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“GLI ANNI ’70 NEL CINEMA ITALIANO I FILM DI GENERE ” DI FEDERICO TABOURET

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Redazione-  Gli anni ’70 sono stati il decennio nel quale il cinema, forse più che in qualsiasi altro periodo, ha saputo cogliere ed interpretare le fibrillazioni che avvenivano nella società dell’epoca, a volte con risultati anche discutibili.

L’America comincia a fare i conti con i suoi fantasmi passati e recenti. La storia dei nativi americani (gli indiani cattivi dei film western) viene ora riscritta, con film quali “Soldato blu” e “Il piccolo grande uomo”, mostrando come gli stessi fossero in realtà le vittime di un’invasione da parte degli europei che conquistarono ferocemente le loro terre. Anche la guerra del Vietnam e le ferite che la stessa aveva portato nella società americana, soprattutto i problemi di reinserimento sociale dei soldati americani tornati a casa da quell’esperienza devastante, produce in quel decennio grandi film come “Taxi driver” e “Il cacciatore”.

Anche il cinema italiano risente del clima che agita la società di quel periodo e ne diventa uno specchio, a volte anche deformante, portando alla proliferazione di una serie di pellicole che verranno definite “film di genere”, disprezzate dai critici che le definiscono “cinema di serie B” e gradite dal pubblico che riempie le sale per vederle.

Il ’68 e la rivoluzione sessuale portano nei cinematografi moltissimi film nei quali le attrici si mostrano ora senza veli e il sesso diventa, seppure in maniera soft, più esplicito. Sulla scia di Pier Paolo Pasolini, che dirige nel 1971 “Decameron”, tratto dall’opera di Giovanni Boccaccio, nella prima metà degli anni ’70 cominciano ad uscire nelle sale cinematografiche delle commedie erotiche, definite decamerotiche, ambientate nel tardo Medioevo, che vedono protagonisti personaggi del popolo, aristocratici e uomini del clero che si impegnano a vivere avventure sessuali con giovani donne, con epiloghi per lo più comici. Titoli come “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda” attirano nelle sale frotte di spettatori.

Ben più nutrito è il numero di film di genere commedia sexy che invadono i cinematografi in quel decennio. Sono pellicole che vedono protagoniste liceali, dottoresse dei distretti militari, infermiere, poliziotte, zie, nipoti. E si impongono in questi film attrici come Edwige Fenech, Barbara Bouchet, Gloria Guida, Nadia Cassini, Anna Maria Rizzoli. Che recitano a fianco di attori quali Lino Banfi, Pippo Franco, Gianfranco D’Angelo. Ma soprattutto Renzo Montagnani (grande attore che recitava in qualsiasi film per poter guadagnare i soldi per curare il figlio malato) e il grandissimo caratterista Mario Carotenuto, un attore di altissimo livello che è sempre riuscito ad impreziosire queste pellicole con la sua magnifica presenza. Si tratta di commedie che narrano le conquiste, o i tentativi di conquista, di giovani donne da parte di uomini adulti (con risultati per lo più devastanti per questi ultimi), oppure di amori scolastici sudati e poi consumati, con alcune scene di nudo trattate in maniera adolescenziale (lei si fa la doccia e viene spiata dal buco della serratura).

Un altro genere che si impone nella seconda metà degli anni ’70, dopo l’uscita di film quali “Salon Kitty” di Tinto Brass, è il film nazisploitation. Sottogenere dei film exploitation, che narravano storie intrise di sesso e violenza e che in quel decennio stavano trovando un proprio affezionato pubblico, e dei cosiddetti women in prison, questo genere di film si svolge il più delle volte all’interno di lager nazisti, nei quali giovani donne ebree vengono seviziate e spesso stuprate da ufficiali nazisti. Si tratta di film senza nessuna ambizione storica e che nulla hanno a che vedere con pellicole quali “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini, che pur essendo scioccante (e che a differenza di questi film tale è rimasto) aveva una visione culturale e sociale di altra e più alta dimensione. Il più famoso di questo genere è “La bestia in calore”, nel quale Salvatore Baccaro (caratterista dall’aspetto fisico particolare, dovuto ad acromegalia, che appare tra l’altro per alcuni brevissimi secondi in “Profondo rosso” di Dario Argento) interpreta un mostro deforme creato da un esperimento “scientifico” di una dottoressa del terzo Reich. Famosa resta un’immagine dell’attore tratta da questa pellicola e usata nella sigla di un noto programma televisivo.

In questi anni di grande libertà sessuale c’è anche chi scrive e dirige film dai contenuti alquanto discutibili, che non solo prima, ma nemmeno oggi, potrebbero vedere la luce nelle sale cinematografiche. Nel 1977 esce “Maladolescenza”, una pellicola che vorrebbe essere una favola nera che racconta il difficile passaggio dall’adolescenza all’età adulta, narrata attraverso il triangolo amoroso tra tre ragazzini, due femmine e un maschio. Per raccontare questa storia il regista mostra nudi integrali e scene di sesso simulato dei tre giovani attori protagonisti del film. I quali all’epoca sono tutti minorenni (le due ragazzine hanno 11 anni al momento delle riprese). In quegli anni il film, seppur vietato ai minori, viene proiettato nei cinematografi. In anni più recenti, in paesi come la Germania e l’Olanda, il film è stato bandito come materiale pedopornografico.

Ma gli anni ’70 sono anche gli anni di piombo e di una diffusa criminalità che invade ormai le maggiori città italiane. Di questo clima risente anche la commedia all’italiana, nata alla fine degli anni ’50, che vede l’uscita di pellicole che diventano di tono più cupo rispetto al passato. Nel 1977 Mario Monicelli dirige un insolito Alberto Sordi in “Un borghese piccolo piccolo”, un film duro tratto da un romanzo di Vincenzo Cerami (che più tardi diventerà collaboratore di Roberto Benigni), che narra la storia di un impiegato statale che si vede uccidere il figlio sotto gli occhi e che troverà poi la propria vendetta personale. Il film, nella prima parte, è ancora commedia all’italiana, ma prenderà poi una direzione ben più drammatica. Dino Risi, invece, parla apertamente di terrorismo e in “Caro papà” del 1979 fa interpretare a Vittorio Gassman un padre che scopre, leggendo il diario del figlio, che questi è diventato un brigatista.

In questo clima di violenza nascono altri due generi cinematografici. Il primo è figlio del fim americano “L’ultima casa a sinistra” del 1972, diretto da Wes Craven (che diventerà uno dei registi di punta dei film horror statunitensi). La pellicola, molto cruda e che si ispira al film del 1960 “La fontana della vergine” del grande regista svedese Ingmar Bergman, racconta la storia di due giovani ragazze rapite, violentate e poi uccise da un terzetto di criminali sadici e violenti. I tre poi, con la macchina in panne, trovano ospitalità dai genitori di una delle due ragazze che, scoperto casualmente l’accaduto, si vendicheranno in maniera atroce. Il genere, poi definito rape e revenge, avrà in Italia un certo numero di pellicole che cloneranno la storia di criminali feroci e violenti che subiranno poi la vendetta delle vittime. Il più famoso di tutti, e quello più direttamente legato nella trama al film di Craven e che ne mantiene a tratti la crudezza, è “L’ultimo treno della notte” del 1975, nel quale uno dei criminali viene interpretato dal bravissimo Flavio Bucci, mentre il padre vendicatore di una delle due vittime è il grande Enrico Maria Salerno.

Il secondo genere che si sviluppa in questi anni è il cannibal movie. Ispirato dai mondo movies, crudi documentari inventati in Italia negli anni ’60 dal giornalista Gualtiero Jacopetti, questo genere è ambientato in foreste o giungle tropicali nelle quali personaggi venuti dal mondo occidentale si trovano a dover fare i conti con i cannibali che popolano quelle zone. In quel periodo, e fino ai primi anni ’80, film come “Ultimo mondo cannibale” di Ruggero Deodato o “Mangiati vivi!” e “Cannibal ferox”, entrambi di Umberto Lenzi, trovano un proprio pubblico, nonostante le scene (criticate anche dai più fedeli) nelle quali violenze ed uccisioni ai danni di animali sono reali (riprendendo i cosiddetti snuff movies, cioè quei video dove vengono registrate in diretta torture ed uccisioni non simulate). Il film più conosciuto e controverso del genere, ed anche il più censurato, esce nel 1980. E’ forse la pellicola che rappresenta il culmine e il declino del genere. “Cannibal holocaust” di Ruggero Deodato mostra alcune tra le scene più crude del cannibal movie. Ispirato, secondo il regista, dalla repulsione del figlio di fronte alle immagini violente dei telegiornali dell’epoca, la pellicola narra la storia di un professore che si reca in Amazzonia alla ricerca di quattro giovani reporter scomparsi. Troverà una pellicola filmata dai quattro ragazzi, e scoprirà le angherie e le violenze che i quattro avevano perpetrato ai danni degli indigeni e la successiva vendetta cannibale. Questo film subirà un processo poiché “opera contraria al buon costume e alla morale”. Al processo di appello il regista dovrà addirittura far comparire i quattro attori che avevano interpretato i reporter (che erano stati fatti “sparire” per creare più interesse nei confronti della pellicola) per mostrare che erano vivi. Per alcuni, comunque, il film rappresenta un documento sul malessere dell’epoca.

Il genere che però è più significativo come rappresentazione del clima di violenza che si respirava in quegli anni è il poliziottesco. Così definito in maniera dispregiativa dai critici, questo genere mostra in maniera molto dura ciò che accadeva nelle città italiane. Rapine a mano armata nelle banche e nelle gioiellerie e rapimenti erano fatti pressoché quotidiani. E così, dopo l’uscita di “La polizia ringrazia” del 1972 di Stefano Vanzina (il regista di commedie Steno, che per l’occasione si firmò con il suo vero nome) e “La polizia incrimina, la legge assolve” del 1973 di Enzo G. Castellari, cominciarono a riempire le sale cinematografiche una serie di pellicole che narravano le storie di commissari di polizia che da una parte si scontravano con feroci criminali e dall’altra con l’ottusità burocratica dei superiori, che pensavano di sconfiggere la violenza con la mera ligia applicazione della legge. Che però faceva sempre vincere i criminali. Il filone si divide addirittura in due, e così abbiamo i poliziotteschi di destra e quelli di sinistra, con differenze davvero risibili. Il genere vero e proprio nasce con il film “Roma violenta” del 1975 del regista Marino Girolami (padre di Enzo G. Castellari e regista di commedie, che firmò quel film con lo pseudonimo Franco Martinelli). In quel film il commissario viene interpretato da quello che diventerà l’icona del genere, Maurizio Merli. Molti attori e registi si sono susseguiti nelle pellicole poliziottesche, ma Maurizio Merli interprete e Umberto Lenzi regista daranno il meglio in questo genere. I due gireranno insieme “Roma a mano armata” e “Napoli violenta”, entrambe del 1976, e poi “Il cinico, l’infame, il violento” del 1977. In quest’ultima pellicola, così come in “Roma a mano armata”, recita anche Tomas Milian, attore poliedrico, che con “Squadra antiscippo” del 1976 darà poi il via al sottogenere del poliziottesco in versione comica, interpretando il ruolo del maresciallo Nico Giraldi (sempre doppiato dall’indimenticato attore romano Ferruccio Amendola). L’adesione alla realtà di quel periodo del genere poliziottesco si nota in maniera lampante nel film “Roma a mano armata”, nel quale il clan di criminali da sconfiggere è quello dei marsigliesi, gruppo veramente esistito e operante a Roma nella prima metà degli anni ’70, che fu poi soppiantato da un’altro gruppo, stavolta composto da criminali romani, la famigerata banda della Magliana.

La fine degli anni ’70 e degli anni della contestazione non può non concludersi con un film anomalo, a metà tra la commedia sexy e i film di genere violento dell’epoca, ma che non è ascrivibile a nessuno dei due. Nel 1978 il regista Fernando Di Leo, già autore di interessanti pellicole di genere noir quali “Milano calibro 9” e “La mala ordina”, tratte dai libri dello scrittore Giorgio Scerbanenco, esce nelle sale cinematografiche con il film “Avere vent’anni”. Il titolo è tratto dalla frase del libro “Aden Arabia” dello scrittore francese Paul Nizan: “Avevo vent’anni…non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Il film narra le vicende di due giovani, interpretate da Gloria Guida e Lilli Carati, che vanno in una comune post-contestazione. Le due hanno rapporti sessuali, soprattutto tra loro, e scoprono che quel mondo che tanto agognavano è una barzelletta, popolato com’è da personaggi che sono solo delle macchiette. Fino a qui il film appare come una commedia erotica con una presa in giro del mondo hippy. Ma ciò che importa è il finale. Uscito nelle sale nella sua versione originale, il film non ebbe successo, venne ritirato e rimontato tagliando le scene saffiche tra le protagoniste e con un finale più rassicurante. Il che toglie il significato vero della pellicola. Molti anni dopo vennero aggiunte nuovamente le scene d’amore tra le due protagoniste e il film vide finalmente lo scioccante finale girato dal regista. Le due ragazze, finite con gli altri abitanti della comune dalla polizia, vengono invitate a tornare a casa loro. Prima di partire si fermano in una locanda, nella quale incontrano dei ceffi che vogliono abusare di loro. Le giovani scappano in un bosco, ma vengono raggiunte dai ceffi che, in un finale molto violento e a tratti raccapricciante, le seviziano, le stuprano e poi le abbandonano ormai morte.

Di Leo mette così la parola fine al ’68, agli anni ’70 e alle illusioni di chi voleva al potere la fantasia.

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