Redazione-Quante volte è capitato che, durante una discussione o un’amichevole reminiscenza, uno dei dialoganti abbia detto qualcosa simile a «No, guarda, ti ricordi male. È come dico io»? Quante volte, anche un po’ offesi dall’insinuazione che la nostra memoria non sia così ferrea come pensavamo, abbiamo abbandonato la conversazione, comunque convinti di aver ragione? Di certo avremo pensato che il nostro amico, parente o conoscente ci stava mentendo, prendendo in giro o, forse, era proprio lui a ricordare male e a non aver “fissato” correttamente l’evento. E se, invece, nessuno dei due avesse ragione o torto?
Ogni giorno ci affidiamo, spesso senza rendercene conto, alla memoria più che a qualsiasi altra facoltà. Ogni istante della nostra vita è cadenzato da ricordi: alcuni sono vere e proprie ricerche di memoria (per esempio, riportare alla mente le conoscenze studiate e “memorizzate” per un esame), altri invece sono “ricordi” impliciti, come il sapersi allacciare le scarpe o mettere in moto la macchina, azioni che ormai a distanza di anni abbiamo incorporato talmente bene, che non ci sembra neanche di star effettivamente ricordando qualcosa. Eppure, tutto ciò che facciamo, tutto ciò che pensiamo, tutto ciò che in un certo senso siamo dipende dalle nostre esperienze passate e, di conseguenza, dalla nostra capacità di tenerle e riportarle alla mente. «Senza memoria [un] soggetto si sottrae, vive unicamente nell’istante, perde le sue capacità concettuali e cognitive. La sua identità svanisce» (Candau 2002:70). Memoria e identità divengono così un’unità inscindibile: l’individuo viene modellato dai suoi ricordi; la sua personalità, la sua percezione del mondo e di sé vengono create in base a delle conoscenze pregresse e a delle esperienze passate che lo aiutano a mettere in ordine e dare un senso a ciò che lo circonda (cfr. Candau 2002:69-73).
Come funziona però la memoria? Abbiamo visto come, nonostante scandisca costantemente il nostro tempo, essa non sia del tutto affidabile: a volte non ricordiamo affatto, altre ricordiamo male o solo parzialmente. Gli studiosi della memoria, negli ultimi vent’anni circa, hanno lavorato per sfatare antichi miti sui processi di memorizzazione, secondo i quali la nostra mente immagazzinerebbe in maniera perfetta e letterale ogni avvenimento a noi accaduto. «Ora, siamo quasi certi che i nostri ricordi non corrispondano a dati che [recuperiamo] freddamente alla stregua di quelli del computer» (Schacter 2007:XIV). Esiste un altissimo grado di soggettività nel fissare e rievocare i ricordi; ciò che decidiamo di mantenere dipende dalla nostra facoltà di scelta, ma anche, e soprattutto, dal nostro stato di coscienza al momento dell’evento e della stessa rievocazione: le nostre sensazioni nel presente, le nostre esperienze passate, le nostre aspettative future influenzano non solo cosa verrà “archiviato” ma anche in quale maniera (cfr. Schacter 2007:XI–XVIII). Questo perché «la memoria umana è rappresentativa, quella dei computer è semplicemente presentativa, incapace di scegliere di ricordare o di decidere di dimenticare» (Candau 2002:74). Il nostro cervello, quindi, non si presenta come un magazzino, ma come una costellazione disorganizzata e soggettiva di esperienze passate che aiutano a svolgere ogni mansione all’interno della quotidianità di un qualunque individuo.
Dal punto di vista delle neuroscienze, questo è, in termini molto semplici e senza indugiare in tecnicismi, ciò che si pensa accada nel singolo. A livello collettivo, però, come si incrociano le memorie di ognuno con quelle di coloro che ci stanno attorno? Maurice Halbwachs, in La memoria collettiva, sostiene che non siamo mai soli. Ogni persona, nel ricordare (e di conseguenza nel vivere) è sempre accompagnata dalle sue esperienze, esperienze che, tuttavia, sono sempre costellate dalla presenza di chi ci è stato accanto: quindi, anche nel portare alla mente un evento passato in cui siamo sicuri che non ci fosse nessun altro con noi, in realtà stiamo inserendo il nostro vissuto all’interno dei vari gruppi di cui abbiamo fatto parte e che vengono attraversati costantemente in ogni fase della nostra vita. Con la loro regolare presenza riescono a influenzare un percorso, sì individuale, esclusivo e non condiviso, ma allo stesso tempo ricco di una sfera di collettività che ci segue continuamente (cfr. Halbwachs:79-109).
Si è citato brevemente come le persone siano in grado di scegliere (a volte anche inconsapevolmente) cosa ricordare. Ciò avviene grazie a un processo di selezione che ricorda il lavoro di un giardiniere: potare e sfrondare per valorizzare quel che rimane (cfr. Augé 2000:29). Questo fa sì che quegli elementi e quei dettagli che non si considerano importanti cadano “nell’oblio”. Tuttavia, prima di pensare all’oblio come alla “nemesi” della memoria, bisogna rendersi conto che «i termini in opposizione sono la cancellazione (l’oblio) e la conservazione; la memoria è, sempre necessariamente, un’interazione dei due» (cfr. Todorov 2001:33). L’oblio, il più delle volte, si presenta non come un nemico da sconfiggere ma come una realtà consustanziale del ricordo, come un diritto, un dovere e una necessità, serva per guarire, per perdonare o per dare rilievo agli altri ricordi che decidiamo di mantenere (cfr. Candau 2002:157-158; cfr. Augé 2000:24-34).
In conclusione, anche se spesso inaffidabile, sempre soggettiva e palesemente frammentaria, non si può negare che senza l’abilità di rammentare il trascorso della nostra vita, comprensivo di esperienze negative, traumatiche e, a volte, paralizzanti, non saremmo in grado di svolgere anche il più semplice dei compiti. Inoltre, la capacità di rievocare processi memoriali aiuta l’essere umano a inserirsi all’interno della società, a impararne usi e costumi e ad applicarli correttamente giorno per giorno e di contesto in contesto. Il tutto sta nell’equilibrio che ognuno di noi, nel vivere insieme agli altri, riesce a instaurare nel complicato rapporto tra le dimensioni di memoria e oblio, attraverso un’accurata selezione, essa sia consapevole o meno.