“CUORI PURI”, UN REALISMO CHE SI FA CINEMA
Redazione-“Cuori Puri” è un film molto bello, molto sincero, molto attuale, e presenta motivi di interesse sia cinematografici sia sociali, direi perfino storici, rispetto all’Italia di oggi. Ha dei padri o fratelli maggiori nel cinema contemporaneo, De Paolis, e i secondi forse più significativi dei primi, perché vi è evidente – per affinità ambientali e tematiche – l’appartenenza a un filone preciso del nostro cinema recente, quello che ha ripreso con forza a narrare il disagio di chi “sta sotto”, soprattutto la condizione dei giovani non di buona famiglia, non privilegiati per nascita, e l’ambiente delle periferie, quella romana in questo caso, quella napoletana nel film di Di Costanzo ,ovvio che ci siano anche dei meschini profittatori di questa voga, nel mondo del cinema e anche in quello della letteratura e del giornalismo, senza dimenticare i coccodrilli della televisione, ma non vale la pena di parlarne: il salotto romano abbonda di tantissimi esempi di autori-parodia, di autori-sciacalli; ci si è fatta da tempo l’abitudine, e il giusto comportamento è quello, dal punto di vista della critica, di ignorarli, così come di ignorare i critici che non li ignorano.
Su questa linea si sono cimentati di recente, in modi diversi, il compianto Caligaris e Claudio Giovannesi e, dentro il “genere”, Sollima, ma il film di De Paolis fa pensare ai primi e non al terzo, e soprattutto a Fiore per il suo rifiuto di dare una visione troppo amara della realtà, per l’ostinazione a cercare se non vie d’uscita almeno solidarietà, per il pudore e per l’amore portato ai personaggi, a quei marginali – milioni e milioni in tutto il mondo, e in numero crescente in Italia – e a quei giovani che più soffrono questa marginalità, con la disperazione di non avere di che e in che sperare.
Come Fiore, anche Cuori puri è una storia d’amore e, come L’intrusa, chiama in campo, anche se non gli dà la preminenza che ha nel film di Di Costanzo, un settore particolarmente significativo nell’Italia di oggi: quello di chi cerca in qualche modo di non seguire la corrente, i dettami e le illusioni diffusi dal potere.
Si parla dunque del cosiddetto volontariato, e più precisamente nel film napoletano degli “operatori sociali” e della loro funzione di mediazione, di sostituzione di uno stato e di una politika che hanno ammazzato il welfare (una sostituzione anche ambigua, poiché per tanti “buoni” si tratta di avere né più né meno che un’occupazione di sopravvivenza e per molte organizzazioni, le più astute e “quotate”, di setacciare denaro e affermare potere).
La società senza la politica
Nel film di Di Costanzo, l’aura ideologica che circonda gli operatori appare più laica, meno dichiaratamente religiosa, ma il sottofondo culturale dei più coscienti è comunque riconducibile a un ethos cristiano, l’unico rimasto anche in ragione dell’infinito tradimento attuato dall’ex sinistra dei valori sociali, socialisti, che la distinguevano guidavano giustificavano.
La presenza cattolica in Cuori puri è affermata con forza, doverosamente mostrata e dimostrata, una presenza forte e innegabile in una società senza politica, retta quasi sempre da classi dirigenti corporative ed egoiste quando non mafiose.
Ma ci sarebbe anche bisogno di opere che raccontassero le contraddizioni dei nostri cattolici, anche dei più bravi, ed è questa una cosa che si guardano bene dal fare gli intellettuali di quella parte (teologi compresi), privi come sono di senso del tragico e convinti della loro salvazione.
La storia d’amore dei due protagonisti Agnese e Stefano (il secondo interpretato con insolita misura e convinzione da Simone Liberati, una vera promessa) ne viene come irradiata, perché alla purezza dei loro sentimenti si aggiunge quella delle loro convinzioni, della loro morale privata e pubblica, per loro indisgiungibili, e più faticosa quella del giovane di quella della ragazza, perché Stefano si confronta con problemi più ardui dal punto di vista sociale, e di conseguenza anche dal punto di vista morale.
Resistere alle sirene
I modelli probabili del cinema di questo regista su cui davvero si può scommettere sono quelli dei fratelli Dardenne, per l’approfondimento, la rappresentatività e la riconoscibilità degli ambienti che sono sfondo e necessità del loro cinema, ma anche, imprevedibilmente, quello di Robert Bresson, perlomeno per la scena finale.
Non so quanto il regista si ritenga cattolico, ma se lo è si confronta con una tradizione più dura di quella dei Dardenne, con la sfida dei protagonisti di Bresson, quasi sempre giovani o giovanissimi, con l’altezza del loro confronto – anche quando persone comunissime – con l’arduità delle domande, con i perché dell’esserci e le ragioni e le scelte del proprio “che fare”.
Forse De Paolis non è ancora in grado di affrontare in modo adeguato i temi più gravi del nostro presente, le nostre incertezze più angoscianti e più vere, contro le quali chi “sta sopra” agisce perché le si dimentichi onde poter meglio imperare, ma ha il fiato per farlo e gli si augura di poter serenamente resistere alle sirene del successo e alla stupidità e supinità della cultura italiana di oggi.
Trama
Agnese compie i diciotto anni mentre vive con una madre molto devota e frequenta la parrocchia locale dove sta per compiere una promessa di castità fino al giorno delle nozze. Stefano ha venticinque anni, un passato difficile e un presente in cui deve cercare di conservare l’incarico di custode di un parcheggio che confina con un campo rom. La sua famiglia sta per essere sfrattata e ha bisogno del suo aiuto. Il loro incontro farà nascere un sentimento speciale che implica delle scelte importanti, in particolare per Agnese. A partire dall’inseguimento iniziale: una corsa in cui Stefano, addetto al controllo in un centro commerciale, insegue Agnese che ha rubato un cellulare di scarso valore. È il loro primo incontro ma non è l’inizio di un idillio. È solo il prologo di un percorso irto di ostacoli. Perché il microcosmo che li circonda non è loro di aiuto. De Paolis si libera da tutti i presunti doveri del politically correct, quelli per intendersi, che fanno gridare allo scandalo gli ipocriti che vorrebbero dipingere la realtà così come non è. In questo film i rom non sono tutti buoni così come gli sfrattati non sono solo vittime e le buone intenzioni non necessariamente conducono a quella Verità che potrebbe farci liberi.
Agnese è chiusa in una gabbia che non ha pareti ma che, grazie a una madre ossessionata da una religiosità pervasiva, la rinchiude apparentemente senza via di scampo. Questo senza che ci sia la necessità di rappresentare l’ambito parrocchiale come un luogo retrogrado e conservatore. Don Luca è un sacerdote che crede sinceramente a ciò che propone ai ragazzi, ne conosce le difficoltà in senso generale ma non entra mai in una dinamica di comprensione del singolo se non per una reprimenda sul furto.
D’altro canto le sirene del sottobosco malavitoso fanno ancora sentire il loro richiamo a Stefano. I due però hanno la forza (e la straordinaria interpretazione di Selene Caramazza e Simone Liberati ce ne offre con grande adesione ogni minima sfaccettatura) di conservare quella pulizia interiore che va oltre la conservazione di una verginità fisica. I loro sono cuori puri perché hanno già sperimentato gli ostacoli di una società che, con una metafora efficace anche sul piano visivo, vorrebbe ‘parcheggiarli’ al limine di una società complessa e potenzialmente pericolosa. Agnese guardata a vista da una gentile ma ferrea carceriera e Stefano costretto a fare la guardia mentre chi gli si propone come amico lo vorrebbe ladro. De Paolis li segue con uno sguardo partecipe illuminando lo schermo con