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” EXEQUATUR ” DI FAUSTO MARCONE

QUADERNO Note e appunti, diurni e notturni di Fausto Marcone

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Redazione- Qualche sera fa in pizzeria con alcuni amici ho assistito ad una sgradevole scena: un bambino irrequieto e irritato rovescia dal tavolo il suo piatto, si alza dalla sedia e si pone a un metro di distanza in atteggiamento di sfida nei confronti della madre che, probabilmente non sorpresa dallo scatto d’ira del figlio, continua a dire: «Ma Fede, ma Fede, ma Fede. Amore, son cose da farsi?» Il blando rimprovero è andato avanti per un quarto d’ora sotto gli occhi straniati, non solo per via del piatto, del cameriere e con una certa attenzione da parte nostra distanti solo un tavolo. Poi è scattata la reazione isterica della madre e che da “Amore-Amore” è passata alle urla e a inveire rabbiosamente sulla persona del figlio, mentre il padre e altri due adulti

continuavano a mangiare. Alla fine il ragazzetto, con gli occhi torvi, è tornato a sedersi, il cameriere a pulire e poi a portare un altro piatto. Il gestore dal bancone si è avvicinato e si è rivolto alla madre: «Non è nulla, signora, non si preoccupi. Vuole che faccia portare un’altra pizza?»

«No, voglio il gelato». Imperterrito. L’espansione e la libertà inusitata del ragazzetto, che prima avevano riempito lo spazio a lui circostante e toccato anche noi, ora volevano ricoprire anche il padrone di casa.

«Sì, forse è meglio che porti un gelato», finalmente calmatasi anche lei.

E ha portato poco dopo il gelato. Noi abbiamo stancamente concluso il nostro incontro di pizza e ognuno è tornato a casa facendo calare il sipario sulla giornata e serata.

Nella notte però, in un risveglio, mi sono balzate innanzi, vivide, le immagini della scena della pizzeria: il ragazzetto che con un gesto di stizza verso qualcosa o qualcuno spinge il piatto a terra, la madre che prima con voce discutibilmente e vanamente persuasiva lo richiama non si sa bene a che cosa poi gli scaraventa addosso tutte le parole che conosce, il padre con gli altri due commensali che

continuano a mangiare come se la cosa non li riguardasse, e forse la cosa non li riguardava veramente, il cameriere in imbarazzo che non sa cosa fare e guarda verso il gestore, che alla fine porta con malcelata irritazione il gelato, i miei commensali che osservano con serietà, come me, la scena ma non hanno alcun commento. Il ferma immagini notturno della mente blocca il volto del bambino, duro e sprezzante negante tutto ciò che gli è intorno, la bocca della madre che insensatamente pronuncia il vocativo “Amore” e poi le parolacce.

E in un momento, se l’impianto proustiano della memoria involontaria non mente, sono tornate le immagini di tanti anni fa. Le immagini dei ceffoni che avremmo preso noi, immancabilmente, inevitabilmente, inesorabilmente, ineluttabilmente, indefettibilmente, inflessibilmente, implacabilmente, senza scampo insomma, se vogliamo dirla con una parola. E allora per divertimento, perché nella notte esistono anche questi divertimenti, giochi della memoria, della fantasia, del non sense, non avendo voglia di mettermi a fare con me stesso una discussione pedagogica sulle madri e sui padri e sui figli di oggi, ho chiesto al mio Leporello che dorme acquattato in un bugigattolo della mente un elenco di tutte le parole che ai miei tempi dicevano

il “ceffone”. Quello non s’è fatto aspettare e ha cominciato scanzonato: Il catalogo è questo, Madamino.

Ad ognuna la sua occasione degna e giusta correzione.

Ed era così, le molteplici occasioni essendo inscritte nella caotica varietà (è simpatico adesso, forse anche affettuoso, chiamare varietà ciò che si rivelava ben altro e a volte con particolari conseguenze) della nostra vita di ragazzi. Ogni nome e ogni forma aveva una valenza istruttiva-educativa o repressiva diversa, istruttiva o educativa, perché poteva servire, il ceffone, o a insegnare qualcosa o a educare, civilmente e moralmente, su qualcosa. Quello della mattina, di tutte le mattine, per farci lavare la faccia, il collo e le orecchie prima di andare a scuola era istruttivo, quello dopo una parolaccia o dopo un’espressione particolarmente colorita e salace, nostra

ovviamente, apparteneva all’ordine morale e civile, quello in ultimo a seguito di una malefatta era repressivo-correttivo. Tanto per chiarire. La casistica giornaliera dei tre ordini era perfettamente paritaria e i tre ordini non andavano poi distinti così nettamente.

Il catalogo è questo. Le più usate:

papagnone, a mano aperta, le cinque dita istantaneamente disegnate sulla guancia, il principe dei ceffoni pedagogici; secondo E. Giammarco, Dizionario abruzzese- molisano, Ed. dell’Ateneo, 1976, lu papagne verrebbe da papavero, un papagnone avrebbe dunque la proprietà di addormentare. Compare anche nel dialetto bolognese e dovrebbe addormentare anche lì, a Bologna;

scurcione, poteva essere un dritto o un rovescio, doveva colpire di scorcio come dice la parola ed era diretto per lo più sulla bocca. La somministrazione aveva una sua confacenza dopo che dalle nostre bocche era uscita una parolaccia, e forse più di una; sganassone, anch’esso diretto sulla guancia, assomigliava al jeb dei pugili, piuttosto lento però perché veniva dato dopo qualche attimo di riflessione, a ponderare la quantità della mancanza e di conseguenza a determinare l’entità, il voltaggio, della

sanzione;

buffettone, il buffetto, canonico, era quello del sacerdote al momento della cresima, qui ben altro si intendeva, naturalmente, ben altra consacrazione;

schiaffone, repentino, fulmineo, scattava dalla collera più indignazione ed elargito indifferentemente con la destra o con la sinistra, ciò dipendeva dalle rispettive posizioni sul terreno;

scapaccione, rivolto chiaramente al capo ed aveva il valore di un congiuntivo esortativo, exsequatur, si esegua, che sostituisce l’imperativo, ma nei nostri casi con perentoria formalità. Per intenderci non esprimeva un dovere come nella perifrastica passiva, pacta sunt servanda, emanava un vero e proprio ordine, da eseguire, e subito. Poi non si sa se vengono rispettati, i patti;

scucuzzone, la cocuzza è propriamente la zucca, metafora universale per la testa di uomini (poi chissà se è solo una metafora); non era pesante, nonostante l’accrescitivo e il suono cupo della “u”, era per lo più un accompagnamento al dovere e qualche volta persino un gesto elogiativo. Tutto perciò girava nel male e anche nel bene; scuttulone, non si trattava di un colpo, ma di una presa sui capelli (come riuscissero a farlo era un mistero data la rasatura “alla Umberto” delle nostre teste, ma ci riuscivano) con ripetuto e irruente scuotimento, chiaro e reiterato invito a considerare la gravità della malefatta e le sue conseguenze. Poteva essere anche una misura preventiva, anticipatrice della malefatta, il che dava luogo ad un credito di una malefatta, che non tardavamo a riscuotere.

Tutti accrescitivi come si vede, ma sarebbe meglio dire peggiorativi, fisicamente peggiorativi. L‘accrescitivo era d’obbligo, doveva incutere paura ed inoltre il normale, il medio, benché sede della virtù, riscuote sempre poca fiducia. La paura

forse c’era stata in un tempo iniziale, poi però con la scomparsa prevedibile dei timori

-lo spauracchio durava davvero poco in animi acerbi che ciononostante provavano la facile arte dell’incallimento- non spuntò lo scetticismo sull’accrescitivo che divenne invece una consuetudine della parlata. E davanti l’accrescitivo c’era sempre l’articolo indeterminativo un («Uno sganassone se non stai fermo!») non il determinativo con il quale tutto sarebbe finito lì. Un poteva significare un altro e poi un altro ancora, tre, numero perfetto, tutti interi, positivi.

Accrescitivi, ma meno usati, meno fruiti, erano:

pagnuttone, la pienezza lievitata e saziante, l’immagine mentale non andava alla rosetta, né alla baguette, ma al filone da due/tre chili che usciva dal forno di quartiere; sberlone, capitava con minor frequenza, anche come minaccia, perché richiamava più chiaramente l’italiano, verbalmente fiacco. In quella pedagogia la lingua italiana era ritenuta strumento non adatto, inefficace, avvertito spesso quale veicolo del compromesso, mentre di fronte al manifestarsi del κακός , del male, bisognava la

forza espansiva e immediata del dialetto.

I non accrescitivi, ma non si creda di minore efficacia, erano per lo più: mappina, il più frequente, nella minaccia e nell’esecuzione. La mappina è lo strofinaccio che si usa in cucina, in italiano “canovaccio”. Quando si minacciava “una mappina al muso”, non bisogna pensare ad una specie di fazzoletto, un guanto di sfida lanciato sul volto. No, la mappina in casa era perennemente bagnata, di dimensioni molto più estese del fazzoletto, e, si creda, ricevere con una certa

veemenza un mezzo asciugamano bagnato sul volto non era una cosa piacevole. E

che senso avrebbe avuto poi un’espressione come “Adesso ti arriva un canovaccio sul muso!”, ammesso che si conoscesse la parola;

manata, evocava la forza delle mani nel raccogliere e conservare fagioli, ceci, nello sbattere i cuscini senza il battipanni (altro strumento pericoloso nelle mani delle madri. Mi sono sempre meravigliato della forza delle mani delle donne, quando leggevo sui libri del sesso debole. E d’accordo per le maggior parte delle madri che erano casalinghe, massaie, abituate a impastare il pane, con bicipiti ben sviluppati e allenati, ma le maestre, le curate braccia e mani delle maestre dimostravano forse meno vigore e meno disinvoltura del fabbro ferraio?);

cinquina, un’ironia beffarda, quasi del tutto impossibile azzeccare una cinquina al Lotto, ma altrettanto scialacquatrice e magnanima la sorte nel regalarci alla bisogna quelle cinque dita.

E poi i più rari:

leccamusso, strisciante, una razione veloce in condizioni temporali ristrette o in situazioni di socialità (cerimonie, feste, visite ufficiali) nelle quali non erano consone maniere più vistose, tutto sarebbe stato regolarizzato più tardi;

ciavattata, il più raro, nell’attuazione, probabilmente perché implicava un movimento più oneroso, dispendioso di energia da parte del genitore-giudice e ufficiale esecutore. Come minaccia aveva però una sua ricorrenza soprattutto da parte di

alcune anziane signore che in pratica vivevano sulle e con le ciabatte, quando soprattutto avvertivano il pericolo delle nostre pallonate. Il ladino ha un termine, ciavateda, che si avvicina al nostro, ma non proviene dalla plebea calzatura. Ognuno di quei nomi, quindici quelli riportatimi dal mio Leporello, e di sicuro ne manca qualcuno, definiva dunque un movimento e un punto bersaglio preciso o un

giro della mano, ma ognuno molto probabilmente -altrimenti perché tanta dovizia di parole e di modalità esecutive?- era commisurato alla circostanza e al suo rilievo penale e morale, perciò definiva anche una regola tacita. Fra parentesi, ma ha tutta la sua importanza: non c’erano particolari scenate, la postura facciale del genitore si avvicinava a quella tribunalizia e soprattutto non c’erano umiliazioni.

Ho pensato che sicuramente in tutti i dialetti deve esserci stata una simile cornucopia espressiva e attuativa. Me n’è venuto in mente qualcuno in milanese, slepa, che è un po’ comune a tutta la fascia nord orientale dell’Italia a partire da Bologna. In milanese ho sentito anche un catafigh, che propriamente è “raccogli fichi” e come fosse finito a indicare un ceffone mi è rimasto piccolo mistero. Nei dizionari storici “dare schiaffi” veniva riportato con “colafizzare”, tolto pari pari dal greco, da κολαϕίζω, schiaffeggiare, che in latino generò colaphus, pugno, quasi sempre declinato all’accusativo, mentre lo schiaffo era alapa con vocali aperte che danno senza dubbio molto di più la sensazione della stessa mano aperta. Anche a Roma,penso, e non solo nella Suburra, ci saranno stati espressioni molteplici.

Un movimento preciso dunque, ma soprattutto un bersaglio preciso, che era la testa, ritenuta giustamente la sorgente responsabile dei nostri misfatti. Non si ponevano la domanda di Tertulliano, Unde malum et quare?, il male stava lì dentro e da lì si doveva levarlo. Tutti quei nomi e il loro passaggio attuativo dovevano servire a sottrarla dalle grinfie del seduttore, a pulirla dai semi che egli continua a gettarvi,

dovevano tenerla lontana dall’iniquità e dal peccato, che non ha bisogno di una natura corrotta per esistere. Le violenze e i misfatti vengono perpetrati anche senza essere violenti, lo ha spiegato bene H. Arendt. E il disordine dell’animo, la cecità mentale e l’ignoranza infantili sono iniziali terreni fecondi e se non l’allontanamento dal male almeno la lotta. Nella loro condizione di semianalfabeti, nella limitatezza dei loro sistemi etici interiori a quelle mani e a quelle menti questo rimaneva chiaro e non badavano neanche alla distinzione dei teologi tra la piena avvertenza e la non piena avvertenza, l’intervento era volto a sradicare qualsiasi insignificante manifestazione

di inclinatio, consuetudo e infine consensus mali. Non si sorrida di queste vecchie parole tomistico-scolastiche, dicono verità, e non ancora. La dicono.

Nessuno piangeva o frignava o generava rancore, tutto veniva gestito quasi con il silenzio, senza strilli e clamori dell’assalto o scenate teatrali, forse era quello il

silenzio della giustizia, la giustizia giusta. Tutto girava nell’essenziale, senza niente di superfluo, non troppe parole accompagnatrici o oziose, né parole da mercanti.

«Che ho fatto?»

«Ne vuoi un altro per capire? A chi parlo io? Agli asini?».

È che non aveva parlato, non aveva mosso la lingua, bensì le mani. Forse aveva detto qualche tempo prima qualcosa, forse molto tempo prima. «Τὸ κακὸν ποιῆς, φοβοῦ», fai il male, temi, (Paolo, Rom., 13,3-4).

Era comunque un po’ come in certe attività di ricerca dei fisici, che hanno a che fare con oggetti non universalmente quantificabili matematicamente e allora dicono «si capirà quando si vede».

La minaccia era diretta, veloce, con la menzione della misura repressiva, ma anche altrettanto veloce, quella indiretta, metaforica («Poi facciamo i conti!») essenziale, sostanziale. Che bisogno c’era di eloquio, di argomentazione, di iperbole? Il tono di voce era più che sufficiente, un po’ come nella novella di Chichibio di Boccaccio allorché Currado Gianfigliazzi minaccia il cuoco bugiardo e Boccaccio scrive:

«Finite adunque per quella sera le parole» e in effetti la minaccia deve essere sbrigativa, non ci si può fare un discorso, perderebbe credibilità. Come credibilità si va perdendo con il profluvio, anzi il diluvio di parole che con la telefonia mobile si è rovesciato su tutti i luoghi abitati e non abitati. Tutto ciò che prima si agitava dentro i corpi adesso fuoriesce come un’alluvione che melmosamente avvolge ogni cosa che incontra. Le parole di accompagnamento del ceffone erano sobrie, calibrate, soppesate, quasi avare.

Quelle mani, avvezze a legare ramoscelli e giovani piante, avevano rivoltato le pietre sbriciolate dai bombardamenti, rappezzato pantaloni, cavato e sbucciato patate, avevano chiuso gli occhi di chi se ne era andato, avevano messo firme o croci su carte estranee e ostili, quelle mani nel dare ceffoni portavano la tenerezza con cui si coglie il nuovo germoglio.

Ora, le vie dei fatti della storia e delle vicende individuali sono palesi e nascoste, è possibile che siano state le versioni di greco e latino o le letture dei tomisti e agostiniani o le canzoni di Jannacci e De Andrè ma a un certo punto della nostra evoluzione abbiamo osato credere in un cambiamento impossibile. Io però ho continuato a pensare che quegli schiaffi c’entrassero.

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