Ultime Notizie

“IO SONO G2!”, IL NETWORK “G2” COME RISPOSTA IDENTITARIA DEI GIOVANI DELLE SECONDE GENERAZIONI

0

La solitudine è sempre la stessa, è condivisa con la famiglia, i problemi si sono riversati sui figli.

I genitori hanno deposto le armi, di fronte ai loro bambini nati in un Paese che li vuole divorare.

Questi bambini sono  rifiutati. Tutti contribuiscono a farlo: il Paese in cui sono nati; i genitori che non li capiscono; il Paese d’origine dei genitori che non ne vuole sapere di loro.  Tahar Ben Jelloun (L’estrema solitudine)

 

Redazione-“Di anno in anno, per effetto dei nuovi nati (e dei ricongiungimenti familiari) aumenta il numero delle seconde generazioni. Vi è un nocciolo duro di adolescenti e giovani, nati in Italia o arrivati prima dell’inizio della scuola dell’obbligo alla fine degli anni Ottanta (o agli inizi degli anni Novanta). Avanguardie dei futuri cittadini italiani, esponenti della generazione “dei giovani cosmopoliti”, ragazzi e ragazze di origine straniera si organizzano sul web, creando ad esempio il network “G2 – generazioni Seconde”,  nato a Roma ma con una rete di associati che tocca le città italiane di Milano, Torino, Napoli, Reggio Emilia, Prato, Bologna, Genova” (Dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes 2006, pag.168)

La presenza dei minori stranieri in Italia è diventata un fenomeno consistente ed evidente, sia che si tratti di figli di coppie immigrate nati nel nostro Paese, sia che si tratti di bambini arrivati a seguito di ricongiungimento familiare. Bambini e adolescenti che non hanno scelto di migrare, che sono stati coinvolti in questa avventura dalle decisioni degli adulti  e che con queste decisioni e con queste scelte devono fare i conti tutti i giorni.

Ciò che è meno evidente e molto spesso sottovalutato, è la fatica quotidiana che questi minori devono affrontare, una fatica che si aggiunge alle sfide e ai compiti di sviluppo comuni a tutti i bambini e gli adolescenti del mondo, che sono propri dell’impegno e della fatica del  crescere, del diventare grandi, cioè persone adulte ed autonome.

Una questione di identità

Un impegno che diviene una vera e propria sfida esistenziale nella fase dell’adolescenza, fase evolutiva della vita delle persone in cui, in un periodo relativamente breve,  avvengono una serie di cambiamenti, connessi alla rapida crescita, allo sviluppo della sessualità, alla modificazione dei rapporti interpersonali e delle aspettative sociali; si determina, pertanto, una “crisi d’identità”, una fase in cui l’identità non è più costante, organizzata, ma discontinua. Questa crisi è legata alla ricerca di un nuovo vissuto di continuità e di unità che deve tener conto  dei limiti e delle esigenze non più solo della famiglia, ma anche della società (De Leo, 1996: 56).

In un momento disorientante per tutti come quello dell’adolescenza, il ragazzo immigrato è teso alla ricerca della sua identità, un sentimento ambiguo, che se lasciato libero di fluttuare all’interno di uno spazio dai contorni indefiniti, in un ambiente ostinatamente e «né carne né pesce», diventa, sul lungo periodo, una condizione sfibrante e ansiogena (Vecchi, 2000: 8, 31).

I ragazzi stranieri condividono con i loro coetanei, attraverso il rifiuto di modelli di comportamento e norme degli adulti significativi, la necessità di ottenere autonomia nelle scelte e un maggior controllo sulla loro vita, ciò li porta a desiderare di allontanarsi dal loro nucleo familiare alla ricerca di nuovi modelli e nuovi punti di riferimento con i quali identificarsi e ai quali uniformarsi. Vivono però, in una famiglia in cui lo scarto naturale tra realtà familiare e mondo esterno è ancora più marcato rispetto ai loro coetanei: l’adolescente immigrato, a differenza dell’adolescente autoctono, si trova a dover affrontare la naturale situazione di conflittualità con i propri genitori in una società nella quale questi ultimi non sono i rappresentanti. Il genitore mantiene un attaccamento profondo al luogo d’origine, la terra in cui è nato e cresciuto fino al momento dell’allontanamento,  il luogo delle sue radici culturali, sociali e affettive. Al contrario i figli, sia nati in Italia che altrove ma cresciuti qui, non hanno radici in unico posto; percepiscono che una parte di loro è legata alla cornice culturale della propria famiglia e un’altra alla cornice culturale del Paese in cui vivono. In questo quadro di duplice appartenenza, risultano amplificati alcuni bisogni tipici adolescenziali: il bisogno di trovare  un senso, ossia di costruire una cornice di riferimento in cui collocare i propri pensieri e le proprie azioni, il  bisogno di essere riconosciuti in quanto individui dotati di una propria singolarità, il  bisogno di riconciliarsi  con il passato per proiettarsi nel futuro, il bisogno  di trovare il proprio posto nel contesto sociale (Favaro, Napoli, 2002: 90-91).

Il problema dell’identità nella crescita di questi ragazzi, segnata dalla necessità di costruirla tra due culture, nella continua ricerca dell’equilibrio, è una questione nodale, “mi sento come un bambino che si è fatto male e dice di voler andare a casa, ma io non so più dov’è la mia casa”[1].  Queste sono le parole di un ragazzo arrivato in Italia ancora bambino, parole incarnate nelle realtà di una persona che chiede: ma dov’è la mia casa?  Dov’è la sua casa se non conosce o non si riconosce nella sua terra d’origine e quella di accoglienza gli dice sempre “tu sei straniero!”?  Aiutare i ragazzi a trovare una “casa”, la loro “casa”, non è una questione marginale e diventa bisogno incarnato quando questa ricerca esce dalle questioni sociologiche e diventa vita reale di bambini e ragazzi.

È dovere degli adulti, cioè dei loro genitori, degli insegnati, degli operatori sociali, aiutarli a rivendicare un’identità complessa senza sentirsi emarginati. Lo scrittore  Maalouf ha espresso in modo significativo questo concetto, nel suo libro “L’Identità”:  “un giovane nato in Francia da genitori algerini porta in sé due appartenenze evidenti, e dovrebbe essere in grado di assumerle entrambe.(…) Che si tratti della lingua, delle credenze, del modo di vita, delle relazioni familiari, dei gusti artistici o culinari, le influenze francesi, europee, occidentali si mescolano in lui a influenze arabe, berbere, africane, musulmane… Un’esperienza arricchente e feconda se il giovane si sente libero di viverla pienamente, se si sente incoraggiato ad assumere tutta la propria diversità; al contrario, il suo  percorso può risultare traumatizzante se, ogni volta che si dichiara francese, certuni lo considerano come un traditore, addirittura come un rinnegato, e se ogni volta che afferma i suoi legami con l’Algeria, la sua storia, la sua cultura, la sua religione, si trova esposto all’incomprensione, alla diffidenza o all’ostilità” (Maalouf, 2005: 12-13).

Gli adulti invece di guardare negli occhi i bambini e i ragazzi, per comprenderli  e per attenderli, chiedono loro di adattarsi in fretta e di trovare il proprio posto all’interno di riferimenti, regole esplicite o implicite, routine  quotidiane; da parte loro, la maggioranza dei bambini migranti cerca di attivare tutte le risorse possibili per rispondere a queste pressioni, per appartenere al luogo e al gruppo nei quali devono vivere. Molte emozioni senza voce restano sullo sfondo di questo viaggio, reale e simbolico, che attraversa i confini, scompone gli affetti e le culture dell’infanzia; i vissuti di perdita e le nostalgie non vengono quasi mai a galla, non trovano il modo di esprimersi perché sono relegate nel silenzio e nella solitudine. Una solitudine che deriva anche dal vivere in famiglie dove la fatica e le difficoltà sono spesso le realtà più pressanti; fatica fisica, quotidiana, spossante per gli adulti,  mamme e papà che devono fare i conti con condizioni di vita precarie, con la provvisorietà del quotidiano e la solitudine affettiva. Genitori che si trovano nella condizione di non poter aiutare i loro figli nelle sfide che devono attraversare, dato che non conoscono la lingua, le regole implicite, le aspettative e i  messaggi degli spazi educativi, della scuola e dei luoghi di socializzazione; questi genitori spesso hanno difficoltà ad assumere il ruolo di esempio e di mediatore tra lo spazio interno, quello familiare,  e lo spazio esterno. Non riescono quindi a elaborare un sistema adeguato di protezione dei figli e a presentare loro il nuovo mondo che li accoglie con gradualità; l’esperienza della migrazione può allora tradursi, nel vissuto di una parte dei bambini e dei ragazzi, in una condizione di vulnerabilità psicologica (Favaro, Napoli, 2002: 17-18).

In famiglie caratterizzate da queste realtà, capita che i figli non facciano più solo i figli ma che rappresentino per i genitori la chiave per comprendere il mondo esterno, perché molto spesso conoscono meglio di loro la lingua del Paese di accoglienza e le regole del mondo che li circonda. Ecco allora che questi adulti diventano genitori fragili, in difficoltà a gestire il loro mondo all’interno dei rapporti familiari e il mondo esterno, che a stento comprendono, genitori che non ce la fanno a proteggere i figli ma anzi i figli stessi sentono la responsabilità di dovere proteggere. In questa solitudine l’identità è tesa a trovare un equilibrio fra le origini e il futuro, fra la storia familiare e i progetti individuali, la fatica di crescere altrove può tradursi per alcuni di loro in una situazione di vulnerabilità, in una fragilità che deriva dalla pressione a rispondere in maniera efficace alle sfide dell’adattamento e a quelle che condividono con tutti del diventare grandi (Ivi: 12-13).

 Alcuni bambini non ce la fanno a gestire tutta questa complessità e allora cercano di entrare a far parte di questo “noi” straniero, esterno, cercando di diventare come “gli altri”, parlando solo italiano, rifiutando anche a casa di parlare la lingua d’origine, italianizzando il loro nome e utilizzano ogni strategia per “camuffarsi”, per non sembrare “stranieri”.

È necessario interrogarsi seriamente su quali strumenti mettere in campo per sostenere il percorso migratorio di questi bambini e ragazzi. Perché sono loro, loro che siedono nei banchi delle nostre scuole, vivono nei nostri quartieri, giocano con i nostri figli, che anticipano ciò che saremo in futuro: una società mescolata nelle origini etniche e nelle provenienze. I giovanissimi immigrati e gli adolescenti che vengono da altri Paesi e che stringono rapporti con i loro coetanei italiani, sono gli antesignani dei futuri cittadini: sospesi a metà tra due mondi, radicati di qua e di là, abituati a parlare cinese, peruviano, romeno in famiglia e italiano a scuola, legati ai simboli della terra dei genitori, ancora più amanti delle nostre abitudini e dei nostri simboli, anticipano la sfida con cui dovremo misurarci, quella di navigare in mare aperto ma avere porti cui attraccare la barca (cfr. Turco, 2005).

Arriva un momento nella vita di un giovane immigrato, in cui si sente chiamato a fare una scelta, allora può scegliere di rinchiudersi nell’identità che sente più attaccata, quella d’origine, oppure può tentare di dissimularla, per cercare di essere uguale a quelli che rappresentano la maggioranza. Se è stato schernito magari per anni,  a causa del suo colore o del suo accento, o dei suoi vestiti fuori moda, non potrà dimenticare e esprimerà la tendenza a riconoscersi nell’appartenenza più attaccata, oppure, quando non ha la forza di difenderla, la dissimulerà, ma essa resta in fondo all’io, nascosta nell’ombra, in attesa della sua rivincita (Cfr, Maalouf, 2005).

G2: una strategia identitara alternativa

Ci sono dei ragazzi che hanno trovato una terza strada che gli permette di non dover decidere se essere italiano o immigrato, che gli permette di essere altro, di rifiutare l’incastro di dover rinunciare ad una parte di sé, che dà la possibilità di essere tutto, di essere G2.

Questi ragazzi, immigrati e figli di immigrati, con la creatività e l’energia  che contraddistingue i giovani, hanno creato un network che hanno chiamato G2;  la Rete G2 – Seconde Generazioni – è un’organizzazione nazionale apartitica fondata da figli di immigrati e rifugiati nati e/o cresciuti in Italia. Chi fa parte della Rete G2 si autodefinisce come “figlio di immigrato” e non come “immigrato”: i nati in Italia non hanno compiuto alcuna migrazione, e chi è nato all’estero ma cresciuto in Italia non è emigrato volontariamente, ma è stato portato in Italia da genitori o altri parenti. “G2”, quindi, non sta “per seconde generazioni di immigrati” ma per “seconde generazioni dell’immigrazione”, intendendo l’immigrazione come un processo che trasforma l’Italia, di generazione in generazione.

La Rete G2 è un network di “cittadini del mondo”, originari di Asia, Africa, Europa e America Latina, che lavorano insieme su due punti fondamentali: i diritti negati alle seconde generazioni senza cittadinanza italiana e l’identità come incontro di più culture; punto fondamentale è la richiesta di riforma della legge per la concessione della cittadinanza italiana, perché sia più aperta nei confronti delle seconde generazioni e nella trasformazione culturale della società italiana, perché sia più consapevole e si riconosca in tutti i suoi figli, indipendentemente dalle loro origini.

La rete G2 nasce a Roma nel 2005 e oggi ne fanno parte anche seconde generazioni di altre città italiane (Milano, Prato, Genova, Mantova, Arezzo, Padova, Imola, Bologna, Bergamo e Ferrara) che partecipano ai Workshop nazionali organizzati ogni anno dalla Rete. Complessivamente la Rete nazionale oggi riunisce ragazzi/e dai 18 ai 35 anni, originari di diversi Paesi: Filippine, Etiopia, Eritrea, Perù, Cina, Cile, Marocco, Libia, Argentina, Bangladesh, Capoverde, Iran, Srilanka, Senegal, Albania, Egitto, Brasile, India, Somalia, Ecuador e altri. G2 si incontra anche virtualmente sul Blog G2.

Nel 2007 la Rete G2 è entrata a far parte della Consulta nazionale del Ministero della Solidarietà

sociale “per i problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie” e della Consulta dell’ “Osservatorio per l’integrazione degli alunni stranieri e l’educazione interculturale” presso il Ministero della Pubblica istruzione; ha collaborato, inoltre,  con il centro interculturale della Provincia di Mantova e con l’assessorato alle Politiche educative e scolastiche del Comune di Roma.

Nello stesso anno G2 ha ideato e realizzato un originale strumento di comunicazione: il Fotoromanzo G2, per promuovere una modifica della legge sulla cittadinanza italiana (legge n. 91 del 1992) che sia più aperta nei confronti dei figli di immigrati nati e/o scolarizzati in Italia. Nel novembre 2007 alcuni rappresentanti della Rete G2 hanno consegnato nelle mani dell’allora  Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano una copia del Fotoromanzo e una lettera. Il Presidente ha accolto con favore le parole e l’appello della Rete G2 dichiarando che “la legge è troppo restrittiva, bisogna aprire canali nuovi di accesso alla cittadinanza italiana per tanti ragazzi e tanti giovani, figli di immigrati”.

Nella lettera hanno chiesto che venisse loro riconosciuto  “il diritto ad essere riconosciuti cittadini del nostro Paese e non più solo degli “italiani col permesso di soggiorno”, come molti di noi purtroppo sono”. La loro richiesta più forte è stata quella di un riconoscimento di appartenenza all’Italia, scrivono, infatti,  “Molti di noi, di origine straniera, sarebbero italiani se la legge per l’acquisizione della cittadinanza italiana li riconoscesse, e non lo sarebbero per concessione, Signor Presidente, ma per diritto, perché cresciuti in Italia sin da bambini. Perché noi siamo qui da sempre Presidente, e non può essere la sola regola del sangue (…) a definirci. Ci chiediamo continuamente: chi meglio del suolo, del vissuto, può essere criterio per fare di un uomo o di una donna un cittadino? Eppure certe domande non trovano ancora risposta. Siamo cresciuti qui, molti di noi anche nati in Italia, eppure veniamo percepiti come stranieri e incontriamo molti ostacoli perché ci vengano riconosciuti gli stessi diritti dei nostri coetanei, amici e fratelli di origine italiana, compagni di una vita”[2].

L’accesso alla cittadinanza è l’unica via che consente ai figli di immigrati di essere considerati realmente dei pari, degli eguali, nei diritti e nei doveri, rispetto ai loro coetanei  figli di italiani.

I figli dell’immigrazione significano ogni giorno una competizione di inedite identità culturali: fluide, composite, negoziate, in un incessante bricolage di antico e recente, di tradizionale e moderno, elementi trasmessi dall’educazione familiare e acquisiti nella vita sociale. Se i genitori sono venuti da noi con il traguardo di essere accettati e di costruire una sicurezza economica anche al prezzo di restare ai margini della società, occupando solo le nicchie del mercato del lavoro nascosti e silenziosi, così non è più per i figli, che sono cresciuti qui e si sentono nostri connazionali. E vogliono essere riconosciuti come tali (Turco, 2005: 129).

È necessario, pertanto, trovare nuovi strumenti per sostenere l’integrazione di questi bambini  e di questi giovani che saranno gli adulti di domani, per costruire integrazione per una futura convivenza di pace.

Loro, i ragazzi G2, ci stanno provando.

[1] Concetto espresso da un ragazzo romeno nell’ambito di un colloquio di servizio sociale effettuato dall’autrice

[2] Cfr:www.secondegenerazioni.it, , www.secondegenerazioni.it/forum

Commenti

commenti