasfigurandola e svelandone il senso, carica lo spettacolo di significati morali e religiosi.
Lo spettacolo è nato come celebrazione religiosa: presso i popoli primitivi esso si risolve tuttora in una attualizzazione simbolica degli eventi originari e fondanti narrati nei miti, attraverso i quali viene interpretato e in qualche modo dominato il modo della vita.
Lo spettacolo ha assunto spesso il compito sociale di una consapevole e intenzionale educazione morale e di didattica politica. Qualcuno come A. Miller (1962) ha riconosciuto e teorizzato questo impegno: “È assolutamente errato – egli scrive nella sua introduzione a Erano tutti miei figli – affermare che v’è un profondo contrasto tra l’arte e un tema filosoficamente e socialmente significativo… Il fine del teatro è la creazione di una più alta coscienza, e non solo quello di stimolare i sentimenti e il sistema nervoso del pubblico”.
Del resto lo spettacolo risponde di sua natura a un bisogno di conoscenza.[2] Cultura e spettacolo, rappresentano un binomio imprescindibile nei processi estetici.
Gli aspetti visivi nei processi estetici risultano imprescindibili dall’arte stessa.
L’arte di Arte e percezione visiva è, quindi, la pittura e, contemporaneamente, l’arte in generale, non solo perché le altre arti, quelle visive e quelle non visive, sia pure in misura minore, sono egualmente presenti, ma perché le problematiche, relative ai processi cognitivi del fare e fruire arte, sono comuni a tutte le arti.
Lucia Pizzo Russo, sostiene che:
“La percezione poi, anche quando viene illustrata con materiale grafico, non è intesa come pittorica, dal momento che vengono tenute presenti e sottolineate le differenze tra mondo e rappresentazione, tra percezione ecologica e percezione delle arti. Insomma, in Arte e percezione visiva la messa a fuoco precedentemente utilizzata cambia.”[3]
Il concetto rappresentativo non è bello e formato nella mente prima di essere trasferito nelle forme consentite dal particolare medium. Arnheim sottolinea che la creazione di un’opera «consiste in un dialogotra colui che la concepisce e la concezione che gradualmente prendeforma nel medium. In nessun caso l’opera può essere descritta comela mera esecuzione della visione concepita nella mente dell’autore.Il medium offre sorprese e suggestioni. Perciò l’opera non è tanto unareplica del concetto mentale quanto una continuazione dell’invenzione formatrice dell’artista».[4]
Nel primo decennio del nuovo secolo, gli aspetti fenomenologici dell’arte sono diventatimateria di studio e d’approfondimento sempre più rilevanti, diversificandosi in modo anche significativo da quelli “classici” dell’estetica e della psicologia dell’arte, condizione resa più comprensibile dal fatto che oggi, più che mai, quasi tutti i campi di ricerca all’interno dei più differenti settori socio-culturali, vengono assorbiti in “tempo reale” dalle diverse forme delle arti contemporanee.
Questo excursus, rapido, quanto puntuale, sulle definizioni fenomenologiche e psicologiche dell’arte, così da rendere meno ostica la possibilità di tracciare un sentiero che conduca, con semplicità, ad una dottrina della “percezione artistica”. Tale definizione non si sarebbe potuta dare se non attraverso un viaggio retrospettivo che affonda le sue radici nell’estetica e nella filosofia. Si è, inoltre, reso imprescindibile per il nostro fine, affrontare l’opera di Wilhelm Wundt, di Sigmund Freud, Max Wertheimer e della Gestaltpsychologie, visto che l’attività percettiva si trova alla base di ogni esperienza visiva. Quindi la comunicazione visuale, intesa come grammatica del linguaggio “di immagine”, rende autonoma la lettura del “testo visivo” in modo più significativo nella nostra società, ormai sempre più costretta in “società dell’immagine”.
Quindi l’atto della percezione visiva -supportata dalle capacità sviluppate durante la crescita dell’individuo e correlata in stretto rapporto con l’attività intellettiva- determina il pensiero e la formazione dei concetti, coinvolgendo così una moltitudine di processi mentali, influenzando tutta l’organizzazione del pensiero.
Attraverso queste nozioni e le esperienze forniteci dalle diverse scuole di pensiero psicologiche
si è voluto guardare ad una dottrina della percezione rivolta all’arte, all’uomo artista, analizzandolo nel suo spessore psicologico per comprenderne l’aspetto fenomenico-percettivo del suo prodotto artistico: frutto di vero talento, trasposizione di fattori percettivi-onirici o pura creazione .
Si ha di seguito il logico congiungimento al pensiero creativo ed ai linguaggi ad esso collegati, in quell’assemblaggio di funzioni e processi che sono propri della visione umana. La dimensione creativa si presenta così come una delle costanti della riflessione mentale, tessuta di elementi cognitivi e di emotività, aperta alla ricezione dell’informazione iconica e alla generazione dell’informazione semantica. La creatività sostanzia la pratica dello sguardo, conducendola dai mondi del reale agli imperi della finzione, dai regni dell’immagine agli universi dell’immaginario.[5]Gli aspetti visivi nei processi estetici si alimentano di svariate forme creative ed artistiche capaci di generare grandi emozioni.
Non vanno certamente dimenticati quelli che sono gli aspetti sonori nei processi estetici. Nel corso di un determinato periodo storico, il fruitore di opere d’arte è stato portato a considerare che esiste una lettura dell’arte avente categorie interpretative differenti da quelle precedenti.
Ad esempio ad una spazialità diversa da quella delle pitture del Seicento, del Settecento e dell’Ottocento. Non è una spazialità mimetica della natura, ma una concezione dello spazio
profondamente diversa e strettamente collegata al mondo interiore.
Lo spazio inizia ad essere colto dall’animo e, di conseguenza, comincia a rompersi, a svolgersi, ad avvilupparsi e a trascinarsi. Era un’epoca in trasformazione, in piena metamorfosi, e tale processo investì anche il concetto di spazio e di tempo, così rilevanti per la pittura e per la musica.
L’introduzione del sonoro, fu un processo molto lungo e complesso. Già nel 1923 Lee DeForest introdusse il suo Phonofilm, ma decise di rimanere una piccola società indipendente e non sfruttò a pieno la sua invenzione. Nel 1925 la Western Electric mise in commercio un sistema innovativo di registrazione su disco, ma la maggior parte degli studios preferì aspettare ulteriori sviluppi. La Warner Bros., che in quel momento era in piena espansione, sfruttò il nuovo sistema sonoro solo come alternativa all’intrattenimento dal vivo, così da contenere i costi di gestione. Poi, nel 1926, la Warner Bros collaudò il metodo Vitaphone, dando vita a ben otto cortometraggi. La vera svolta arrivò solo nel 1927, quando sui grandi schermi approdò Il cantante jazz, la prima pellicola in cui parte delle sequenze erano accompagnate dalla musica e dalle parole dell’artista. Dal grande successo dei Warner si intuì il grande consenso che riscuoteva il sonoro e nel 1928 uscì il primo film interamente sonorizzato: The lights of New York di Bryan Foy.
Negli stessi anni, la Fox, ideò un sistema alternativo che si ispirava all’idea di DeForest: il Movietone.
Un terzo sistema alternativo fu brevettato dalla Radio Corporation of America: il Fotophone, ma nel 1927 i cinque grandi studi hollywoodiani firmarono un accordo con il quale decisero di adottare il Vitaphone come unico sistema.
La nuova tecnologia mise a dura prova tutti gli addetti ai lavori, e per i primi anni gli studios decisero di far uscire i film in due versioni: muto e sonoro, per poi rendersi conto che nel 1932 l’innovazione del sonoro aveva già conquistato l’intero paese.
Inizialmente il sonoro creò non poche difficoltà durante le riprese. I microfoni fissi registravano tutto, anche i rumori delle apparecchiature che dovevano essere isolate, inoltre limitavano molto la mobilità della macchina da presa. Per non perdere lo stacco tra il suono e il movimento delle labbra degli attori, vennero posizionate più macchine da presa. Il ricorso alla cinepresa multipla non restituiva lo stesso stile del muto, poiché le cabine usate per isolare le macchine non permettevano una totale libertà di movimento. I microfoni, poco sensibili, costrinsero gli studios ad obbligare gli attori a frequentare scuole di dizione così da recitare in modo chiaro e scandito, causando recitazioni rigide e innaturali. Una grande svolta arrivò nel 1931, con la possibilità di registrare su diverse piste sonore, permettendo di aggiungere i suoni in sede di montaggio.
L’avvento del cinema sonoro creò molti problemi anche alle esportazioni, a causa delle barriere linguistiche difficili da superare. I primi doppiaggi ebbero scarso successo dato che il labiale non corrispondeva al suono e nemmeno i sottotitoli erano graditi al pubblico. Nel 1929 si prese la drastica decisione di girare i film in più lingue; finita una versione entravano altri attori per rigirare le scene, ma dopo poco tempo, a causa dei costi elevati, si capì che non era la soluzione migliore. Dal 1931 il mixaggio su piste audio migliorò molto, permettendo di sincronizzare la voce con il movimento delle labbra. Il sistema sonoro era finalmente pronto ad accompagnare i film sul grande schermo per gli anni a venire.[6]
Il suono si configura come una tra le molte dimensioni dello spazio e si distingue come parametro fortemente identitario per le sue caratteristiche fisiche e simboliche.
Il tema dello ‘spazio’ nel dibattito contemporaneo s’introduce come entità complessa, ricca di proprietà solide e materiali, cui si affiancano componenti incorporee, quali la luce e il colore, le immagini e il suono.
Gli approcci al suono, ti tipo estetico e qualitativo , possono condurre a una diversa interpretazione fornita sicuramente dal Design sonoro. Basti pensare, ad esempio, al sonoro dei videogiochi.
La musica per videogiochi è diventata popolare. Anche se ha soltanto eguagliato -o, alle volte, superato – la qualità della musica offerta da altre industrie dell’intrattenimento, è difficile negare la crescita della popolarità della musica per videogiochi, la sua portata globale e la sua influenza culturale.Il modo di ascoltare la radio e guardare la Tv oggi è cambiato! Ormai la musica, i programmi e tutti i con tenuti multimediali si possono scaricare in qualsiasi momento, gratuitamente e con l’utilizzo di una sola connessione. Non solo. Qualsiasi contenuto multimediale, anche foto, video,appunti o le diverse combinazione di questi elementi possono essere condivisi su internet. Tutto questo è il Podcast. Dall’unione di iPod e Broadcasting, fin dal 2004, è nato il prototipo di questo moderno ritrovato della tecnologia, per facilitare il modo di ascoltare la musica in formato mp3. Ma adesso, perfezionato e diffusissimo, il Podcast è alla portata di tutti, per ogni tipo di contenuto e per le più diverse applicazioni.
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Tra gli aspetti coloristici, invece, si denota un forte impatto visivo e allo stesso tempo emotivo.
Il metodo rivoluzionario di Ejzenŝtejn: “l’elemento-colore” è isolato dall’oggetto, ed esposto come
qualità tout court, cui si conferisce autonomia e forza, ma soprattutto lo si rende portatore di infiniti
codici, rendendolo quindi di fatto incodificabile. Ma la concezione di una possibile autonomia del
colore costituisce il punto d’approdo in cui precipitano esperienze, sedimentazioni e riflessioni teoriche che vengono dalla pittura moderna a cui guardano i registi, proprio a partire da Ejzenŝtejn.
Cinema e pittura di fatto “condividono lo stesso materiale visivo”. e sono evidenti i parallelismi “fra vocabolario formale del materiale pittorico (forme, colori, valori, superfici) e vocabolario da forgiare del materiale filmico”[7] In particolare è nell’ultimo decennio del XIX secolo che“compare la nozione di colore come materiale del pittore”[8] la pittura moderna inizia a combinare forme e componenti cromatiche secondo un determinato ordine [9] e, come dice Signac, ha come scopo principale quello di “dare al colore più brillantezza possibile”.[10]Gli espressionisti operano uno “sdoppiamento fra il contenuto dell’avvenimento e la sua rappresentazione visiva[11] , secondo la perenne lotta fra esigenza coloristica e tematica, messa in evidenza fra gli altri proprio da Ejzenŝtejn, che vede nell’inquadratura cinematografica la risoluzione di questa contesa.[12] I colori, a questo punto, “non sono preventivamente connessi alle cose, le precedono”[13]Nell’universo pittorico Kandinsky aveva spinto sempre di più verso la dissoluzione dell’oggetto: “il sistema di macchie di Kandinsky segue una determinata cadenza coloristico – emozionale”[14]; colore e contorno sono separati e poi ricongiunti; Kandinsky “tenta di lasciare libero gioco alle sonorità interiori astratte, depurandole di qualsiasi riferimento tematico esterno […] (neutralizzando così) […] ogni aspetto oggettivo, tematico, lasciando ciò che in un’opera normale apparterrebbe agli elementi estremi della forma”. [15]Colore come qualità, rapporto di consonanza del colore con la psiche del pittore e del fruitore, valore morale della componente cromatica, sua relazione con la realtà oggettuale sono alcuni degli elementi più importanti che nell’arte del tempo emergono su più linguaggi.[16]Invece al cinema il colore fatica a imporsi come pura qualità; come lamentavano molti cineasti ma anche molti estetologi, la settima arte sembra non fidarsi troppo del potere della componente cromatica e gli conferisce scarsa autonomia. Il colore è sospeso fra naturalismo ed espressività, fra aderenza alla realtà rappresentatae ricerca della metafora o del simbolo, fra passività e autonomia. In questa dualità dialettica la “norma” tendeva a privilegiare la prima opzione, mentre poche furono le eccezioni alla fedele riproduzione dei colori della realtà, dai primi film dipinti a mano delle origini fino ai musical Technicolor. Il colore identificato con il colore naturale produce il rischio di un appiattimento realistico, meccanicamente riproduttivo, che rende, di fatto, inefficace l’elemento cromatico, ritardando così lo sviluppo autonomo della settima arte, come mettono in evidenza tra gli altri Arnheim e Musterberg. Pochi teorici invece si concentrarono sul potere realmente espressivo del colore: tra questi soprattutto Balázs e naturalmente Ejzenŝtejn. [17]Altrettanto pochi furono i cineasti che, fino agli anni ’60, si contraddistinsero per l’uso eloquente e innovativo del colore, anche se di fatto nessuno riuscì a liberare tutto il potenziale della componente cromatica. Neanche il cinema delle origini riuscì nell’impresa, pur nei tentativi di far svolgere alle tinte, spesso dipinte
direttamente sulla pellicola attraverso vari metodi e tecniche, un’azione de-realizzante e a volte astratta, fino al palese simbolismo delle stesse, capaci di esprimere o rivelare sentimenti ed emozioni. Da queste opere dei primi anni del cinema emerge un duplice modello alla base della dialettica fra colore e non colore: fotografico e pittorico, il primo legato all’oggettività il secondo alla soggettività dell’artista. Alla pittura sembra appartenere il monopolio dell’elemento cromatico,
appare l’unica arte che ne conosce appieno le regole, che è capace di maneggiarlo in tutte le sue peculiarità e tipicità. Come vedremo nel quarto capitolo della tesi, Godard nelle sue monumentali Histoire(s) du cinéma ritornerà ai metodi del cinema muto, facendo apparire improvvisamente nelle
immagini in bianco e nero delle macchie espressive di colore, spesso dalla forte connotazione simbolica, ma lascerà in genere l’allegria delle tinte alle opere di Picasso, Monet, Kandinsky. L’elemento cromatico, e tutte le operazioni che si svolgono per renderlo operativo, sono legati naturalmente al trattamento generale dell’immagine in pittura come al cinema, e per quest’ultimo, anche alla concatenazione tramite il montaggio delle immagini stesse. Per questo motivo analizzeremo nello specifico le tipologie dell’immagine godardiana che, sfruttando ancora una volta la lezione di Ejzenŝtejn si situa a metà fra sensualità e intellettualità, e le forme del montaggio cui Godard lavora sovente con genialità scrupolosa. Il colore infatti, come dice bene Balázs, è, al cinema, colore in movimento e solo così ci si può liberare dall’abbraccio (definito mortale dallo studioso ungherese) con la pittura e la sua staticità. Questa prospettiva implica una scelta metodologica di indagine che non può non soffermarsi sullo specifico delle tipologie cangianti della rappresentazione godardiana che vanno individuate nelle singole immagini, ma anche nella costruzione delle immagini stesse nel montaggio. Vedremo come nei film di Godard alcune tinte siano ricorsive e utilizzeremo alcuni modelli interpretativi, come quello di Venzi sulla ricorrenza e l’insorgenza del colore, per evidenziarne il lato più originale e formativo.
Godard Il suo lavoro sul colore si va modellando in un costante confronto fra il cinema (proprio) del presente e il cinema del passato, e con le altre arti, la pittura in particolare. Parallelamente si evolve anche la sua concezione dell’immagine, che sembra stare sempre sospesa fra imitazione e creazione del mondo. Appare qui forte l’influenza di Bazin nel suo coniugare “realismo ontologico e coscienza del linguaggio” Godard crede ancora che il reale possa essere salvato dall’arte e dalla creatività; ha fiducia nelle sue capacità tanto riproduttive che manipolatorie. Sin dal 1896, appena un anno dopo la prima proiezione pubblica che sancisce la nascita delcinema, i film venivano colorati a mano fotogramma per fotogramma, con pennelli estremamente sottili. Ben presto aumentarono i metodi per inserire in un film l’elemento colore: il pochoir [18] l’imbimbizione[19], il viraggio[20], e spesso una combinazione di vari procedimenti.
Il cinema nasce con il colore, non potendo sin dall’inizio della sua storia rinunciare alla componente cromatica. Come vedremo quest’ultima è investita di una duplice funzione: da un lato è utilizzata per rinforzare l’aderenza delle immagini alla realtà rappresentata, dall’altro, lasciata libera da stretti vincoli, può esprimere pienamente le sue capacità espressive.
Altro elemento da considerarsi è quello dell’estetica del colore. La storia dei film a colori è assai discontinua e presenta momenti rivoluzionari e di stasi, accelerazioni repentine e altrettanto repentini rallentamenti. Il coloreè rimasto per lungo tempo ai margini della rappresentazione cinematografica, faticando ad imporsi come elemento attivo, per problemi tecnici (ed economici), ma anche per ragioni puramente estetiche. Il cinema, tuttavia, sin dalle sue origini l’ha considerato come un elemento attraente e assimilabile alla propria estetica: in realtà non è mai esistito un cinema completamente in bianco e nero[21](se non forse in un breve periodo degli anni ’20, come vedremo meglio in seguito); il colore e ilb&n[22] hanno esercitato l’uno sull’altro un’influenza sottile ma costante; i loro percorsi si sono intrecciati in rapporti dialettici di inclusione ed esclusione reciproca. Almeno fino alla metà degli anni ’10, quando la ricerca del colore naturale divenne un obiettivo prioritario e ossessivo di cineasti e tecnici, raramente sono percepiti come alternativi: i loro ambiti di pertinenza, le loro qualità rappresentative, non sono esclusive e quindi opposte. Il colore è considerato una semplice aggiunta al b&n, un artificio in più.
La componente cromatica passa inizialmente dalle arti e procede verso il cinema.
“Il visibile prodotto dal cinematografo è il risultato di un fitto intreccio di pratiche spettacolari precedenti e parallele, caratterizzate da una stretta relazione fra media contigui”.Per un’analisi più chiara degli esordi del colore al cinema, è necessario quindi ricercare i suoi legami con le altre arti, per palesare le consonanze tecniche e visive con queste, le affinità nella costruzione dell’immagine e il lavoro sulle reazioni del fruitore.
È tutta la società dell’ottocento che sembra investita da un’esplosione di colori; il commercio e la pubblicità se ne appropriano, cogliendo la “singolare capacità del colore e delle cose colorate: distrarre l’attenzione da un campo di esperienze per attrarla in una nuova orbita”.[23]Le tecniche riproduttive compiono passi importanti: la cromolitografia si diffonde rapidamente, consentendo la commercializzazione di beni popolari di consumo in coloratissimi supporti. Con la fotoincisione in tricromia, sul finire del secolo, i colori appaiono anche sulle copertine dei romanzi e dei fumetti, negli inserti dei quotidiani[24]che manterrà anche nel passaggio al cinema. Sarà “valore aggiunto” di un film visto come merce, prodotto che si vende più facilmente ostentandone la varietà qualitativa. Il colore così inteso al cinema richiama il concetto di novità, “la novità della vecchia modernità ottocentesca. […] è il nuovo come semprenuovo, il nuovo come semplice ‘effetto’ ricorrente prodotto dal mercato”.La componente cromatica rivestiva un’importanza fondamentale per il teatro (soprattutto francese) ottocentesco, per la sua capacità di attrazione visiva e la sua azione spettacolare, definita “estetica del clou”[25].L’utilizzo di polveri colorate e giochi di luce ha una tradizione che arriva fino al medioevo e che fu applicata con sempre maggiore inventiva e sofisticazione dal teatro dell’Ottocento, in cui vari fenomeni naturali o artificiali eranorappresentati sulla scena dal fuoco, “imprescindibile esigenza spettacolare” ,[26]La prima pellicola cinematografica (ortocromatica) si mostra subito estremamente sensibile e adatta per un’applicazione diretta della tinta, dipinta a mano. È un metodo di coloritura che ha radici assai più lontane. L’editoria popolare già dalla fine del ‘500 considera il colore un elemento fondamentale per veicolare emozioni e passioni; i colori dipinti da mani femminili, cui era lasciato un certo spazio creativo, qualificano prodotti spesso scadenti dal punto di vista culturale e grafico[27].Si richiede, tuttavia, una sempre maggiore precisione esecutiva, con il riferimento puntuale ai codici miniati e alle cineserie nelle decorazioni di porcellane e ceramiche.
Il lato documentario del cinema e il desiderio di rappresentare la realtà emergono invece dai legami stretti con l’arte fotografica. Il fotografare i colori, in particolare, è sempre stata un’aspirazione dei fotografi fin dalle teorie del fisico scozzese ottocentesco Maxwell; tuttavia, è solo grazie alle ricerche del francese De Hauron che possono essere applicati all’immagine fotografica nuovi metodi rivoluzionari, che anticipano di alcune decine di anni ilKinemacolor, primo procedimento additivo bicromatico applicato al cinema da George Albert Smith.
Il cinema e la fotografia sembrano procedere assieme alla costruzione delle immagini, condividendo in una certa misura un valore testimoniale e riproduttivo della realtà. Gli stessi fratelli Lumière, inventori ufficiali del cinematografo[28]. Con la pittura moderna del XIX sec. il colore diviene “essere a sé stante,Il conflitto fra colore e tema, sarà però sempre più acceso come quelli equivalenti fra soggettività e oggettività, fra realtà e rappresentazione, fra riproduzione e astrazione. A vincere è spesso una soggettività che comporta l’abbandono dell’oggettivo, il rifiuto del tema; il colore acquista così la precisa funzione di comunicare emozioni ed evocare sentimenti. Per Ejzenŝtejn questo conflitto sarà risolto dall’inquadratura cinematografica: il cinema a colori infatti rappresenta “una mediazione fra l’istantaneità del fuoco d’artificio e la lentezza del giorno solare che avvolge piano piano la cattedrale, e dirige sullo spettatore tutto il pathos di una sinfonia cromatica”[29]. Viene messa in risalto l’intenzione estetica conferendo al colore pigmentario un’attribuzione fotografica” , si legano fra loro regime fotografico e pittorico, ibridati con “una sorta di colonizzazione del mezzo principale (fotografico) su quello secondario (pittorico)”[30].
Nel cinema dei primi anni, continua a prevalere è il modello pittorico: il cinema delle origini[31]. appare infatti “espressione poetica più che comunicazione, arte della visione, strumento di conoscenza estetica” ;[32]” non è ancora cosciente delle sue capacità rappresentative, delle sue qualità visive e si muove all’interno di “una visibilità indefinita, aperta sull’ignoto”[33]. È un’arte che “descrive la mostrazione piuttosto che la narrazione, la presentazione piuttosto che la rappresentazione, la temporalità istantanea piuttosto che l’organizzazione nella durata, l’interpellazione diretta dello spettatore piuttosto che il suo isolamento nel seguire la diegesi, l’esibizione accentuata dei propri mezzi figurativi piuttosto che la loro messa in secondo piano nei confronti della trasparenza dell’azione raccontata”.Tutti gli esperimenti per inserire il colore naturale nel film[34]non appaiono che “tentativi progressivi di portare sullo schermo i colori della vita reale” .[35]” . La storia del cinema a colori sembra dominata dall’ossessione dei colori naturali, ossessione che porta in breve tempo alla fine della colorazione a mano, senza tuttavia alcuna nuova definizione estetica. Dal 1906 si diffonde il pochoir[36] , alla ricerca di effetti sempre più realistici e decorativi: “la capacità di riprodurre più o meno fedelmente i colori della natura può configurarsi come elemento discriminante”[37]e questo procedimento, pur imperfetto, poteva essere applicato ad alcuni generi (documentari di viaggio, film in costume) per rivendicare un primato tecnologico sul terreno del colore naturale.Eppure quello del colore rimane un problema in sospeso: dalla fine degli anni ‘10 in vari manuali tecnici assistiamo al tentativo di fornire alla componente cromatica dei codici applicativi, molto minuziosi e precisi. Ci sono assieme la consapevolezza che l’applicazione esterna delle tinte sia estremamente arbitraria ed estranea alla pratica cinematografica, e il desiderio di “trovare al più presto un sistema che potesse riprodurre fedelmente i coloridella realtà” .[38]Sorgono tuttavia ulteriori resistenze: a seguito dell’affermazione di un cinema narrativo e realistico, la componente cromatica entra in contrasto con la narrazione: distrae dalla storia, allontana lo spettatore dall’azione sullo schermo e viene perciò relegata ai margini della rappresentazione, non esposta, addirittura evitata, per non minacciare la stabilità di canoni estetici ancora fragili e da consolidare. Alla fine l’estetica realistica, rassegnatasi alla presenza del colore, lo relega in alcuni generi (il musical, il western, i drammi in costume), lo esclude da tutti gli altri[39], e continua a subordinarlo, con poche eccezioni, al narrativo.
Molti sono i fattori che portarono a una tardiva introduzione del colore (soprattutto naturale) al cinema, da problemi di percezione del fruitore (il colore non era percepito come realistico) a problemi tecnici ed economici (costava troppo e non rendeva)[40]. Molti furono i tentativi coloristici, prima dei risultati sperati.
Nei film muti dei primi vent’anni del cinema, le Hybridations assumono un ruolo autonomo. Méliès, in particolare, è l’emblema dei tentativi compiuti dal cinema sin dalle sue origini di piegare, da un lato, la componente cromatica ad una maggiore verosimiglianza, potenziando l’aderenza delle immagini alla realtà rappresentata, e dall’altro, di conferirle maggiore libertà compositiva e formativa, senza per questo renderla totalmente astratta.
Dal punto di vista di registi e tecnici, il colore, sin dalle origini del cinema, si quindi sempre posto fra il naturalismo e l’espressività, anche se il paradigma naturalistico a partire dagli anni ’10 è stato quello dominante, fra l’entusiasmo per le tinte considerate naturali, adatte a fornire un’immagine mimetica della realtà e il rifiuto della componente cromatica, considerata come una distrazione e vista come un problema per la fedeltà della rappresentazione[41].Assai differente fu invece l’atteggiamento dei critici o teorici che si occuparono del colore al cinema. Il desiderio di molti era quello di rendere il cinema un’arte autonoma rispetto alle altre e di cercarne perciò l’essenza che le consentisse l’emancipazione. Tale essenza è individuata proprio nel b&n, con motivazioni spesso opposte a quelle dell’industria del cinema: si rifiuta il colore non perché allontana dalla realtà, ma perché conduce a un eccessivo mimetismo. Compito e funzione del cinema è allontanarsi dalla mera riproduttività del reale e cercare di trasfigurarlo. Saràquesto un elemento che unirà teorici ed estetologi lontani, culturalmente e cronologicamente.
la valenza emozionale del colore, che deve essere di supporto ad azione e dialoghi per controllare e dirigere le emozioni dello spettatore. Il colore tuttavia non deve prevaricare su questi, ma semplicemente amplificarne l’effetto.Il colore può sì essere espressivo, ma non lo è necessariamente, anzi i film contemporanei sono troppo simili a una visione naturale e non esprimono affatto le potenzialità estetiche dell’elemento cromatico.il cinema deve sfruttare le nuove acquisizioni tecniche per estendere le proprie possibilità rappresentative, per eliminare convenzioni vecchie e infeconde, per dare maggiori possibilità di scelta. Il perfezionamento tecnico è inutile se è solo un perfezionamento di riproduzione e mezzi riproduttivi, se non cerca di rappresentare lo spirito della vita ma si limita a imitarla nella sua forma esteriore.
La teoria del colore del regista e teorico russo S. M. Ejzenŝtejn[42]ponendosi, come già accennato, sulla stessa linea di Balazs, può finalmente fornire alla componente cromatica quell’autonomia che spesso era stata
messa negata o limitata.
Cfr.P.Cherchi Usai,Una passione…, 1991, p. 12.
F. Pierotti, La seduzione…,2012, p. 124.
Cfr. soprattutto S. M., EJZENŜTEJN, Il colore, Marsilio, Venezia 1989. Per molti teorici o critici del cinema in realtà le teorie del colore di Ejzenŝtejn non sono così innovative: Deleuze sostiene, ed esempio, che il colorismo di Ejzenŝtejn non condusse mai a un’immagine colore, ma solo a un’immagine colorata, cfr. G. DELEUZE, L’immagine…, 1984, p. 141. Aumont invece ritiene che l’autonomia della componente cromatica sia relativa, perché da mettere “al servizio di una «grande» forma filmica nella quale tutti gli elementi si rinforzano reciprocamente”, cfr. J. AUMONT, Introduction…, 1994, p. 211. Sul tema cfr. anche P. DUBOIS, Hybridations et métissage…, 1995, p. 89.
- Gatti Guido , Deontologia – C. Deontologia dello spettacolo, in Franco LEVER – Pier Cesare RIVOLTELLA – Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (03/06/2016). ↑
- Gatti Guido , Deontologia – C. Deontologia dello spettacolo, in Franco LEVER – Pier Cesare RIVOLTELLA – Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (03/06/2016). ↑
- Rudolf Arnheim, “Arte e percezione visiva a cura di Lucia Pizzo Russo”, Paragr. “Media e processi cognitivi” Ed. Aesthetica Preprint, Supplementa, Centro Internazionale Studi di Estetica, 1990,p.17 ↑
- Ivi, p. 21 – in cit. R. Arnheim (1981), On Duplication, trad. it. Sulla duplicazione, in Id., Intuizione e
intelletto, cit., p. 317. ↑
- Remo F.M. Malice, ASPETTI FENOMENOLOGICI NELLA PERCEZIONE DELL’OPERA D’ARTE, Kaleidon
casa editrice di cultura calabrese,p. 1 – http://www.kaleidoneditrice.it/attachment/116-aspetti-fenomenologici-nella-percezione-dellopera-darte-prefazione. ↑
- Jacopo Mercuro, Breve storia di un’innovazione che oggi diamo tutti per scontata, ma il cui avvento fu tutto tranne che semplice, 04/11/2014 – http://www.europinione.it/lavvento-sonoro-nel-cinema/ ↑
- Aumont J., L’œil interminable. Cinéma et peinture, Nouvelles Editions Séguier, Parigi 1989; trad. it. Marsilio, Venezia
1998, p. 119. ↑
- Aumont J., op. cit. 1998, p. 120. ↑
- Cfr. Denis, citato in ibid. e in Malevitch K., Scritti, (a cura di. Nakov A.-B), Feltrinelli, Milano 1977, p. 101. Cfr. anche
Diderot: per cui il quadro è “prima di tutto macchie di colore assemblate secondo un certo ordine”, cit. in Aumont J.,
Marie A., L’analisi dei film, Bulzoni, Roma 1996, pp. 165-166. ↑
- Cit. in Aumont J., op. cit. 1998, p. 120. ↑
- Ejzenŝtejn S.-M., “Da una ricerca incompiuta sul colore”, in Id., Il colore, Marsilio, Venezia 1989, p. 28. (titolo
originale “Iz neokončennogo issledovanija o cvete”, vari scritti sul colore degli anni 1946-1947, riordinati non dall’autore). Per Itten è invece El Greco il patriarca della pittura non-figurativa: “Le sue zone colorate non hanno alcun
valore descrittivo, ma sono organizzate in funzione di puri accordi di forma e colore”; il percorso prosegue poi con Rembrandt, Delacroix, lo stesso Cezanne, fino a Mondrian, la cui pittura è un “nudo realismo di forme e colori, esclusivamente ottico, geometricamente elementare”, in Itten J., Arte del colore, Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 14-16 e p. 44. ↑
- Cfr. ibid. pp. 30 e segg ↑
- Argan C. T., “Introduzione”, in Goethe W., La Teoria dei colori. Lineamenti di una teoria dei colori, (trad. it. a cura di Renato Troncon), Il Saggiatore, Milano 1989, p. XXI. ↑
- Ejzenŝtejn S.-M., cit., in Id., op. cit., 1989, p. 26. ↑
- Ejzenŝtejn S.-M., Il montaggio, Marsilio Venezia 1992, pp. 155-156. Stesso concetto di Moholy-Nagy, per cui dopo
l’invenzione del cinema e della fotografia, i cui mezzi espressivi sono “più funzionali per la rappresentazione”, la
pittura “si potrà occupare della pura organizzazione del colore”, liberandosi di qualsiasi riferimento oggettuale, “pittura assoluta, che ha il proprio oggetto in sé stessa, la cui base è l’azione (biologica) del colore”, cfr. Moholy-Nagy
L., Pittura, fotografia, film, (trad. it. di Bruno Reichlin), Einaudi, Torino 1987, pp. 11-17, (ed. or. Malerei Fotografie
Film, Florian Kupferberg Verlag, Mainz 1967). ↑
- De Vincenti G., Il concetto di modernità al cinema, Pratiche Editrici, Parma 1993, p. 41. Cfr. Bazin A., Che cosa è il
cinema?, Garzanti, Milano 1999, (trad. parziale di Id., Qu’est-ce que le cinéma?, Édition du Cerf, Parigi 1958), pp. 3-10.Per Aprà “le analisi di Bazin segnano irrimediabilmente la fine del cinema di finzione e l’intrusione di quella nozione«ontologica» di realtà […] che è un po’ la delizia e il dilemma degli anni ’60: scoperta del cinema-verità, intrusione delle tecniche del 16 mm e della presa diretta nel cinema narrativo, ossessione o nevrosi del piano-sequenza,
tentativo di sintesi delle due tendenze del cinema (il binomio Lumière- Méliès)”, in Aprà A., “Presentazione”, in Bazin
A., op. cit., p. XI. ↑
- Almeno nell’interpretazione che ne dà Ejzenŝtejn, uno dei nostri punti di riferimento principali, anche in relazione a Godard. Kandinsky per molti critici, al contrario, appartiene ad un formalismo moderato, che non rifiuta l’oggetto della
rappresentazione; “il contenuto è nonostante tutto una componente indispensabile dell’opera d’arte”, in Tatarkiewicz
W., Storia di sei idee, Aesthetica Edizioni, Palermo 2002, p. 260. ↑
- Un sistema di colorazione meccanica del supporto brevettato nel 1906 dalla casa di produzione francese Pathé che
permetteva di utilizzare più di dieci tinte diverse, che di fatto venne utilizzato con continuità per meno di dieci anni, anche se fu operativo, con pochissimi esempi fino agli anni ’30, “processo lungo e costoso dal quale potevano però scaturire affascinanti risultati”, in Cherchi Usai P., Una passione infiammabile, Utet, Torino 1991, p. 12. Per uno studio più particolareggiato di tutti i mezzi utilizzati per colorare un film si veda Marpicati G., “Il film in colore”, in Petrucci A. (a cura di), L’avventura del colore, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1956, p. 82 e pp. 47-75. ↑
- Assorbimento di un liquido da parte di un solido senza che si verifichi alcuna reazione chimica. ↑
- A questo proposito si veda quello che dice Benjamin a proposito della fotografia in cui a poco a poco “il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale. Ma quest’ultimo non si ritira senza opporre resistenza. Occupa un’ultima trincea che è costituita dal volto dell’uomo”, in Benjamin W., “L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica”, in Id., L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa,
Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2000, p. 28. Altrove poi il filosofo parla dei fotografi degli anni successivi al 1880, il
cui compito era quello di ripristinare l’aura delle immagini, mediante ritocchi o espedienti tecnici, in Benjamin W.,
“Piccola storia della fotografia”, in ibid. p. 68. ↑
- D’ora in avanti b&n. ↑
- Bianco e Nero ↑
- F. PIEROTTI, La seduzione dello spettro, Le Mani, Genova 2012, p. 25. ↑
- M. DALL’ASTA, G. PESCATORE, Ombrecolore…, 1994, p. 12. ↑
- J.-J. Roubine cit. in F. Pierotti, La seduzione…, 2012, p. 35. ↑
- Ibid. ↑
- Cfr. G. P BRUNETTA, C. A. ZOTTI MINICI, Il colore del pre-cinema al cinema, in Il colore nel cinema muto, a cura di M. Dall’Asta, G. Pescatore, L. Quaresima, Mano, Bologna 1996, pp. 9-10. ↑
- I due fratelli brevettano l’apparecchio per le “immagini cronofotografiche” nel 1894. ↑
- Cfr. S.-M. Ejzenŝtejn,Da una ricerca…, 1989, pp. 30 e segg. e S.-M. Ejzenŝtejn, La natura non indifferente, Marsilio, Venezia 2003, p. 112 ↑
- F. Pierotti, La seduzione…, 2012, p. 34. ↑
- Per “cinema delle origini” s’ intende il primo ventennio della produzione cinematografica, dal 1895 al 1915 circa, “zona franca di ricerche e sperimentazioni”, che si distanzia dall’universo precedente delle vedute animate, ma non è ancora giunto a quella istituzionalizzazione che caratterizzerà la seconda metà degli anni ’10; Gaudreault lo chiamerà appropriatamente della “cinematografia-attrazione”. Cfr. A. Gaudreault,Cinema delle origini o della «cinematografia-attrazione»,Il Castoro, Milano 2004,pp. 25-27. ↑
- S. Bernardi,Kubrick e il cinema come arte del visibile, Pratiche editrice, Parma 1990, p. 10. ↑
- Ibid. p. 11. ↑
- Dal pochoir, al Kinemacolor (1906), fino al Technicolor, prima bicromatico sottrattivo negli anni ’20 e poi tricromatico della seconda metà degli anni ’30. Per una cronologia esaustiva delle invenzioni sul colore al cinema, cfr. fra gli altri P. Cherchi Usai, La passioneinfiammabile, 1991, p. 11. ↑
- T. GUNNING, Metafore colorate…, 1994, p. 36. Cfr. anche J. AUMONT, Introduction…, 1994, p. 194. ↑
- È uno strumento di colorazione meccanica che consente di riprodurre circa dieci tinte. Il suo successo fu assai effimero: le produzioni in pochoir non durarono che un decennio, principalmente a causa della lunghezza e dei costi del procedimento. Cfr.P.Cherchi Usai,Una passione…, 1991, p. 12. ↑
- F. Pierotti, La seduzione…,2012, p. 124. ↑
- G. Fossati, Quando il cinema era colorato, in AA.VV.,Tutti i colori del mondo. Il colore nei mass media tra 1900 e 1930, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1998, p. 46. ↑
- Cfr.E. Buscombe, Sound and Color, in Movies and Methods. Vol. 2. An Anthologya cura di B. Nichols, University of California Press, London-Berkeley 1985, p. 91. ↑
- Misek, rifacendosi alle teorie di Kindern, considera cinque cause collegate fra loro:semplicità,costi di produzione e di distribuzione, disponibilità,verosimiglianza (“perché il colore divenisse parte di un’estetica del cinema consolidata, i colori che risultavano dai film dovevano essere simili a quelli tipicamente percepiti”) e ideologia (ancora più importante della questione se il colore fosse verosimile, era se fosse percepito come tale) R. Misek, Chromatic Cinema…, 2010,pp. 45-46.Per le motivazioni del ritardo dello sviluppo del colore al cinema, cfr. ancheJ. Belton, Il colore: dall’eccezione alla regola, in Storia del cinema…, 2001, p. 800. ↑
- Aumont vede l’immaginario del colore dominato, nei commentatori, da un doppio paradigma: il primo oppone la magia della componente cromatica alla fedeltà ai colori naturali e il secondo confronta due ideali estetici, la policromia e il poco di colore valorizzato. Il “troppo colore” è associato spesso all’eccesso di espressività, al cattivo gusto, ed è considerato contrario della fedeltà alla natura, che è povera di colori, mentre la discrezione cromatica è più esatta, più mimetica, in J. Aumont, Da les couleurs…, 1995, p. 46. ↑
- Cfr. soprattutto S. M., EJZENŜTEJN, Il colore, Marsilio, Venezia 1989. Per molti teorici o critici del cinema in realtà le teorie del colore di Ejzenŝtejn non sono così innovative: Deleuze sostiene, ed esempio, che il colorismo di Ejzenŝtejn non condusse mai a un’immagine colore, ma solo a un’immagine colorata, cfr. G. DELEUZE, L’immagine…, 1984, p. 141. Aumont invece ritiene che l’autonomia della componente cromatica sia relativa, perché da mettere “al servizio di una «grande» forma filmica nella quale tutti gli elementi si rinforzano reciprocamente”, cfr. J. AUMONT, Introduction…, 1994, p. 211. Sul tema cfr. anche P. DUBOIS, Hybridations et métissage…, 1995, p. 89.
Cronologia delle note bibliografiche e sitografiche
Gatti Guido , Deontologia – C. Deontologia dello spettacolo, in Franco LEVER – Pier Cesare RIVOLTELLA – Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (03/06/2016).
Gatti Guido , Deontologia – C. Deontologia dello spettacolo, in Franco LEVER – Pier Cesare RIVOLTELLA – Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (03/06/2016).
Rudolf Arnheim, “Arte e percezione visiva a cura di Lucia Pizzo Russo”, Paragr. “Media e processi cognitivi” Ed. Aesthetica Preprint, Supplementa, Centro Internazionale Studi di Estetica, 1990,p.17
Ivi, p. 21 – in cit. R. Arnheim (1981), On Duplication, trad. it. Sulla duplicazione, in Id., Intuizione e
intelletto, cit., p. 317.
Remo F.M. Malice, ASPETTI FENOMENOLOGICI NELLA PERCEZIONE DELL’OPERA D’ARTE, Kaleidon
casa editrice di cultura calabrese,p. 1 – http://www.kaleidoneditrice.it/attachment/116-aspetti-fenomenologici-nella-percezione-dellopera-darte-prefazione.
Jacopo Mercuro, Breve storia di un’innovazione che oggi diamo tutti per scontata, ma il cui avvento fu tutto tranne che semplice, 04/11/2014 – http://www.europinione.it/lavvento-sonoro-nel-cinema/
Aumont J., L’œil interminable. Cinéma et peinture, Nouvelles Editions Séguier, Parigi 1989; trad. it. Marsilio, Venezia
1998, p. 119.
Aumont J., op. cit. 1998, p. 120.
Cfr. Denis, citato in ibid. e in Malevitch K., Scritti, (a cura di. Nakov A.-B), Feltrinelli, Milano 1977, p. 101. Cfr. anche
Diderot: per cui il quadro è “prima di tutto macchie di colore assemblate secondo un certo ordine”, cit. in Aumont J.,
Marie A., L’analisi dei film, Bulzoni, Roma 1996, pp. 165-166.
Cit. in Aumont J., op. cit. 1998, p. 120.
Ejzenŝtejn S.-M., “Da una ricerca incompiuta sul colore”, in Id., Il colore, Marsilio, Venezia 1989, p. 28. (titolo
originale “Iz neokončennogo issledovanija o cvete”, vari scritti sul colore degli anni 1946-1947, riordinati non dall’autore). Per Itten è invece El Greco il patriarca della pittura non-figurativa: “Le sue zone colorate non hanno alcun
valore descrittivo, ma sono organizzate in funzione di puri accordi di forma e colore”; il percorso prosegue poi con Rembrandt, Delacroix, lo stesso Cezanne, fino a Mondrian, la cui pittura è un “nudo realismo di forme e colori, esclusivamente ottico, geometricamente elementare”, in Itten J., Arte del colore, Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 14-16 e p. 44.
Cfr. ibid. pp. 30 e segg
Argan C. T., “Introduzione”, in Goethe W., La Teoria dei colori. Lineamenti di una teoria dei colori, (trad. it. a cura di Renato Troncon), Il Saggiatore, Milano 1989, p. XXI.
Ejzenŝtejn S.-M., cit., in Id., op. cit., 1989, p. 26.
Ejzenŝtejn S.-M., Il montaggio, Marsilio Venezia 1992, pp. 155-156. Stesso concetto di Moholy-Nagy, per cui dopo
l’invenzione del cinema e della fotografia, i cui mezzi espressivi sono “più funzionali per la rappresentazione”, la
pittura “si potrà occupare della pura organizzazione del colore”, liberandosi di qualsiasi riferimento oggettuale, “pittura assoluta, che ha il proprio oggetto in sé stessa, la cui base è l’azione (biologica) del colore”, cfr. Moholy-Nagy
L., Pittura, fotografia, film, (trad. it. di Bruno Reichlin), Einaudi, Torino 1987, pp. 11-17, (ed. or. Malerei Fotografie
Film, Florian Kupferberg Verlag, Mainz 1967).
De Vincenti G., Il concetto di modernità al cinema, Pratiche Editrici, Parma 1993, p. 41. Cfr. Bazin A., Che cosa è il
cinema?, Garzanti, Milano 1999, (trad. parziale di Id., Qu’est-ce que le cinéma?, Édition du Cerf, Parigi 1958), pp. 3-10.Per Aprà “le analisi di Bazin segnano irrimediabilmente la fine del cinema di finzione e l’intrusione di quella nozione«ontologica» di realtà […] che è un po’ la delizia e il dilemma degli anni ’60: scoperta del cinema-verità, intrusione delle tecniche del 16 mm e della presa diretta nel cinema narrativo, ossessione o nevrosi del piano-sequenza,
tentativo di sintesi delle due tendenze del cinema (il binomio Lumière- Méliès)”, in Aprà A., “Presentazione”, in Bazin
A., op. cit., p. XI.
Almeno nell’interpretazione che ne dà Ejzenŝtejn, uno dei nostri punti di riferimento principali, anche in relazione a Godard. Kandinsky per molti critici, al contrario, appartiene ad un formalismo moderato, che non rifiuta l’oggetto della
rappresentazione; “il contenuto è nonostante tutto una componente indispensabile dell’opera d’arte”, in Tatarkiewicz
W., Storia di sei idee, Aesthetica Edizioni, Palermo 2002, p. 260.
Un sistema di colorazione meccanica del supporto brevettato nel 1906 dalla casa di produzione francese Pathé che
permetteva di utilizzare più di dieci tinte diverse, che di fatto venne utilizzato con continuità per meno di dieci anni, anche se fu operativo, con pochissimi esempi fino agli anni ’30, “processo lungo e costoso dal quale potevano però scaturire affascinanti risultati”, in Cherchi Usai P., Una passione infiammabile, Utet, Torino 1991, p. 12. Per uno studio più particolareggiato di tutti i mezzi utilizzati per colorare un film si veda Marpicati G., “Il film in colore”, in Petrucci A. (a cura di), L’avventura del colore, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1956, p. 82 e pp. 47-75.
Assorbimento di un liquido da parte di un solido senza che si verifichi alcuna reazione chimica.
Si veda quello che dice Benjamin a proposito della fotografia in cui a poco a poco “il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale. Ma quest’ultimo non si ritira senza opporre resistenza. Occupa un’ultima trincea che è costituita dal volto dell’uomo”, in Benjamin W., “L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica”, in Id., L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa,
Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2000, p. 28. Altrove poi il filosofo parla dei fotografi degli anni successivi al 1880, il
cui compito era quello di ripristinare l’aura delle immagini, mediante ritocchi o espedienti tecnici, in Benjamin W.,
Piccola storia della fotografia”, in ibid. p. 68.
D’ora in avanti b&n.
Bianco e Nero
F. PIEROTTI, La seduzione dello spettro, Le Mani, Genova 2012, p. 25.
M. DALL’ASTA, G. PESCATORE, Ombrecolore…, 1994, p. 12.
J.-J. Roubine cit. in F. Pierotti, La seduzione…, 2012, p. 35.
Ibid.
Cfr. G. P BRUNETTA, C. A. ZOTTI MINICI, Il colore del pre-cinema al cinema, in Il colore nel cinema muto, a cura di M. Dall’Asta, G. Pescatore, L. Quaresima, Mano, Bologna 1996, pp. 9-10.
I due fratelli brevettano l’apparecchio per le “immagini cronofotografiche” nel 1894.
Cfr. S.-M. Ejzenŝtejn,Da una ricerca…, 1989, pp. 30 e segg. e S.-M. Ejzenŝtejn, La natura non indifferente, Marsilio, Venezia 2003, p. 112
F. Pierotti, La seduzione…, 2012, p. 34.
Per “cinema delle origini” s’ intende il primo ventennio della produzione cinematografica, dal 1895 al 1915 circa, “zona franca di ricerche e sperimentazioni”, che si distanzia dall’universo precedente delle vedute animate, ma non è ancora giunto a quella istituzionalizzazione che caratterizzerà la seconda metà degli anni ’10; Gaudreault lo chiamerà appropriatamente della “cinematografia-attrazione”. Cfr. A. Gaudreault,Cinema delle origini o della «cinematografia-attrazione»,Il Castoro, Milano 2004,pp. 25-27.
S. Bernardi,Kubrick e il cinema come arte del visibile, Pratiche editrice, Parma 1990, p. 10.
Ibid. p. 11.
Dal pochoir, al Kinemacolor (1906), fino al Technicolor, prima bicromatico sottrattivo negli anni ’20 e poi tricromatico della seconda metà degli anni ’30. Per una cronologia esaustiva delle invenzioni sul colore al cinema, cfr. fra gli altri P. Cherchi Usai, La passioneinfiammabile, 1991, p. 11.
T. GUNNING, Metafore colorate…, 1994, p. 36. Cfr. anche J. AUMONT, Introduction…, 1994, p. 194. ↑