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CULTURA, POTERE, PENSIERO E WEB- DI ANTONIO ZIMARINO

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Redazione-Parto da un problema che spesso mi intriga ma che credo molti, in forme specifiche e personali vivono: si può pensare di “fare cultura” senza il potersi rendere sempre più rilevanti nella comunicazione? Vale la pena ? Ha senso ? In certe condizioni, proporre riflessione culturale (o fare arte, musica, scrivere, esprimere) può avere una sua intrinseca o estrinseca efficacia alla “costruzione della cultura”? Esercitare il pensiero o la creatività ai margini della Comunicazione resta solo una forma di autoterapia nei confronti delle proprie frustrate ambizioni ? Vale la pena perdere tempo per essa ? Non è più utile una produzione di ortaggi biologici ?

Quando si opera in area culturale ma con limitate condizioni economiche, relazionali e comunicative, ci si trova relegati in circuiti talmente relativi o minoritari (che a volte vengono adeguatamente occultati spesso dagli operatori di quelli maggioritari, a meno che reciprocamente convenienti) da non poter pensare che ciò a cui ci si dedica sinceramente e motivatamente, possa davvero, “fare cultura”.

Oggi un evento culturale si riconosce “in primis”, non per una riflessione sulle sue caratteristiche e sulle sue implicazioni ma sulla sua “percezione” di essere tale. Percepire un evento, una mostra, una manifestazione come “culturale” (che costruisce senso) viene più dalla comunicazione e dalla posizione che tale evento riesce ad avere in essa, a prescindere dalla rilevanza e dalla densità significativa del fatto stesso, (quindi della sua la sensatezza). “Densità” significativa e sensatezza sono cose che si possono valutare in un tempo successivo e fanno parte di quell’approccio critico e riflessivo che permette di collegare i temi della proposta a quelli della storia o del contesto.

La comunicazione predispone i fatti di cui si ritiene necessario parlare: in pratica, secondo la nota teoria sociologica del setting (o anche quella detta del priming), noi parliamo e ci relazioniamo in base a ciò che condividiamo e conosciamo ovvero, a ciò che rendendosi notevole nella comunicazione, diventa conoscenza comune.

Per rendersi notevoli nella comunicazione (e soprattutto in quella di eventi di tipo culturale) c’è bisogno di mettere in atto strategie e di avere condizioni, capacità e numero di relazioni significative, di  avere una certa organizzazione e una consistente capacità economica: maggiore è il grado di queste disponibilità, maggiore è la capacità di essere presenti nella comunicazione e quindi di essere presenti all’interno dei fatti che culturalmente, devono essere valutati.

Nel nostro contesto chi ha già questo potere costruisce la cultura.

Può fare cultura soprattutto chi detiene già la possibilità di diffondere efficacemente il proprio pensare: la possibilità è data ad esempio, dall’aver già prodotto eventi culturali, o da un libro o una rivista adeguatamente diffusi e pubblicizzati, da una cattedra o da frequentazioni di ambienti universitari, da una raggiunta relativa notorietà o dalla disponibilità a relazionarsi con gli strumenti della cultura di massa, televisioni o giornali. Per ”fare cultura” bisogna entrare nelle possibilità di “potere” e di “avere potere”.

Fa cultura (è determinante per essa) chi ha il “potere” di esprimere in modo rilevante il suo pensiero, indipendentemente dalla validità del pensiero stesso. Ma in definitiva fa cultura il potere di accesso alla comunicazione, che è dato dall’abilità o dalla disponibilità, economica o relazionale di entrare nel suo flusso principale: “fa cultura” la capacità di concentrare un certo potere economico e relazionale: “fa cultura” il Potere.

La cultura è quindi più o meno costruita da un “potere” economico e relazionale in quanto il “potere” (con uso nominale) è semplicemente la condizione che realizza una potenzialità e sostanzialmente prescinde da cosa potenzialmente si vuole realizzare. Chi ovviamente ha maggiore potere economico avrà potenzialmente anche maggiore potere relazionale.

Il “potere” può anche non distinguere la qualità di ciò che può mettere in atto o di ciò che nega; ciò spetta ad altra facoltà sicuramente più densa di implicazioni e riferimenti etici, ideologici o morali, ma sicuramente meno determinante del “potere” stesso.

Attualmente la selezione della “cultura” sembra avvenire innanzitutto, a livello strumentale, per via di comunicazione, ma implicitamente, per via di un “potere” che può e sa gestire i costi e i metodi della comunicazione. E il potere è essenzialmente nell’ordine della gestione delle risorse economiche e delle relazioni, sia esse di origine privata che pubblica; in sostanza oggi attraverso le scienze manageriali (marketing, comunicazione dell’impresa culturale) , possiamo “progettare” dei comportamenti che generino un “potere”, proprio costruendo relazioni che impegnino persone, rapporti e risorse, in un sistema di reciproche convenienze. In questo “progettare” per il potere, l’elemento più labile e meno determinante è proprio la cultura stessa: è più importante il “poter fare” o il “saper pensare” ? e quale dei due elementi è il più adattabile?

Evidentemente “costruire il poter fare” è un fatto “tecnico” e in quanto tale, non giudicabile: è giudicabile invece come questo sistema di relazioni si attua, si pone e si dispone anche in relazione alla qualità di ciò che si intende proporre come “evento culturale”. Quanto poi questo valutare serva a chi o a che cosa, è un altro paio di maniche dal momento che non si può facilmente rilevarlo o farlo rilevare e il riuscire a farlo, è inessenziale.

Il web e i social network ci aprono altre strade: il “potere” è quello più democratico della possibilità di accedere al mezzo, di scegliere contenuti sensati e condivisibili, quello di costruire una rete legata a sensi condivisi. Si può postare qualsiasi cosa, ma si è liberi di scegliere cosa leggere e perché. Il web inserisce nel circuito della comunicazione culturale un elemento variabile che può non dipendere dalla ragione economica. Spezza in sostanza la comunicazione univoca e permette che altre cose emergano per ragioni diverse, dal “rumore” incessante della comunicazione continua.

Il pensiero divergente passa dal web e dall’esperienza di una relazione orizzontale: essa potrà forse in altri momenti tradursi nelle forme del “potere” tradizionale oppure restare a liberare connessioni nuove quando lo si incrocerà nella ragnatela delle relazioni tanto umane che telematiche. Una soluzione forse poco soddisfacente rispetto agli orizzonti di gloria che il sistema attuale ci abitua a sognare ma comunque una possibilità ulteriore di non pensare (o fare) inutilmente.

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