UN APPROCCIO ANTROPOLOGICO ALLA DISABILITA’
Redazione-La questione relativa all’inclusione o all’esclusione delle persone disabili non può essere separata da quella inerente al processo di disgiunzione o inserimento sociale. « Per tale motivo diventa importante indagare l’evoluzione che il concetto di disabilità ha avuto nel corso del tempo nel suo incontro con le diverse teorie ed organizzazioni sociali che hanno ispirato il concetto di normalità e patologia. » (Medeghini, Valtellina, 2006:11).
La disabilità, spesso, viene interpretata come condizione ingombrante e imbarazzante, accentuando in modo impalpabile l’esclusione relazionale di chi la subisce. Sarebbero necessari una struttura più adeguata e un trattamento che tenga maggiormente in considerazione la disabilità come differenza di identità personale, più che come condizione di anormalità (cfr. Medeghini, Valtellina, 2006).
Nelle scuole ad esempio si assiste sovente all’ impreparazione dell’ insegnante di classe rispetto al disabile e al suo mondo: scambia il ruolo dell’educatore con quello di assistente socio sanitario e si trova in difficoltà a pensare e condividere progetti di inclusione. Se la disabilità fosse considerata nella sua interezza, come diversità, come alternativa all’omologazione, allora forse si sarebbe già fatto un passo avanti verso il cuore dell’inclusione che al primo posto mette il rispetto della natura dell’individuo, poi il rispetto della sua differenza.
Prendere la disabilità come spunto per il cambiamento, cancellazione dell’appiattimento sociale, arricchimento personale e collettivo; guardarla da un punto di vista altro, come ci insegna a fare l’antropologia: a guardare le cose, i fatti e le persone da molteplici punti di vista, osservando senza formulare giudizi, ma tentando di indagarne i significati ( cfr. Medeghini, Valtellina, 2006).
« La disabilità è l’esserci delle differenze come quotidianità, nel corpo, nel desiderio, nell’emozione, nella convivenza, nella fragilità dell’immaginare, nelle alterità dei contesti. I sistemi viventi in quanto tali “sono” nelle differenze, e le differenze emergono nella specificità dei sistemi viventi » (Medeghini, Valtellina 2006).
L’antropologia potrebbe avere un ruolo centrale proprio nel fare emergere questa possibilità dando voce a chi non ne ha e non ne ha avuta, a chi si è visto togliere la possibilità di scrivere e raccontare la sua storia ( cfr. Medeghini, Valtellina, 2006).
La disabilità, vista fin dall’antichità come maledizione divina, come tutto ciò che non è il mondo conosciuto, come il contrario del normale vivere umano, deve riuscire a liberarsi di quella, ormai intrinseca, “natura demoniaca” : l’imperfezione e il difetto sono profondamente umani e la corruttibilità del corpo e della mente rappresentano un destino comune (cfr. Medeghini, Valtellina 2006 ). Nella storia antica ci sono diversi esempi di civiltà che considerano gli handicap come maledizioni divine: la Grecia Classica in cui il disabile, spesso, viene abbandonato e privato delle cure necessarie (vedi il personaggio descritto da Socrate nel 409 a.c. Filottete), oppure l’antica Roma, dove il bambino con deformità viene addirittura condannato a morte (cfr. Grasso, Palumbo, 2001). Anche all’interno dell’Antico Testamento il disabile viene considerato come indispensabile al fine di manifestare le opere divine: la sua guarigione fisica diventa simbolo della guarigione dal peccato. (cfr. Burla, Capozzi, Lozupone, 2007)
L’antropologia può essere un buon alleato in questo percorso?
Luigi Zurru nel suo saggio La dimensione identitaria nella persona disabile afferma che per parlare di azione educativa e cura efficiente bisogna realizzare un processo di «avveramento individuale» intendendo, per questo, la sua totale realizzazione personale. « Consentire, quindi, alle persone di sostenere il bene comune con la propria biografia originale […] ». ( Zurru, 2015: pag. 11) e « […] realizzare la propria espressione antropologica. » (Zurru, 2015:16).
Anche nell’educazione, come nella costruzione della propria identità è necessario uno scambio reciproco, fatto di legami, riconoscimenti e contatti, per ridurre le distanze. Un simile approccio non ammette categorie statiche, o schemi fissi, ma, al contrario, necessita di influenze contaminanti sia di carattere sociale, che culturale. L’inclusione non è semplicemente la condivisione degli stessi spazi: sarebbe una visione troppo ingenua e approssimativa.
Come la cultura, anche la cultura dell’inclusione necessita di contaminazioni: l’essere umano non esiste, se non attraverso la comunità, che è una realtà plurale, aperta e fatta di scambi. Si parla di «coscientizzazione», come del processo che ti permette di acquisire abbastanza coscienza da riflettere sull’importanza non solo di educare l’altro, ma di educarti per educare. Qui l’inclusione supera i concetti dualistici di normale/anormale, capace/incapace e guarda oltre, cercando di riconoscere nell’altro i suoi punti di forza ( cfr. Gardou, 2006).
Le opere di inclusione e integrazione, come i programmi alternativi pensati per chi ha difficoltà di apprendimento o i progetti scolastici per disabili, non dovrebbero essere legate, o limitate solo alla vita scolastica, ma dovrebbero dare una spinta verso l’esterno: insegnare un modo di vivere alternativo, più congruo alle esigenze dell’individuo ( cfr. Zurru, 2015). Una scuola a 360 gradi, che investa maggiormente sull’insegnamento delle autonomie, dell’individualità come potenza e non come limite: l’alterità scolastica (cfr. Zurru, 2015).
Se l’apprendimento fosse paragonato ad un vero e proprio stile di vita, l’antropologia potrebbe dispensare consigli? Dopo avere osservato per il giusto tempo, potrebbe suggerire utili domande? Potrebbe, dopo un’attenta indagine sui comportamenti sociali, offrirci spunti per una visione più completa della condizione umana, più attenta alle differenze e sensibile ad eventuali strategie d’inclusione?
Si potrebbero intraprendere nuovi percorsi di cooperazione nella classe, nella scuola, negli istituti, nella dimensione comunale e cittadina a tutto tondo. Costruire insieme dei progetti di cooperazione sull’inclusione e l’integrazione, in cui vengano chiamati ad intervenire non solo assistenti sociali, insegnanti, sociologi, pedagogisti, psicologi, educatori, ma anche antropologi, come tali, per ribadire l’importanza della pluralità di sguardi disciplinari, utilizzando l’antropologia come « […] sguardo criticamente e metodologicamente attrezzato, quale contributo originale ad una “conoscenza generale dell’esperienza umana” » (Santarone, 2006:168).
L’apertura e il dialogo sono necessari se si parla di educazione, soprattutto se si tratta di un’educazione volta a coinvolgere molteplici discipline (cfr. Santarone, 2006).
Così da evitare che « […] la condizione di disabilità […] sia creata e sostenuta dalla natura stessa dei programmi educativi […] » ( Zurru, 2015:20).
Dal momento che gli antropologi si pongono metodologicamente come mediatori delle “varie voci” perché non sfruttare questa loro prospettiva? Si potrebbe ampliare la possibilità di rompere i silenzi e “intrecciare” rapporti.
Magari questo ci aiuterebbe a scoprire che il disabile è molto più integrabile di quanto non lo sia stato fin’ora e molto meno “esotico” di quanto non lo si sia considerato fino ad adesso.
Considerando le capacità interpretative e mediatrici dell’antropologia, si potrebbe giungere ad un dialogo interdisciplinare che abbia come obiettivo quello di smettere di considerare la disabilità come alterità contrapposta alla normalità e che rifletta in modo attivo sulla sua reale integrazione.