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L’IMPERFEZIONE-DI ANTONIO ZIMARINO

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Redazione-Ogni cosa che osserviamo viene valutata secondo dei parametri che noi riteniamo definire il “meglio”: normalmente nel nostro immaginario occidentale, il “meglio” è l’equilibrio, la perfezione, il bilanciamento, l’armonico. Tali parametri derivano da un immaginario fondato su una “mnemosyne” profondissima, che ci arriva dalla cultura greca, nella famosa distinzione caos/cosmos all’interno del quale si stabiliscono appunto i giudizi di “perfetto” o “imperfetto”.

Siamo intrisi di tutto questo e costantemente ci riferiamo a tali criteri per giudicare, valutare, stabilire cosa funziona e cosa no. In realtà, i criteri di perfezione, come quelli di “bellezza” [1]  sono tanti e molteplici per quante sono le culture e potremmo dire, per quante sono le esperienze [2] . Questa ricerca di una perfezione (ovvero, di far corrispondere ciò che facciamo ad un idea astratta di come qualcosa debba esser fatto) ci appartiene, ci guida e ci “costringe”. L’effetto di questo “modello” che cerchiamo e seguiamo è molte volte positivo: affina, specifica, costringe a soluzioni diverse. Tuttavia, se per ragioni di studio o di professione, si ha costantemente a che fare  l’indefinizione e l’indeterminatezza propria di ciò che si manifesta nell’arte contemporanea, ma comunque in ogni cosa propria del “contemporaneo” (eventi, fatti, notizie etc.) si finisce per porsi il problema se pretendere o cercare una “perfezione”, una chiara definizione delle cose, sia plausibile, efficace o realmente possibile e sensato.

Cercare la perfezione è positivamente utopico, essere coscienti dell’impossibilità di raggiungerla è positivamente umano. Accettare l’imperfezione e “lottare”, discutere, scontrarsi con essa (non necessariamente contro di essa) è la quotidiana esperienza di chi non vuole cedere e piegarsi banalmente a ciò che accade o a ciò che può essere prevedibilmente “definito” e riconosciuto.

L’essere coscientemente “imperfetti” e realizzare consapevolmente (non intenzionalmente) cose imperfette ha una sua fondamentale positività: realtà il vero “stato utopico” è proprio lo stato imperfetto, o meglio, è solo nell’imperfezione che ci si può accorgere del “come”si può cercare una strategia, una procedura per arrivare a definire qualcosa. Questo atteggiamento coincide con è il passo, l’ansia costante che erode i significati, che li rivela in alcuni suoi aspetti, proprio mentre stanno accadendo e si stanno costruendo nel nostro tempo e nel nostro spazio. L’imperfezione è ciò che rivela il possibile, è una interrogazione è una domanda costante, è ciò che manca, è lo spazio ancora aperto che si vorrebbe colmare. Accettare l’imperfezione significa imparare a “non dichiarare”, a “non affermare” li dove non ci sono sensi e logiche per farlo. L’imperfezione implica sempre qualcosa da discutere, una proposta, una ipotesi da discutere e da valutare.

In fondo l’imperfezione “rivela” molto di più rispetto a ciò che ciò che è ritenuto “perfetto” (e come dicevamo, è per altro un valore inevitabilmente diverso per ciascun osservatore); L’imperfezione rivela sia a cosa si tende che il processo possibile per raggiungere l’obiettivo: di fronte alle cose contraddittorie in cui ci pongono gli accadimenti del Presente, il margine di indecidibilità e di incertezza rivela la difficoltà del nostro procedere, le aree da considerare, le possibilità da definire. La definizione “perfetta” (o che noi crediamo tale) chiude i processi, congela, forse, rasserena e rassicura ma non coglie il processo la transizione, il Possibile. Certamente il campo dell’Incerto è disagiato, confonde  ma è il luogo dove siamo: quel poco di cose che ci sembra di aver chiaro sono “ancoraggi” punti di riferimento plausibili, strumenti per una “scalata”, chiodi di una via, una delle tante che l’alpinista può scegliere o può costruire per tentare la vetta.

La questione mi si è posta riflettendo sulla mia attività di curatore di mostre d’arte: ho sempre affrontato l’attività pensando che allestire uno spazio, rendere percepibili le opere e le loro relazioni o le ragioni “sensate” della loro scelta sia un problema  perché in esse proponiamo (o dovremmo proporre) e discutiamo certi assunti visivi o contenutistici.

Ho concretamente realizzato che non è possibile realizzare mostre perfette, nelle quali si riesca a illustrare un assunto, a rendere evidente un progetto, non tanto perché non lo si desideri quanto perché in molti casi sono tali e tante le variabili (oggettive e concettuali) in un progetto (relazioni umane, volontà umane, disponibilità, circostanze, ambienti, tempo) che non è possibile ricondurle a ciò che si vorrebbe. Tali condizioni costringono a trovare senso e soluzioni mentre si opera, mentre si lavora, facendo realmente vivere il “problema” che si propone, perché la complessa realtà delle cose, supera e complica costantemente l’idea e il progetto da cui si era partiti.

Le imperfezioni (anche se dettate da condizioni oggettive) vengono comunque spesso giudicate come limiti o errori, perché dall’esterno, si valuta il “risultato” secondo un proprio parametro, ci si aspetta quello che si desidera o si cerca di chiudere rapidamente la “questione mostra” in un assunto che si comprende e si condivide: non si accetta facilmente il “disagio” dell’imperfezione o l’incompletezza necessaria di un “processo”, di una ricerca.

Personalmente quando vado a vedere una mostra [3] che presenta opere o proposte nuove, pur notandone eventuali “errori” e imperfezioni, non riesco ad essere chiuso o negativo nei suoi confronti proprio per la coscienza che ho dei problemi oggettivi che si sono dovuti affrontare per ottenere un risultato coerente.

E’ vero però che pochi o nessuno ha davvero coscienza del fatto che sia possibile tendere ad una certa “perfezione” solamente se è possibile avere un criterio “oggettivo” e un contesto “neutrale” entro cui “scrivere”, costruire o esporre una mostra, un testo, o far ascoltare una musica. Ad esempio: una mostra monografica, una personale o una “storica” permettono innanzitutto di definire precisi criteri di “allineamento” di contenuti e di “allestimento” che consentono una certa precisione. Realizzarla poi in un cosiddetto white cube, aumenta in modo esponenziale le possibilità di dare coerenza a ciò che si vede.

Aggiungiamo anche un’altra questione che permette di far comprendere le specifiche problematiche di una “cura” di mostra: mentre un artista lavora nel suo mondo conchiuso nel quale è possibile ordinare la “materia” creativa secondo un proprio senso coerente, un curatore, un intellettuale, un critico (consapevole) ordina invece cose e forme disparate e già definite, in contesti, relazioni e circostanze altrettanto disparate (o disperate a volte!) cercando di costruire un senso a ciò che ha disponibile, tendendo come riferimento un’idea ma dovendola rivedere costantemente alla luce delle possibilità offerte dalle condizioni reali e circostanziali su cui può non avere (poichè impossibile) un reale “governo”.

Se poi si pensa una mostra come un interrogativo, come un “problema” da affrontare di cui non si ha la soluzione ma la si cerca, ecco che l’imperfezione è l’esatto stato in cui si dovrà operare. Ogni risultato diventa parziale ed imperfetto, poco rassicurante, con una dose di “squilibrio” variabile che è necessario provare a governare, cercando di capire dove le cose portano, che cosa realmente è possibile fare rispetto alla materia caotica di cui si dispone e alle ipotesi che ci si era posti di verificare.

Con la “perfezione” posso “rassicurare”, posso “confezionare” una percezione su cui eventualmente riflettere e meditare: con l’imperfezione posso aprire pensiero, discussione e possibilità. Con la “perfezione” rendo accettabile e illustrativo un assunto a cui decido di aderire o meno; con l’imperfezione apro la discussione, destabilizzo e “provoco” ( nel senso latino di “ pro – voco” ovvero “chiamare, parlare per … , a favore di … ” .

Insomma, dove c’è rischio, proposta, discussione, differenza, (in particolare in arte) c’è la possibile costruzione di un pensiero diverso e il continuo rischio di errore; dove c’è chiarezza, equilibrio, definizione, c’è la “dichiarazione” di qualcosa, minor possibilità di sbagliare e migliore possibilità di assimilare. Ovviamente le due cose sono inevitabilmente entrambe necessarie perché proprie della nostra struttura umana e antropologica, e non sono da ritenersi due assoluti incompatibili: sono piuttosto due componenti, due polarità di ciò che siamo o di come funziona il nostro modo di “procedere” dentro l’inestinguibile “caos” che caratterizza il nostro essere-nel-mondo.

Oggi l’imperfezione è rimossa: i corpi devono essere perfetti, la vita deve essere perfetta, l’arte deve essere “assoluta” … ma cosa è o sarebbe realmente la perfezione? Chi ne stabilisce e ne controlla il canone? Se non la raggiungo sono infelice, imperfetto, se non la conquisto non sono: se non mi definisco e non “mi rappresento” efficacemente [4] secondo il canone dominante, non sono.

L’imperfezione mi sembra l’unico modo che abbiamo oggi per “stabilire un criterio di realtà”, per costringere (e costringersi) a prendere posizione, ad elaborare strategie e non più “miti” o raffinate e salvifiche vie di fuga che ci proteggano e ci allontanino dalla inevitabile difficoltà di affrontare il “buio” del Presente costante entro cui giochiamo le nostre scelte quotidiane [5]. La “perfezione” ci offre una chimera salvifica irraggiungibile e frustrante, l’imperfezione ci pone nella consapevolezza del possibile.

L’imperfezione pero è una ferita che resta aperta, è un limite che chiede di essere affrontato, che chiama alla discussione, al confronto, alla ricerca, alla scelta. Forse l’arte (ma mi allargo un po’, forse la nostra vita) ha più bisogno di questo piuttosto che di rassicurare, ha più bisogno di aprire varchi, di sbullonare sistemi percettivi, approcci, convenzioni e processi mentali. Forse ha bisogno oggi (abbiamo bisogno) di “destrutturare” i suoi (e i nostri) riti, le sue (le nostre) mitologie e, specificatamente per l’’arte, c’è bisogno di smontare l’artificiosa sacralità che essa stessa si è costruita disponendosi come “sistema” sociologico – relazionale per tornare ad essere sguardo riflessivo condivisibile su ciò che ci circonda.

Non credo ovviamente che le mie scelte come curatore o studioso d’arte siano assolutamente giuste, perché altrettanto sarebbe capace di fare (destrutturare) la capacità contemplativa favorita dalla “perfezione”, ma sicuramente, l’imperfezione resta quello “scarto” di senso e di significato di cui parlava Theodore W. Adorno [6] che ci dà ancora la possibilità di credere che l’arte non muore nei suoi riti e nei tentativi che si fanno per reificare e depotenziare il suo essere “eversiva” rispetto all’immanente e alla

sua mercificazione.

(Foto – Eno Henze)

[1] cfr. ad es. C.Sartwell, I sei nomi della bellezza, PBE, Einaudi, Torino, 2004

[2] cfr. ad es., N.Warburton, La questione dell’arte, PBE, Einaudi, Torino, 2003

[3] NDR, mi riferisco ovviamente a mostre di arte contemporanea non “illustrative” o dichiarative (per intenderci, celebrative). Non mi riferisco nemmeno a mostre di opere o artisti “storici” nelle quali, avendo appunto degli ancoraggi coerenti, è davvero difficile fare “errori”.

[4] Cfr. V.Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri,

[5] cfr. G.Agamben, Che cos’é il contemporaneo, Nottetempo, Roma, 2008

[6] cfr. Theodore, W., Adorno, Teoria estetica, PBE Einaudi, Torino, 1977.

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