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“AGGRESSIVITA” DOTT.RE RICCARDO ROMANDINI

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Redazione-In un contesto teorico il termine aggressività rimanda ad un contenitore ricco di significati, funzionali tra di loro ma con definizioni contrastanti.

Analizzare l’aggressività nelle scienze del comportamento implica lavorare su differenti piani di indagine. Si può affermare che è un costrutto multidimensionale, tale multidimensionalità rinvia, inevitabilmente alla necessità di sviluppare e comporre diversi livelli di analisi per comprendere come in un certo ambiente, certi organismi sono o diventano capaci di produrre condotte da essi stessi sperimentate e riconosciute da altri come aggressive (Caprara 1981).

Per comprendere l’aggressività è necessario individuare le dimensioni comportamentali, cognitive e affettive che la caratterizzano.

L’origine etimologica della parola permette  di comprenderne i significati nelle loro sfumature; la parola deriva dal latino aggredi da gradi (ad+gradior) radice che contiene il significato di camminare verso, avanzare. Parola che indica voglia di distruzione ma contiene ed esprime anche il desiderio di autoaffermazione, la vitalità come forza, capacità, fiducia nelle personali attitudini costruttive.

In semantica è difficile rilevare una specificità del termine aggressività, sulla base del contesto in uso può assumere una molteplicità di significati, basti pensare che termini come rabbia, ostilità, violenza derivano dalla stessa area semantica, sono affini eppure hanno singolarmente caratteristiche ben definite e specifiche.

Anche in ambito scientifico si riflette questa dissonanza: la psicoanalisi e l’etologia considerano l’aggressività come un istinto, presente fin dalla nascita e perciò inevitabile nella vita dell’uomo; la psicologia cognitiva ha sempre più sottolineato come l’aggressività infantile dipenda non soltanto da fenomeni di frustrazione, ma anche da modelli aggressivi esterni che si riflettono indirettamente o direttamente sul bambino; lo studio della sociobiologia ipotizza che i comportamenti aggressivi, e le violenze sui più deboli siano una sorta di inevitabile conseguenza di una selezione naturale che è venuta a privilegiare i più forti, i più violenti, i più aggressivi; gli studi di correlazione tra i fattori neuroendocrini ed aggressività rimandano alle differenze di genere: nel maschio la presenza di ormoni androgini è significativa nella propensione all’aggressività, invece nelle donne ostilità, irritabilità, depressione sarebbero in qualche modo correlate con le variazioni connesse al ciclo mestruale.

Gli esempi in merito sono molteplici, riassumendo non è possibile dare una definizione univoca del termine aggressività, perché a seconda delle branche specialistiche l’aggressività può essere:

  1. Una caratteristica della personalità
  2. Una spinta motivazionale
  3. Una pulsione innata
  4. La realizzazione di determinate aspettative socio-culturali
  5. Una risposta alla frustrazione

L’aggressività comprende elementi motori, che consistono nelle specifiche sequenze motorie che esprimono i moti aggressivi volti all’offesa, la difesa, la predazione o la competizione in una gerarchia; elementi cognitivi che sottintendono l’insieme delle valutazioni e decisioni relative ai segnali ambientali e sociali impliciti in una situazione conflittuale; elementi affettivi, che orientano le risposte in relazione alla valenza attribuita ad una situazione e anche alle memorie di esperienze passate.

Accanto a questi elementi ve ne sono altri che regolano modalità, grado e tempi di espressione dei moti aggressivi.

Viene definito aggressivo il comportamento che procura intenzionalmente danno a qualcuno; l’aggressività può essere emotiva o strumentale. La prima forma accompagnata da forti emozioni e rabbia è innescata da una serie di condizioni che determinano sentimenti di frustrazione, paura e bisogno di difendersi, motivando l’aggressore ad infliggere una punizione a chi abbia causato tale situazione. Nel secondo caso la dimensione emotiva non è preponderante e il movente è quello do ottenere vantaggi a spese di una vittima.

Gli spazi del vivere quotidiano sembrano sempre più spesso permeati da una conflittualità che trascende la competizione vi si insinua odio e rancore. Gli stati affettivi aggressivi sono complessi ed includono ostilità, risentimento, invidia, gelosia, senso di colpa per aver procurato danno ad altri o essere responsabile della perdita di qualcosa,irritabilità,impulsività, rabbia e paura.

Inoltre anche l’ansia e la tristezza depressiva possono presentare una variazione alla probabilità d’innesco di comportamenti aggressivi, gli individui nevrotici tendono ad essere più litigiosi e suscitano più facilmente reazioni aggressive da parte dei membri della propria rete sociale.

Nelle ricerche degli ultimi 15 anni in ambito scolastico si è rivolta sempre maggiore attenzione ai comportamenti di aggressione e vittimizzazione tra scolari, indicati come bullismo, sul lavoro emergono nuove forme di prevaricazione tra le quali spicca il mobbing dove l’aggressione è condotta contro un singolo individuo da un collega e/o gruppo di colleghi con conseguenze disastrose sia sul piano fisico sia su quello psicologico.

Un possibile tentativo di classificazione dei moti di espressione dell’aggressività evidenzia: aggressione diretta rivolta contro uno specifico oggetto senza deviazioni o sostituzioni, aggressione indiretta può essere rivolta a danneggiare l’immagine sociale di una persona, animali o cose di proprietà dell’oggetto; aggressione attiva è quel tipo di aggressione che danneggia l’aggredito e si esplica nel fare, mentre quella passiva si esplica nel non fare attraverso le omissioni, il rifiuto e la non collaborazione; nell’aggressione incoscia si esprimono quei comportamenti aggressivi la cui origine è da ricercarsi nelle ostilità rimosse ed è agita nelle dimenticanze, lapsus verbali, di lettura e di scrittura quella conscia esprime la consapevolezza delle proprie finalità aggressive.

La misurazione dell’aggressività

Tra le tecniche proiettive convalidate ed utilizzate che analizzano la variabile aggressività: TAT (thematic apperception test), Rorschach, il PFS (Picture Frustration Study) di Rosenzweig

Il PFS si compone di 24 vignette rappresentanti ciascuna una situazione con due personaggi, il compito richiesto è di completamento delle frasi in una situazione di frustrazione, il presupposto metodologico del test è che il soggetto si identifichi con il personaggio frustrato e proietti nella sua risposta i propri atteggiamenti e i metodi abituali nelle situazioni analoghe.

Oltre alle tecniche proiettive il costrutto dell’aggressività può essere analizzato e quantificato tramite i questionari o inventari autodescrittivi di personalità: alcune sotto scala dell’ MMPI forniscono informazioni sulle attitudini aggressive dei soggetti (sottoscala della deviazione psicopatica) proprio dall’ MMPI sono è stato estratto lo Iowa Hostility Inventory, Moldawsky 1953; HDHQ Hostility and Direction of Hostility Questionnaire che valuta la tendenza all’acting-out dell’ostilità,la critica degli altri, il sentimento di colpa,l’autocritica, l’ostilità proiettata all’esterno. Per stimare le differenti forme espressive dell’ostilità-aggressività BDHI Buss-Durkee Hostility Guilt Inventory; AQ Buss-Perry Aggression Questionnaire 1992.

L’approccio psicanalitico

Secondo la teoria psicoanalitica l’aggressività può esprimersi anche attraverso fantasie, motti di spirito, lapsus o atti mancati.

Freud sviluppò per primo una concezione dell’aggressività posta al servizio del principio del piacere. L’aggressività è vista quindi come una reazione dell’individuo alla frustrazione sperimentata durante la ricerca del piacere o dell’appagamento della libido. Dopo il 1920 F. abbandona questa concezione in favore della teoria dei due istinti. Accanto all’istinto di conservazione Freud pose l’istinto di morte. L’energia di tale istinto va continuamente allontanata dall’individuo e indirizzata verso l’esterno per impedire l’autodistruzione.

Il bisogno di distruzione genera uno stato di tensione che può essere allentato dal comportamento dal comportamento aggressivo, ma che si accumula nuovamente dopo un periodo di riposo senza forme di aggressività. I concetti più importanti di questa teoria non ci permettono di formulare previsioni o ipotesi di verifica empirica. E’ inoltre improbabile che un individuo senta un maggiore bisogno di aggredire gli altri poiché per un certo tempo gli è stato impedito di farlo.

Questa teoria non ha nessun’incidenza sulle ricerche contemporanee sull’aggressività anche se ha originato prospettive a sé stanti che hanno dato luogo a concetti importanti. La Klein ha approfondito lo studio dell’impulso aggressivo attraverso le manifestazioni dell’attività fantasmatica nella prima infanzia; secondo la sua teoria i primissimi sentimenti che animano il bambino sono quelli aggressivi verso la propria madre, essi si riflettono poi su di lui sotto forma di angoscia e di immagini terrificanti. Adler aveva avanzato l’ipotesi che l’aggressività fosse una pulsione innata primaria con la tendenza a dominare la realtà.

L’approccio etologico

Anche in etologia si postula l’esistenza di un’energia istintuale di natura aggressiva. Secondo tale approccio l’aggressività accresce la probabilità di sopravvivenza e la conservazione della specie. S’ipotizza che in ciascun individuo vi sia un’energia latente che è specifica del comportamento e che è immagazzinata automaticamente.

La probabilità che si verifichi un’azione aggressiva e la sua intensità si fondano sull’effettiva forza di quest’energia latente. Per ogni area di comportamento esistono dei patterns di azione prefissati, alimentati da forze interne e centrali, e stimolati da quest’energia propria del comportamento.

Affinché il comportamento aggressivo possa avvenire si richiede uno stimolo scatenante esterno, dopodiché l’aggressività può accumularsi fino al punto di esplodere spontaneamente anche in assenza di chiari stimoli esterni. L’ipotesi di Lorenz della presenza di un modello idraulico per cui la scarica di piccole quantità di energia determinerebbe una diminuzione dell’aggressività è stata falsificata da molti autori.

Frustrazione e aggressività nel comportamentismo

Il gruppo di Yale rifiutò i concetti di istinto di morte e l’idea di pulsioni innate verso l’aggressività. Il loro modello energetico dell’aggressività prospetta invece che una persona sia motivata ad agire in modo aggressivo da una pulsione indotta dalla frustrazione.

Col termine frustrazione gli autori intendono la condizione che sorge quando il raggiungimento di un fine incontra un ostacolo. Secondo quest’ipotesi della frustrazione-aggressività la frustrazione conduce sempre a qualche forma di aggressività e l’aggressività è sempre conseguenza della frustrazione.

Quale sia il bersaglio dell’azione aggressiva, quello originario che ha determinato la frustrazione o un sostituto, essa serve a scaricare l’energia aggressiva prodotta dalla frustrazione. Furono avanzate critiche alla semplicità della relazione causale tra frustrazione e aggressione.

Si affermò che la frustrazione non conduce sempre all’aggressività ma può anche essere accompagnata da altri tipi di reazioni. Queste obiezioni stimolarono gli autori a modificare le ipotesi originarie. L’aggressività fu così interpretata come uno stimolo che induce una risposta aggressiva, la quale è inclusa nelle possibili tendenze di risposta dell’individuo. Essa è comunque vista come la risposta dominante ad uno stato di frustrazione.

La teoria dello stimolo segnale (Berkowitz)

Secondo Berkowitz la frustrazione non provoca immediatamente una risposta aggressiva, ma suscita nell’individuo uno stato di attivazione emotiva, la rabbia, che crea una condizione interna di preparazione al comportamento aggressivo. Affinché si verifichi un’azione violenta è necessario che nella situazione siano presenti stimoli provvisti di un significato aggressivo.

Gli stimoli acquistano la qualità di indizi aggressivi grazie a processi di condizionamento classico: in questo modo qualsiasi persona o oggetto può trasformarsi teoricamente in uno stimolo per il comportamento aggressivo. Secondo l’autore possiedono un alto valore come indizi aggressivi quegli oggetti che normalmente sono associati con azioni aggressive (effetto arma).

  • Esperimento: i soggetti dovevano svolgere un compito che era valutato da un complice dello sperimentatore. La valutazione consisteva nel somministrare un certo numero di scosse elettriche, variabile da 1 (molto soddisfacente) a 7 (molto scarso). Il numero di scosse era indipendente dall’effettiva esecuzione del compito ma serviva esclusivamente a suscitare diversi livelli di rabbia.

Nella seconda parte dell’esperimento entrambi i gruppi di soggetti, sia quelli che avevano subito molte scosse, sia quelli che ne avevano subite poche, dovevano valutare la prestazione del complice, somministrando scosse elettriche.

Nella prima condizione gli sperimentatori piazzarono in un tavolo nella stanza dell’esperimento delle armi dicendo ai soggetti che erano del complice e aggiungendo di non prestare loro alcuna attenzione.

Nella seconda condizione i soggetti vedevano le armi che però non erano associate al complice.

Nella terza condizione (controllo) non vi erano oggetti presenti. Nei soggetti non arrabbiati non si osservò alcun effetto degli stimoli aggressivi sul numero di scosse somministrate al complice. Nei soggetti arrabbiati l’effetto invece fu evidente, essi distribuirono più scosse in presenza delle armi di quando queste mancavano. Non si riscontrarono differenze significative fra le condizioni di associazione e quelle di non associazione al complice.

Sembra tuttavia più opportuno considerare l’effetto arma come il risultato di caratteristiche situazionali che rafforzano le manifestazioni aggressive, mentre è meno certo se si possa considerarlo uno stimolo condizionato come nell’ipotesi di Berkowitz. Secondo alcuni studiosi l’effetto rinforzante esercitato dagli stimoli aggressivi può essere dovuto al fatto che essi segnalano all’individuo che l’azione violenta è appropriata in quella situazione.

Secondo Berkowitz non esiste qualcosa come un’attivazione non specifica o neutra. Gli eventi avversivi producono un effetto avversivo diretto e conducono direttamente all’aggressività o alla fuga; le esperienze emozionali possono accompagnare queste forme di comportamento oppure no. La rabbia e l’aggressività sono processi paralleli e non sequenziali.

  • Esperimento: si assegnarono ai soggetti una condizione dolorosa oppure una piacevole, in cui dovevano controllare l’operato di alcuni complici impegnati nell’esecuzione di un compito e fornire loro un feedback sotto forma di ricompense o punizioni.

Nella condizione dolorosa i soggetti trattavano il partner in modo più duro anche se la causa della sensazione dolorosa e dell’emozione negativa non aveva nulla a che vedere con la persona bersaglio.

Quando ci interroghiamo sulle cause dell’aggressività non ci limitiamo a valutare le condizioni in cui tale comportamento si manifesta.

Un aspetto ancora più essenziale sono i presupposti che ci consentono di classificare il comportamento individuale come aggressivo. Si è visto che l’intenzione di nuocere, il danno arrecato e la violazione delle norme sono i principali criteri per definire un’azione come aggressiva.

  1. In primo luogo è importante il particolare contesto socio-normativo all’interno del quale è compiuta l’azione critica.
  2. In secondo luogo le teorie dell’attribuzione forniscono un contributo essenziale per comprendere cosa conduce le persone a inferire le intenzioni da un’azione compiuta da un’altra persona e identificano le posizioni cruciali in un’interazione aggressiva che può essere utile nell’interpretare la valutazione di un’azione critica. Gli attori valutano le loro azioni in maniera di gran lunga più positiva di quanto facciano i destinatari.

Tale prospettiva vede l’aggressività come una particolare forma di comportamento sociale, che è acquisita e mantenuta come qualsiasi altro comportamento sociale tramite il condizionamento operante. Se l’azione aggressiva ha successo il rinforzo positivo rafforzerà la tendenza a comportarsi in modo aggressivo.

L’influenza dei modelli sociali.

Bandura affermò che il primo passo verso l’acquisizione di una nuova forma di comportamento aggressivo è il modellamento, grazie al quale gli individui acquisiscono comportamenti osservando tali comportamenti e le loro conseguenze nelle altre persone. Un modello è in grado di ridurre le inibizioni associate al comportamento aggressivo in determinate situazioni.

Una serie di ricerche hanno dimostrato che vi è un’associazione positiva fra la visione di programmi televisivi di carattere violento e la tendenza ad agire in modo aggressivo. La violenza televisiva produce effetti a breve termine sulle tendenze aggressive degli spettatori.

Essa aumenta le tendenze aggressive negli spettatori con maggiore probabilità se:

  1. L’aggressione è presentata come uno strumento efficace che permette di raggiungere i propri scopi e rimanere impuniti.
  2. E’ rappresentata indipendentemente dalle sue conseguenze negative ed è mostrata come giustificabile.
  3. Chi agisce è mostrato con caratteristiche simili allo spettatore.
  4. Lo spettatore osserva la rappresentazione della violenza in uno stato di eccitazione emozionale che impedisce un atteggiamento più distante e critico.

  • La violenza in televisione influenza non solo la prontezza ad agire in modo violento ma anche gli atteggiamenti degli spettatori verso la violenza.

L’esperienza dell’attivazione negativa sembra essere un fattore importante nell’indurre le persone a reagire con un comportamento aggressivo. Accanto alle frustrazioni, sono molte altre esperienze che possono innalzare il livello di attivazione negativa dell’individuo, rendendo le risposte aggressive più probabili.

L’attivazione non specifica e la trasformazione di attivazione

Zilmann sviluppò la sua teoria del trasferimento dell’attivazione. Egli postula che le persone possano trasferire l’attivazione residua prodotta da una fonte ad una nuova condizione attivante; ciò significa che l’eccedenza di attivazione dovuta alla situazione precedente può sommarsi alla attivazione prodotta dalla nuova situazione.

Un secondo fattore che influenza la relazione fra attivazione fisiologica e aggressività sembra essere il modo in cui i soggetti interpretano l’attivazione e le definizioni che ne danno. La stessa attivazione fisiologica può essere interpretata come imbarazzo o paura in una data situazione mentre in un’altra può essere vista come rabbia.

  • Esperimento: gli autori misero a punto delle condizioni sperimentali in cui i soggetti erano portati ad attribuire la causa dell’attivazione generale ad una fonte neutra oppure ad una in relazione con l’aggressività. L’ipotesi era che solo nell’ultimo caso il trasferimento dell’attivazione supplementare avrebbe aumentato le tendenze aggressive.

I soggetti erano provocati da un complice, quindi dovevano pedalare su una cyclette per 1,5 minuti.

Ad un gruppo di soggetti si davano 6 minuti di riposo prima dell’esercizio mentre ad un altro gruppo di soggetti no. Essi avevano quindi la possibilità di infliggere al complice dello sperimentatore che li aveva provocati delle scosse elettriche di intensità variabile.

L’autore fece l’ipotesi che nella sequenza: esercizio-riposo-reazione l’attivazione residua avvertita sarebbe stata interpretata come collera, perché il periodo di riposo avrebbe permesso ai soggetti di riprendersi dalle fatiche dell’esercizio. Nella sequenza riposo-esercizio-reazione, l’attivazione sarebbe stata fatta risalire all’esercizio e non si prevedeva pertanto alcun aumento di manifestazioni aggressive. I risultati confermarono quanto previsto dalle ipotesi.

L’influenza sociale e il potere coercitivo

Secondo Tedeschi e Felson se si osserva il comportamento aggressivo da un’ottica valutativa neutrale si può vedere che esso presuppone una particolare forma di influenza sociale, cioè costringere un’altra persona a fare ciò che normalmente non farebbe. L’aggressività consiste pertanto nell’applicazione del potere coercitivo, sotto forma di minacce o punizioni.

Utilizzando i concetti della teoria della scelta razionale, essi postulano che l’esecuzione di un’azione coercitiva deve essere vista come il risultato di un processo decisionale: prima di usare una minaccia e una punizione, l’attore avrà esaminato i mezzi alternativi per raggiungere lo scopo.

E’ possibile distinguere tre scopi principali, dai quali è motivata la scelta della coercizione:

  1. Controllare gli altri;
  2. Ristabilire la giustizia;
  3. Affermare e proteggere l’identità.

Il ruolo delle norme nell’aggressività intergruppi e nella violenza collettiva.

Quando gli individui si trovano in un gruppo si comportano in modo più aggressivo di quando sono soli.

L’anonimato, la diffusione della responsabilità, la presenza di un gruppo e una ridotta prospettiva temporale contribuiscono a creare uno stato di deindividuazione. In netto contrasto con la teoria della deindividuazione troviamo la teoria della norma emergente. Secondo questa prospettiva le forme di comportamento estreme sono più probabili in un gruppo o in una folla perché all’interno del gruppo emergono norme nuove approvate dagli interessati e condivise nelle specifiche situazioni.

I risultati ottenuti fornirono conferme ad entrambe le teorie: i soggetti anonimi erano più aggressivi quando il comportamento aggressivo era normativo, ma lo erano meno quando era contro le norme del gruppo.

L’idea che le differenze osservate fra aggressività a livello personale e aggressività intergruppi possa essere spiegata chiamando in causa gli stati interni o una perdita di razionalità, non sembra convincente. Se le situazioni di gruppo si caratterizzano per la presenza di forme d’aggressività estreme, ciò è da ricondursi al fatto che i membri del gruppo sono convinti di comportarsi in modo appropriato e rafforzano vicendevolmente

questa convinzione.

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