FRANCO BASAGLIA E LA LEGGE 180 | QUARANT’ANNI DI PSICHIATRIA ALTERNATIVA IN ITALIA
Redazione- Quarant’anni fa, il 29 agosto 1980, moriva Franco Basaglia. a Venezia dove era nato l’11 marzo 1924. Aveva 56 anni.Il 15 aprile dello stesso anno era morto Jean Paul Sartre, il filosofo che ebbe la maggiore influenza su di lui. Basaglia era per me, come è ancora per molti, “quello della 180”, l’uomo che aveva “chiuso i manicomi” e che aveva “liberato i matti”. Insomma, una specie di Che Guevara della psichiatria.
Ho incontrato Franco Basaglia qualche anno prima della chiusura dei manicomi e dell’entrata in vigore della legge 180 in un evento organizzato a Chieti. Lo avevo raggiunto in quella città con il mio amico Arpino Gerosolimo per una iniziativa di Psichiatria democratica. In quell’incontro si ragionava appunto sulla chiusura di istituzioni totali come manicomi, carceri, caserme .Ero allora un giovane animatore culturale e lavoravo al Centro Servizi Culturale di Sulmona e mi apprestavo a fare una esperienza professionale da educatore in un carcere minorile, un servizio del Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia ,durata poi quarantadue anni,un’intera vita lavorativa. Nel linguaggio di allora, mi pareva che il “politico” dovesse integrarsi col “sociale”. Avevo partecipato ad iniziative del Consiglio pastorale della Diocesi di Sulmona, militato nei gruppi esprit, scritto articoli per un giornale regionale “Il dibattito “ curato dall’indimenticabile Ciammaichella e mi ero interessato alla cultura popolare,tutto con spirito gramsciano : il pessimismo della ragione ,l’ottimismo della volontà che ha sempre contraddistinto le mie azioni . Quasi ancora adolescente proprio per quel connubio politico-sociale avevo partecipato ad attività che andavano dalla raccolta di fondi per l’assistenza ai lebbrosi, all’impegno di assistenza agli anziani e ai disabili. Cominciavo a interessarmi a Marcuse, Freud, Dostoëvskij, e ad altre sterminate letture .
In quella riunione esponevo a Basaglia delle perplessità per quanto riguardava appunto il “dopo “. Dopo “ l’apertura” ovvero “ dopo la chiusura”. La risposta fu semplice, armoniosa e ricca. Che accade dopo. Accade disse testualmente “la confusione della realtà”. Come si fa a dimenticare una risposta così. La realtà è complessa e confusa e questa è una delle caratteristiche della realtà medesima. Inoltre la realtà è dura. Non è una questione di “visione pessimistica del mondo”, come si potrebbe pensare . Piuttosto, è la semplice ‒ quasi ovvia ‒ constatazione che il nostro incontro con la realtà è sempre anche uno “scontro”, un impatto con qualcosa che ci precede e ci resiste. Metaforicamente, uno scontro con qualcosa a cui non importa nulla della nostra esistenza. Può essere un impatto traumatico o gioioso, ma si tratta pur sempre di un impatto .L’ontologia descrive la realtà. Non abbiamo nessuna preminenza sulle cose che popolano questo mondo che ci circonda anche se il Novecento ‒ pur sotto la spinta delle immani tragedie di cui è stato al tempo stesso protagonista e spettatore ‒ si è trovato come costretto a rimettere in questione i pilastri dell’ontologia classica e moderna. il dibattito contemporaneo ha visto, e vede tuttora, fiorire una pluralità di prospettive incentrate sull’ontologia e sulla sua rilevanza essenziale per una descrizione della realtà che non persegua più l’obiettivo di ridurne la durezza. Così, alle ben note critiche dell’ontologia proposte ‒ solo per citare alcuni tra gli autori più noti in Europa e oltreoceano ‒ da Nietzsche, Husserl, Heidegger, Derrida, Whitehead, Russell, Carnap e Wittgenstein, è seguito un profondo ripensamento dello statuto dell’ontologia e della sua funzione all’interno del discorso filosofico contemporaneo e ‒ si spera ‒ futuro. È dunque un fatto storico che i vari approcci critici contemporanei all’ontologia abbiano, per così dire, liberato nuovi modelli teorici in grado di fornire una molteplicità di risposte alla questione fondamentale cos’è la realtà? O, più precisamente, cosa significa affermare che qualcosa esiste o può essere detto reale? Sono questi tra l’altro i temi di alcune pubblicazioni da cui ho tratto questa breve sintesi .Ma questo è un discorso che forse ci distrae dal nostro tema che è appunto Franco Basaglia e la legge 180 quarant’anni dopo l’entrata in vigore di questa legge.
Vale la pena forse proprio in tema di realtà di rileggere, specialmente per i non addetti ai lavori , alcuni scritti di Basaglia “Corpo, sguardo e silenzio”, di farsi coinvolgere dalla goriziana “Istituzione negata” o dai triestini “Crimini di pace”, ed emozionarsi nel leggere le “Conferenze brasiliane”.Letture che hanno come retroterra , ma forse anche precedente e prevalente,un’ azione riformatrice, il suo gesto liberatorio. In questi scritti è interessante, secondo me , il tentativo che li attraversava di rispondere a una domanda, che dà il titolo al primo libro collettaneo del gruppo: Che cos’è la psichiatria?
La vicenda basagliana con il lavoro di comprensione della realtà della psichiatria ha dato l’avvio al disfacimento degli ospedali psichiatrici che poi è andato avanti lentamente . L’entrata in vigore della legge ha dato l’opportunità ai servizi di organizzarsi incontrando i problemi che negli ultimi scritti Basaglia colse in prospettiva tra rischi di dilatazione a dismisura del mandato, tendenza alla neoistituzionalizzazione e al formarsi di una nuova cronicità.
Scrive Paolo F.Peloso uno psichiatra che si è formato sugli scritti di Basaglia nell’articolo del 29 agosto 2020 “Scrivere di Basaglia a quarant’anni dalla morte” su http://www.psychiatryonline.it/node/8825 : “…l’avvicinarsi del quarantennale della sua morte mi ha suggerito l’idea di una riflessione più organica su quest’uomo che credo abbia – per il carattere fondativo che riveste e per la radicalità delle sue domande sull’essere psichiatra – un’importanza nella storia della psichiatria che può essere paragonata soltanto a quella di Philippe Pinel.
Pinel, infatti, ha avuto il merito di integrare il sapere medico-filosofico che lo aveva preceduto in una sintesi convincente per fondare, nel momento di massima glorificazione della ragione e della scienza, la psichiatria. Basaglia ha aggiornato i riferimenti al percorso che il sapere medico e filosofico aveva conosciuto in un secolo e mezzo, per rifondare la psichiatria in una fase di crisi della scienza, imprimendole libertà, vitalità e dinamismo attraverso la negazione e riaffermazione continua di se stessa senza possibilità di approdo a una sintesi nuova…”
Molti hanno scritto di Franco Basaglia, del suo lavoro e delle prospettive della legge da lui ispirata . A partire dai collaboratori diretti, che ne hanno condiviso l’esperienza, i rischi, i dubbi, i successi . Poi i biografi, da Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio (2001, 2020) – che ne hanno approfondito il pensiero – per proseguire con il giornalista Oreste Pivetta (2012). Poi, gli storici, come Valeria Paola Babini (2009) e John Foot (2014), che si sono sforzati di rendere insieme giustizia alla sua primogenitura e all’originalità e interesse di altre esperienze (Perugia, Cividale, Parma, Reggio Emilia, Arezzo, Trieste, Ferrara, Nocera Inf., Gorizia della seconda équipe, ecc.). Alla vita e al lavoro di Basaglia sono stati dedicati un libro fotografico (Aa. Vv., 2008), il film bellissimo ed emozionante del regista Marco Turco C’era una volta la città dei matti (Italia, 2010), e persino una storia a fumetti lo ha preso a protagonista (Alghisi e coll., 2011).
Dice ancora Paolo F Peloso nell’articolo che ho ricordato :” Recentemente, occupandosi del pensiero di Basaglia, Pierangelo Di Vittorio (2020) ha colto in questi quarant’anni l’alternarsi, nell’immagine che ne è prevalsa, di due figure, il militante e l’intellettuale; personalmente, provo interesse e sintonia verso entrambe, ma quella che mi interroga più radicalmente è una terza, lo psichiatra. Sì, dico lo psichiatra anche se so che qualcuno – tanto tra coloro che amano la psichiatria ma non Basaglia, che tra coloro che amano Basaglia ma non la psichiatria – potrebbe storcere il naso, perché credo che abbia amato più lui questo mestiere, la psichiatria, col rinfacciarle con schiettezza e a volte brutalità limiti e difetti, che tanti cicisbei che ne coltivano – non senza interesse personale spesso – la vanagloria, l’ipocrisia, le illusioni.
Perciò, qui è soprattutto dello psichiatra che ci occuperemo, sforzandoci di strapparlo all’ampiezza delle curiosità che certo, come uomo, lo hanno stimolato: com’è possibile rendere più giusta la società, che cos’è la follia e in quale rapporto sta con la realtà (domande che è sempre bene che lo psichiatra tenga aperte sullo sfondo, ma nelle quali non si deve perdere; e lungo le quali avvertirei a mia volta forte il desiderio di seguirlo…). E costringendolo, forzandolo direi a stare con noi nelle situazioni della cura, che sono quelle dove a me pare dia il meglio: l’incontro con l’uomo malato, la gestione e la negazione insieme delle dinamiche e dei muri dell’istituzione, la deistituzionalizzazione del quotidiano”, insomma.
L’importanza di Basaglia sta nell’essere egli stesso l’autore della sola grande riforma radicale che l’Italia ha avuto dalla Costituzione del ‘48 ad oggi. Non già della sola riforma realizzata, altre sono state frutto di una paziente, graduale attività, come le conquiste del lavoro; questa invece è stata come una rasoiata, veloce e totale, con un ribaltamento delle convinzioni popolari e delle teorie scientifi-che dominanti.E poiché è bene collocare le cose nel loro contesto storico non c’è dubbio che il pensie-ro e l’opera di Franco Basaglia sono espressione e frutto del tanto vituperato ’68 e del periodo immediatamente successivo.essuno può negare che negli anni che vanno dal ’70 al ’78 si fanno tutte le riforme più significative, dallo Statuto dei diritti dei lavoratori di Giugnì, ma anche di Brodo lini e di Donat Cattin, all’essenziale della svolta regionalistica e decentralizzatrice di Livio Paladin e di Massimo Severo Giannini, ma anche dei Governi di centro-sinistra e di Parlamenti di quegli anni, dall’avvio della riforma sanitaria alla legge “180”.
Scrive Michele Zanetti : “ L’opera di Franco Basaglia ci dà un grande insegnamento che è poi la ragione del suo successo e della sua permanente attualità: l’aver egli capito e dimostrato in pratica che l’esigenza fondamentale è e resta la libertà della persona umana, ma una libertà che non è riservata a chi ce l’ha, deve essere una libertà liberante, liberatrice dal bisogno ma non solo da esso. Perché non è libero il curdo o l’albanese che gli scafisti scaricano nel mare di Puglia, non è libero il sans domicile fixe della periferia di Parigi, non è libero il terro-rista di Al Quaeda che si schianta sulle Twin Towers o il palestinese che si fa esplodere nel ristorante di Tel Aviv, non è libero il niño de rua che si prostituisce per una piccola speranza di prolungare la sua vita, non gli adolescenti angolani, della Sierra Leone o hutu del Ruanda che ricevono droga e kalashnikov per massacrare i loro simili, non è libero il bambino indiano che a 6 anni lavora da schiavo 12-14 ore al giorno, non è libero nemmeno il bimbo che nasce con l’AIDS, a Mosca, a Bangkok o dovunque ciò avvenga, come non è libera la neonata cinese e tanto meno sono liberi i suoi genitori contadini che la sopprimono per rispettare il piano di natalità governativo e perché vogliono un maschietto che domani coltivi il campo.
Domenico Casagrande : “Ho conosciuto antipsichiatri quali David Cooper, che ricordo con rispetto ed ammirazione, ma altro era Franco Basaglia e il nostro modo di approcciare il folle. Il nostro modo di agire non era frutto di una ideologia antipsichiatrica, il “mettere fra parentesi la malattia mentale” non significava non volerne riconoscere l’esistenza, ma scoprire cosa veramente fosse e come capirla, dato che la scienza psichiatrica aveva fatto una profonda mescolanza fra malattia mentale ed istituzionalizzazione. Basaglia ha dedicato le sue conoscenze scientifiche, le sue capacità di medico, ma so-prattutto la sua ”umanità”, per ricercare un confronto con l’altro come persona, sep-pure diversa, in un rapporto finalizzato ad una reciproca conoscenza, su un piano di parità intesa come riconoscimento del valore dell’individualità e della parità di diritti, e questo l’ha trasmesso, attraverso un attività quotidiana di cambiamento della realtà in cui agivamo.“Si deve partire dalle esigenze del malato – diceva – e di lì cercare di adattare intorno a Lui lo spazio vitale di cui ha bisogno”. Questo semplice principio che ha costantemente applicato nella Sua pratica ha prodotto quelle esperienze che hanno rivoluzionato il mondo della psichiatria, che tutti affermano di conoscere, ma che non tutti capiscono, in particolare coloro che vogliono delegittimare Basaglia e il suo operato, confinandolo sotto etichette come quella dell’antipsichiatria, segno anche della non comprensione del messaggio che ne caratterizzava la pratica. A Basaglia era ben noto il pericolo del riduttivismo insito nell’etichettamento, fondamentale fonte dell’oggettivazione e della reificazione dell’altro, causa della negazione del rapporto e del rifiuto di mettersi in discussione. Creare un clima nel quale sia possibile avvicinarsi reciprocamente in un rapporto umano ha significato a Gorizia mettere fra parentesi la malattia per incontrare l’uomo e l’uomo con la sua malattia. Il manicomio basato sull’ordine, l’isolamento e l’autorità produceva quella dinamica dell’”affrontamento” così ben descritta da Fou-cault, che è di ostacolo ad una umanizzazione del rapporto e a qualsiasi dinamica di reciprocità.”
Ma la testimonianza più toccante ed emozionante è quella che ne dà la figlia nel libro “Le nuvole di Picasso, edito da Feltrinelli nel 2014 in cui Alberta Basaglia con gli occhi di bambina racconta , i suoi ricordi delle vicende degli anni ’70 legate alla riforma psichiatrica che prende il nome dal padre Franco. Come si legge nella presentazione “una lettura inedita, unica e spudorata, quella cioè di chi non ha ancora sovrastrutture imposte da regole sociali. In questo lavoro hanno preso forma le parole per cercare di rispondere a quei tanti perché e per raccontare scampoli di vita della bambina che è stata dentro a quella rivoluzione. Bambina che nel frattempo è cresciuta e che spontaneamente ha fatto di quella esperienza la base per costruire la sua professione.” Alberta Basaglia, psicologa, è responsabile del Servizio partecipazione giovanile e Cultura di pace del Comune di Venezia, dove, dal 1980, ha guidato il Centro donna e il Centro antiviolenza. Ha una lunga esperienza di lavoro sulle tematiche legate al contrasto della violenza di genere e di tutte le discriminazioni. (1 )
La Legge Basaglia (Legge 13 maggio 1978, n.180 – “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, disponendo la chiusura dei manicomi ha segnato una svolta nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici. Prima dunque c’erano i padiglioni, le camerate, i letti di contenzione, i guardiani. Ci fu poi una rivoluzione .Per cancellare quello che dice un infermiere di quella istituzione totale:” Sto chiuso tutto il giorno, respiro la stessa aria, la stessa puzza de fogna che stava dentro a quei reparti, facevo la stessa vita che fanno i pazienti per cui… io infermiere so’ matto come loro. Questa è l’istituzione. (Dal docu-film Padiglione 25)
La Legge Basaglia è la legge n.180/78 in tema di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, presentata in Parlamento da Bruno Orsini, psichiatra e politico della Democrazia Cristiana. Viene denominata anche Legge Basaglia , dal nome dello psichiatra veneziano , principale esponente di quel movimento che da anni aveva propugnato l’esigenza di una legge ,approvata appunto il 13 maggio 1978, con il risultato della chiusura dei manicomi. Una legge quadro per questo facilmente etichettabile come incompleta e incompiuta .Un lungo cammino ancora incompiuto .Tra le critiche più aspre, ci fu quella dell’aver lasciato che i pazienti psichiatrici venissero scaricati sulle famiglie.
Una legge che avrebbe dovuto e dovrebbe appunto guardare alla follia come diceva lo stesso Basaglia :”come condizione umana. (Perché)in noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere. Aprire l’Istituzione non è aprire una porta, ma la nostra testa di fronte a “questo” malato.”
Nel giro di pochi mesi la Legge Basaglia venne inserita all’interno della legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (la legge 833 del dicembre 1978); i suoi punti chiave:
. Eliminazione del concetto di pericolosità per sé e gli altri: trattamento sanitario in psichiatria basato sul diritto della persona alla cura e alla salute
. Rispetto dei diritti umani (ad esempio, diritto di comunicare e diritto di voto)
. Disposizione di chiusura degli OP su tutto il territorio nazionale
. Costruzione di strutture alternative al manicomio
. Servizi psichiatrici territoriali come fulcro dell’assistenza psichiatrica
. Istituzione dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc) all’interno degli ospedali generali per il trattamento delle acuzie
. Trattamento sanitario di norma volontario: prevenzione, cura e riabilitazione
. Interventi terapeutici urgenti in caso di rifiuto di cure e mancanza di idonee condizioni per il trattamento extra-ospedaliero: Trattamento sanitario obbligatorio (TSO)
. Introduzione del concetto di “correlazione funzionale” tra Spdc o strutture di ricovero e servizi territoriali, sulla scia del principio di continuità terapeutica.
Il nostro Paese continua a spendere poco meno del 3% del budget nazionale della Sanità per la salute mentale (con differenze notevoli tra le 20 regioni), a fronte del 10-15% di altri Paesi come Francia, Inghilterra, Finlandia.
Pratiche di salute mentale che a a quaranta anni dall’approvazione della legge 180,vede ancora situazioni molto disomogenee da nord a sud – sulla scia delle disuguaglianze di salute che permeano il nostro Ssn. Il risultato è a dir poco che certamente servono più risorse e personale per fare fronte a una malattia in crescente ascesa ( si veda per esempio l’incremento dei rilevato dopo i periodi di lockdown a causa della pandemia da Covid 19 specialmente tra gli adolescenti ) e quindi continuare così il lavoro iniziato da Basaglia.
Nel 2018 la Società Italiana di Psichiatria, ha stimato che sono 800 mila ogni anno le persone assistite nei Dipartimenti di Salute Mentale, con 370 mila nuove visite per problemi legati alla psiche. Numeri, questi, che saranno in costante aumento, se è vero che – come stimato dall’Oms – in poco più di 10 anni le malattie mentali si posizioneranno al primo posto, sorpassando quelle cardiovascolari.
Scrive Sara Di Santo :” La Legge Basaglia è stata la prima legge al mondo a disporre la chiusura dei manicomi e l’Italia resta l’unico paese ad avere attuato in modo così radicale il processo di de-istituzionalizzazione.Un modello, quello italiano, che ha fatto scuola in Europa; da tempo, infatti, Consiglio d’Europa e Commissione Europea raccomandano di seguire la strada battuta dall’Italia, la più rispettosa dei diritti umani ed economicamente sostenibile.C’è chi l’ha fatto – come Regno Unito, Spagna, Portogallo e Grecia – mentre chi, come gran parte dei Paesi dell’est, non ha ancora cominciato il processo di de istituzionalizzazione. (2 )
Luigi Manconi torna sulla questione del deterioramento delle pratiche di salute mentale con un suo articolo su La Stampa. La lista delle cattive pratiche riscontrabili in molti servizi di salute mentale riesce davvero impressionante. E dolorosa per chi, come tanti di noi, non hanno mai smesso di pensare le persone, i cittadini con l’esperienza del disturbo mentale, al centro delle cure “umane e gentili” che il cambiamento legislativo di quasi mezzo secolo fa voleva garantire. Negata l’istituzione, com’è accaduto in tutto il nostro paese, e meglio, nella concretezza delle pratiche territoriali, in tante realtà locali, bisognava da subito interrogarsi sul che fare, su che cosa poteva voler dire dare continuità al lavoro di critica e di distruzione del manicomio. Sta qui il nodo cruciale che non abbiamo potuto evitare e che non finirà mai di interrogarci: come, negata l’istituzione della psichiatria, pensare, progettare, montare le nuove istituzioni della salute mentale. Ecco il compito, direi l’urgenza, che, impreparati, abbiamo dovuto affrontare.( 3 )
Accadde veramente quello che mai nessuno avrebbe pensato possibile . Peppe Dell’Acqua dice :“Così, messa tra parentesi la malattia, come svegliandosi da un lungo sonno, tutti cominciarono per incanto a chiamarsi per nome, a raccontare una storia, a ricordare un villaggio, a riprendersi il proprio tempo. A Gorizia si cominciò allora ad aprire le porte, ad abolire tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Gli internati divennero cittadini, persone, individui. Da allora fu possibile curare e cercare un altro modo per ascoltare, per esserci, per riconoscersi. Fu possibile vedere il malato e non la malattia, le storie singolari e non le diagnosi, vivere la propria vita malgrado tutto. Fu possibile denunciare per la prima volta le torture e la vergogna di due secoli di istituzioni totali. Con la legge 180 moltissimi pensarono, e continuano a pensare, che una storia anche se eroica ed entusiasmante, si era conclusa. Chiusi i manicomi, dissero, la psichiatria sarebbe stata accreditata nel mondo certo della clinica, avrebbe guadagnato il candore del camice bianco, le promesse della moderna medicina e gli orizzonti miracolosi dei farmaci, delle psicoterapie senza fine. La pericolosità, la deriva sociale, i diritti negati finalmente avrebbero interessato i carabinieri, i servizi sociali, la politica. Finalmente una psichiatria pulita!: così i tanti psichiatri che plaudivano alla nuova legge.”
La Legge 180 è la prima e unica legge quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Ciò ha fatto dell’Italia il primo paese al mondo (e al 2019, finora l’unico) ad abolire gli ospedali psichiatrici.
L’approvazione della Legge 180 del 1978 dava finalmente inizio al lavoro di deistituzionalizzazione. In molte regioni l’inerzia e la corsa verso i servizi ospedalieri, i fragilissimi e freddi ambulatori e le liste di attesa, la ricerca affannosa di posti dove mettere i matti rallentarono non poco la chiusura (i manicomi chiuderanno 20 anni dopo!) e contribuirono a disperdere le ragioni di quella faticosa trasformazione appena avviata, perdendo di vista la comunità, i contesti e le reti che andavano progettate e ordite. Fu chiaro allora che bisognava pensare alla cura, al riconoscimento ostinato dell’altro, ai nuovi luoghi dell’incontro che rispondessero a quelle premesse. Abbandonato il manicomio la cura poteva realizzarsi nei contesti, nelle relazioni, nella quotidianità. Potevamo immaginare di incontrare la sofferenza e il bisogno prima che diventi malattia. Un nuovo spazio dove le persone, senza la paura della porta che si chiude alle loro spalle, possono entrare per chiedere aiuto, per dire il proprio male, condividerlo.
‘Il ruolo della psichiatria dinamica e della psicoterapia nella riabilitazione psichiatrica’ di Giacomo Gatti (Armando Editore, 2020) mette in guardia da una visione riduttiva della riabilitazione come semplice recupero delle abilità sociali. L’autore, psichiatra, psicoanalista e docente di riabilitazione, ritiene che oltre a questa attività di sostegno e di reinserimento l’intervento riabilitativo non possa prescindere da un momento autenticamente curativo, che affronti alla radice il nucleo della sofferenza mentale, e che egli identifica soprattutto con la psicoterapia di orientamento psicoanalitico, unica capace di esplorare l’universo simbolico, spesso nascosto alla consapevolezza, che sottende i movimenti affettivi e i comportamenti dei pazienti.
Francesco Cro è psichiatra, Dipartimento di Salute Mentale, Viterbo nel presentare il libro di Giacomo Gatti dice : “Critico anche verso un modello di sanità efficientistico e aziendalizzato, l’autore rimarca l’importanza di un approccio integrato e multidisciplinare per la cura dei pazienti gravi nei servizi pubblici, offrendo a sostegno delle proprie argomentazioni numerosi esempi clinici tratti dalla propria esperienza e dal lavoro con i pazienti e le famiglie di una comunità terapeutico-riabilitativa.”
Messa da parte la malattia si aprirono le porte. Sembra uno scherzo a dirla così ma fu in realtà una conquista che negli ultimi quarant’anni ha tenuto il passo ma ha resistito, perché quel gesto di aprire significava guardare finalmente il malato e non la malattia .
(1 ) Il titolo del libro è frutto di un dialogo tra padre e figlia. Lei dedicava molto del suo tempo a disegnare, racconta l’autrice; un giorno fece un disegno con tante nuvole bianche e il padre le disse che aveva disegnato un bellissimo cielo e che quelle sembravano le nuvole di Picasso. Questo bellissimo lavoro ha preso forma dall’esperienza di una bambina, dagli scampoli di vita che ha vissuto dentro quella rivoluzione. Ci racconta del suo dover affrontare, sulla sua pelle, il problema della diversità con la sua menomazione all’occhio, per cui l’avevano data per cieca, e dei suoi genitori che hanno sempre lottato per far sì che lei potesse sempre essere accettata e inserita nel mondo nonostante la diversità: quella diversità per cui Basaglia ha sempre combattuto e lottato in quegli anni. Questo libro ci fa rivivere la storia di Gorizia di quel periodo ma, a differenza di come l’abbiamo sempre vissuta e letta con lo sguardo e i ragionamenti da adulti, attraverso il cuore, le emozioni e le sensazioni che sono passate nella testa di una bimba durante il suo vissuto quotidiano. Con le storie di tutti i personaggi bizzarri che tutti giorni entravano nella sua casa, Alberta ci fa rivivere tutti gli incontri, le feste e gli episodi che avvenivano lì dentro. Racconta di tutti i ragazzi, ragazze, uomini e donne che Basaglia accoglieva facendoli sentire utili e importanti, dando loro molto spesso dei compiti e dei lavori da svolgere all’interno della casa, dei suoi dialoghi e il suo rapporto con tutte queste persone. Ci narra di tutti i gesti e rituali quotidiani che accadevano in quella casa, come l’immagine dei genitori sempre impegnati davanti alla macchina da scrivere e delle sue mille domande su tutto quello che stava succedendo. Ci racconta dei pranzi con tantissime persone famose, in cui molto spesso si sentiva esclusa. Ci parla di una festa in particolare in cui lei, già più grandicella, rimase colpita dai vestiti e dai trucchi grotteschi delle donne e delle ragazze, di quanto queste le facessero tenerezza, del loro atteggiamento molto infantile. E ci spiega molto bene come, attraverso queste situazioni, le scattò qualcosa dentro che la portò a capire cosa volesse fare da grande e a cominciare a progettare il suo futuro. Attraverso questo racconto l’autrice fa emergere come la rivoluzione basagliana iniziò in famiglia, dove niente era impossibile e soprattutto, aspetto molto bello e significativo, dove non c’era nessuna divisione tra “matti” e normali, sani e “malati”, maschi e femmine, gente famosa e gente comune. Tutti con lo stesso diritto e liberi di vivere la propria vita.
Le nuvole di Picasso, la rivoluzione basagliana attraverso gli occhi di una bambina
(2 ) https://www.nurse24.it/infermiere/leggi-normative/legge-basaglia-chiusura-manicomi.html
(3 ) https://www.repubblica.it/salute/2021/05/28/news/il_cambiamento_tradito-303050734/