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MATHIAS BURATTO E I SUOI RACCONTI DELLA “LOST GENEARTION” – (SECONDO EPISODIO)

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Venezia, la città dai mille riflessi d’oro, che tra mare e cielo soffonde la luce del giorno, così come i più lontani bagliori delle stelle, tra palazzi e le più distanti calli. Al pari di una perla riluce ai tenui colori della sera, e ancor più bella lumina lo sguardo quando di fuggevoli contrasti si adorna. Soffuse con le prime luci del tramonto, solitarie lanterne in ferro battuto conformano ogni colore all’imbrunire, quando con tinte pastello velano lo sguardo assecondando la fantasia. E mentre luci sempre più piccole tremano al buio della propria esitazione, quell’insolita natività di assoluta bellezza a poco a poco si addormenta. Ma tra non molto il mattino ridesterà tutti i cuori, e il presente, con la sua astante meraviglia, aspetta tutti noi sul terzo vagone di Trenitalia, più precisamente quello delle 12.23, che, come ogni giorno, accompagna migliaia di persone da Mestre fino a La Serenissima.

Venezia accoglie tutti senza eccettuare mai nessuno: residenti e turisti, curiosi e disillusi, coloro che amano l’arte, la storia, la cultura… Uomini e donne alla continua ricerca della bellezza, di silenziosi attimi d’eternità o di un solo contrappunto di estemporaneo splendore; perché di tutto ciò che meraviglia il cuore, Venezia offre un’implicita risposta. Perfino la persona più arida di sentimenti una volta giunta fin qui non può fare a meno che lasciarsi conquistare da lusinghe sì perfette. Conoscersi, innamorarsi, vivere; perfino morire a Venezia è un privilegio, un onore che muta qualsivoglia figura per tracciare nuovi confini verso l’eterno ignoto spazio che solo alcuni possono chiamare casa.

Anche Karl, che dalla vita aveva saputo cogliere ogni suo più piccolo ed effimero controsenso, non sarebbe mai potuto restare indifferente nel ricordare quel tenue riflesso di sole accarezzare le acque, per poi ridisegnare il profilo dei palazzi più alti. E mentre il treno perseguiva la sua corsa lungo la strada ferrata, capace ancora di nascondere il volto della città, il silenzio che pareva avvolgere il vagone venne ben presto infranto dalla voce roca, ma nonostante tutto possente, di Karl.

«So bene che a vedermi non si direbbe», proruppe l’uomo con fare incerto, quasi titubante. «Ma anch’io ho sospirato d’amore innanzi la fragile inconsistenza del nulla.» E nel vano tentativo di ridimensionare le proprie parole, arretrò con le spalle per riaccostarsi al sedile.

Accanto a lui sedeva un ragazzo di nome Christian. Era alto, aveva i capelli lunghi poco oltre le spalle e, aspetto che ben poche ragazze avrebbero trascurato, un fisico prestante. In eufonico contrasto alla sua massa muscolare, un placido sorriso volto a un imbarazzo che non riusciva in nessun modo a nascondere. I suoi occhi scuri come il velo della notte tradivano mille e forse più indecisioni, e un accennato senso d’inadeguatezza corredava il tutto. In parte intimidito da quell’insolito compagno di viaggio, guardava un po’ ovunque con fare smarrito, come se in quel vagone fosse contenuto un mondo che fino a quel momento gli era stato sistematicamente secluso.

«Lo so», continuò l’uomo con voce sempre più grave. «Noi vecchi non abbiamo nulla da offrire. Niente per cui valga la pena perdere il senso della vita, o la sua futile esistenza.»

Non sapendo cosa dire, il ragazzo guardò semplicemente fuori dal finestrino.

Non avendo ricevuto alcuna risposta, ma caparbio nella propria ostentazione, Karl riprese il suo soliloquio, o il suo sproloquio, a seconda dei casi. «Tu non sei d’accordo, ragazzo?»

Obbligato a rispondere, Christian preferì essere quanto più evasivo possibile. «Io penso che ogni età abbia qualcosa di bello, qualcosa per cui…»

Karl lo interruppe trattenendo a stento l’ironia. «Valga la pena vivere?»

Il ragazzo fece un assenso.

Esaurito il discorso, un nuovo sipario costruito dalle più ovvie incomprensioni scese tra i due; contemporaneamente dentro e fuori dalla scena, entrambi non sapevano a quale palcoscenico votarsi.

Christian era un ragazzo molto giovane, a cui la vita sorrideva con l’implicita promessa di mille doni pronti a svelarsi dietro ogni angolo. Karl, invece… be’, ormai lo conosciamo abbastanza da immaginare il perché di ogni suo malcontento. Ma in ogni caso era desiderio di entrambi cercare un modo per dare seguito a quell’insolito discorso forzato solo in parte dalla vicinanza.

Karl fu il primo a riempire di parole il reboante silenzio che li stava separando sempre di più.

«A parte tutto», continuò schiarendosi la voce, «è bello essere qui.»

«Venezia è sempre Venezia», disse il ragazzo.

«No», lo corresse Karl con piglio sicuro, quello tipico di chi ha sempre il controllo su ogni situazione. «Ti sono…» Si schiarì la voce. «Ti sono grato», concluse quasi sussurrando in modo che nessun altro lo potesse sentire.

Christian lo guardò attonito, e in quel nuovo imbarazzo semplicemente sorrise. Ma da Karl non ricevette alcuna risposta; anzi, si può dire che l’uomo nemmeno se ne accorse.

«Da quanto tempo non viene a Venezia?» domandò Christian dal momento che toccava lui trovare qualcosa da dire per allontanare quell’ingombrante silenzio che pareva aver preso possesso di tutto il vagone.

«Da troppo per poterlo ricordare», rispose Karl.

«Così tanto?»

«Lo so, è imperdonabile, ma la vita, gli affetti… tutto muta. E il tempo, sottile ladro di gioventù, ci lascia ben poco per fare ciò a cui il nostro cuore anela.»

A quelle parole Christian corrugò la fronte.

Non sentendo alcuna risposta, Karl tradusse quel silenzio: «Non badarci, sono solo patemi di un vecchio.»

«No, non è così», replicò il giovane.

«Ah, no?»

«Stavo solo pensando a una ragazza», gli confidò con velato imbarazzo a tingergli le guance di rosa.

«Una ragazza», ripeté Karl.

«Già, ma lei è troppo per me.»

Lo sguardo dell’uomo si fece dapprima severo, poi, dopo aver rilassato i muscoli della fronte, quasi condiscendente. Ma non volendo chiosare troppo sull’argomento, preferì aggirare in parte quell’annoso discorso.

«Direi che è quasi retorico», disse scuotendo la testa.

Christian si frappose a quelle parole: «Direi più un ironico presagio, data la circostanza.»

«Presciendo la luce, ben oltre le sabbie del tempo, la vita ravvisa ciò che le tenebre ascondono», rispose Karl sempre più assorto, come se fosse stata una frase capace di riportarlo indietro nel tempo.

Christian gli rivolse uno sguardo altresì confuso, ma ancora una volta l’uomo sembrò non accorgersene, e per la prima volta il giovane si sentì libero di osservarlo meglio. Karl era molto anziano, provato non solo dal tempo o dalla vita. Era insolito perché sempre più spesso soleva guardarsi attorno più e più volte, ma sempre con accinto disinteresse, che lo portava a diffidare da tutto e soprattutto di tutti. Ma la cosa più strana era che i suoi occhi non si soffermavano in nessun punto. La bellezza scivolava dal suo sguardo come gocce di pioggia su un vetro, come ombre di luce che si stagliavano sul muro della vita. Tuttavia, Christian poteva soltanto dedurre ciò, dacché gli occhi di Karl erano costantemente nascosti da grandi occhiali scuri e impenetrabili; a vederlo, pareva che la notte più buia si fosse serrata nelle lenti e, al contempo, nel suo cuore.

“La vita deve averti fatto molto male”, pensò il ragazzo.

Non fece in tempo a nascondere la sua smorfia di compassione che Karl, austero come il primo passo volto nell’ignoto, si girò fino a incontrare il suo viso. Gli occhi ingenui del giovane, o forse fu soltanto il profondo silenzio in cui aveva abbandonato le proprie emozioni, riuscirono a trafiggere quel senso di abbandono che, imperituro, coesisteva con lui già da troppo tempo. Nascosto dietro una malcelata indulgenza, Karl ritrovò infine se stesso, le paure, tutti quei bisogni che aveva sistematicamente negato. Con un solo e semplice sguardo, Christian si trovò innanzi a ogni sua miseria.

«Si può sapere che fai?» eruppe l’uomo con ritrovato sdegno.

«Niente», si giustificò il giovane.

«Non mentirmi, non approfittarti della mia riconoscenza!»

«Io…» Christian rimase senza parole, poi, ricordando il nonno a cui era tanto legato, con nuova simpatia gli sorrise e malgrado le remore dell’uomo si avvicinò. «Va tutto bene», gli disse a fil di voce, «non sono qui a giudicarla, non mi permetterei mai.»

«A maggior ragione», lo rimproverò Karl, «ci sono cose che non puoi capire. Tu non mi conosci!»

Christian gli sorrise. «Non ho ancora avuto questa fortuna.»

«Credimi: non è una fortuna conoscere una persona come me.»

«Però è venuto fin qui», gli fece notare il ragazzo.

«E non so spiegarmi il motivo.»

«Forse perché ci tiene.»

Karl lo indicò. «Non si può ripetere il passato!»

Christian gli sorrise ancora. «Ma certo che si può.»

L’uomo tradì la propria sorpresa nel vedere che un ragazzo sì giovane conoscesse Fitzgerald tanto da citarlo fedelmente. Lì per lì non disse nulla, fu la sua espressione compiaciuta a parlare per lui.

«Mi piace DiCaprio», ammise il ragazzo con onestà.

Entrambi ridacchiarono, anche se Karl lo nascose. Senza volerlo, Christian era riuscito ad alleggerire il momento; lo aveva privato dalle pesanti vesti del pregiudizio per riconformarlo a quella che sempre sarà l’inaspettata amenità della vita.

«In ogni caso», continuò Karl, «un punto a tuo favore.»

«Quindi le sono un po’ meno antipatico?»

Karl sorrise velando così l’insorgere di un insolito senso di colpa. «Non mi sei antipatico», gli disse, «è che…»

Christian provò a tradurre quel silenzio: «Lei non è abituato?» E nel dirlo, una smorfia svelò il suo timore di aver osato troppo, o troppo poco, a seconda dei casi.

«Non avrei saputo dire meglio.»

A quella affermazione, finalmente priva di giudizio, lo sguardo del ragazzo infine si distese. «Mi fa piacere saperlo.»

«Mi fa piacere che sei riuscito a capirlo», concluse Karl.

Christian decise di cogliere al volo l’inaspettato momento di fragile emotività dell’uomo. Era senz’altro l’unica occasione che gli sarebbe stata concessa dal momento che Karl, nonostante la sua età, emanava ovunque attorno a sé una strana aura di doveroso rispetto. Forse erano i suoi occhi perennemente nascosti, o i capelli bianchi e tirati indietro, o ancora la voce bassa e roca. Invero non riusciva a dare forma alle sue sensazioni, ma qualcosa in Karl esigeva (e senza alcun dubbio otteneva) il totale rispetto che il suo ego intimava a gran voce. Karl non era di certo il nonno che nell’imago di ogni bimbo riflette l’archetipo inconscio nel quale plasma le proprie sicurezze. Karl non era la certezza di un abbraccio, di una parola gentile o di un sorriso amico. Karl era la nemesi di tutto ciò che allieta il pensiero. Perché, allora, Christian non poteva fare a meno di sottrarsi a ogni sua più inconscia reticenza pur di avere l’approvazione di quell’uomo?

Perché Christian nutrisse incertezze così irrazionali in nome di qualcosa che lui per primo non sapeva riconoscerne l’origine era forse il mistero più grande. Era vero, però, che egli si sentiva insolitamente attratto, respinto e allo stesso tempo incuriosito da quell’uomo che suggellava ogni sua più piccola emozione come un’incongrua debolezza.

Il treno stridette sul binario e il forte rumore ridestò il ragazzo dai suoi pensieri che, per più di qualche minuto, erano riusciti a riportarlo all’infanzia. Un’infanzia felice e spensierata, un luogo affrescato da ricordi che lo avevano visto crescere con una bontà d’animo insolita rispetto alla sua giovane età. E nonostante i ricordi fossero soltanto ricordi, lontani frammenti di una vita passata, il ragazzo riusciva ancora a trovare quasi tutte le risposte a quelle domande esistenziali che l’età adulta porta con sé. Per molti un peso, una ragione per preferire la dolce fragilità dell’adolescenza; ma per Christian una semplice successione di giorni, di sorrisi e di nuove esperienze capaci di donare alla vita tutte quelle emozioni irrinunciabili. Con nuovo imbarazzo si schiarì la voce, si guardò più volte attorno e, trattenendo il respiro, decise di seguitare il discorso con Karl, anche se non sapeva come.

Nel dubbio disse la prima cosa che gli venne in mente. «Perché non mi racconta come vi siete conosciuti?»

In un primo momento Karl si sorprese da come Christian fosse riuscito a cambiare discorso in un modo così disinvolto. Prima di partire, l’uomo si era ripromesso che per nulla al mondo gli avrebbe detto la verità, ma per qualche insolita ragione, qualche motivo estraneo a lui, così come al suo fermo senso votato sempre più alla preclusione, quella domanda gli era sembrata logica e, peggio ancora, legittima. E dire che quella storia non l’aveva mai raccontata a nessuno, e non perché non ne avesse avuto occasione, ma perché nonostante il tempo definisse giorno dopo giorno il suo più grande rimpianto, quel solo rammarico si era sempre mostrato capace di togliere alla vita qualsiasi accezione, perfino la sua innegabile meraviglia.

«Io…» disse sottovoce, poi, non trovando le parole più giuste, lasciò cadere il discorso, e guardandosi attorno inspirò profondamente. Per alcuni istanti sorrise al vuoto, poi, accarezzandosi la mano, decise di dare seguito alla sua premessa. «Aspetta un momento.» Trattenne di nuovo il proprio entusiasmo. «Innanzi tutto, dimmi dove siamo.»

Sorpreso da quella domanda, Christian gli fece notare che si trovavano su un istmo di terra circondati ovunque dal mare.

Karl fece rapido un assenso, quindi continuò: «Ormai sono scorsi così tanti anni che ho perso il conto», prepose con malinconica assenza. «Erano circa le sei di mattina e, proprio come ora, il treno aveva da poco lasciato la stazione di Mestre. Era tutto molto irreale dacché la strada ferrata fungeva da spartiacque. Per un ragazzo che, come me, non aveva mai visto nulla (o quasi), ritrovarsi nel mezzo del mare a “valicare le onde” era qualcosa di…» E non trovando parole per descrivere ciò che aveva provato preferì lasciare qualsivoglia paragone alla fantasia, da sempre ben più avvezza ad ammantare di meraviglia l’immaginazione. «Sai, a quel tempo ero molto giovane, ovviamente, ma anche introverso e timido», ammise con discreta nonchalance. «Conoscevo ben poco del mondo. Adesso, però, devi guardare.»

«E perché?» domandò il giovane.

«Perché puoi vedere Venezia al massimo del suo splendore.»

Christian si avvicinò al finestrino, si rivolse all’indirizzo di Karl e ancora una volta lo vide del tutto impassibile; l’uomo era assorto a osservare quel nulla che innanzi i suoi occhi, e prima ancora ai suoi pensieri, conformava ogni cosa al buio della notte. «Lei non guarda?» domandò sorpreso che si privasse volontariamente dal rivivere i ricordi e, con essi, la nostalgia.

«Non potrebbe mai essere più bella di come la ricordo.»

Il ragazzo annuì, anche se il suo sguardo tradì tutta la perplessità che aveva cercato di nascondere.

“Avrà le sue ragioni”, concluse tra sé e sé.

Commenti

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8 Commenti
  1. Paola dice

    Mi piace molto come scrive questo scrittore perché nel leggerlo mi suscita grandi emozioni. Complimenti

  2. Paola dice

    Mi piace molto come scrive questo scrittore perchè, nel leggerlo, mi suscita grandi emozioni
    La descrizione della laguna è “degna del pennello di Aivazovsky”.
    Complimenti.

  3. Federica dice

    Assolutamente da leggere e rileggere… aspetto con ansia il prossimo venerdì

  4. Maria dice

    Una città bellissima per un racconto meraviglioso. Il mio viaggio di nozze. Quanti bei ricordi! È proprio cosi bella Venezia, come la descrivi tu. Sei stato bravissimo a trovare le parole per descriverla, per me sarebbe impossibile!

  5. Luisa dice

    Bravo e bello, che cosa si può chiedere di più? Da noi si dice… ¡me encanta!

  6. Ilaria dice

    Bellissimo nella città più bella del mondo😍

  7. Eleonora dice

    Venezia, la città dai mille riflessi d’oro, che tra mare e cielo soffonde la luce del giorno… hai detto tutto con queste poche righe.

  8. Jessica dice

    Bella, bella, bella… sempre più bella!