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IL BEL PAESE: EMPOWERMENT DELLE VITTIME E DELLA COLLETTIVITÀ-PROF.RE ANTONIO LERA

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Redazione-Quando incontriamo un essere umano siamo soliti, dopo averlo salutato, chiedergli come sta. Sono giornate come queste che ci fanno comprendere il perché di questa domanda, convinti di aver stabilito per sempre un equilibrio, assistiamo a lezioni di vita, che in pochi secondi, pochi metri, insomma un nulla fanno si che tutto cambi, che tutto finisca di colpo. Mentre apprendiamo che si svolgeranno sabato 18 alle 11 i funerali delle vittime causate dal crollo del viadotto autostradale Morandi a Genova e che saranno funerali di Stato alla Fiera di Genova nel padiglione Jean Nouvel, trema ancora una volta la terra in Molise, in provincia di Campobasso. Scossi come siamo dal crollo del Ponte perdiamo ancora in stabilità, dalla Campania alla Puglia, dall’Abruzzo alla Croazia. Epoca strana la nostra in cui si succedono Catastrofi e Disastri, situazioni in cui, oltre alle vittime, vengono intaccate reti, infrastrutture, comunicazioni e tutto il sistema sociale viene coinvolto e sconvolto tanto da divenire normale che una catastrofe come quella di Genova faccia venire fuori i pensieri peggiori, ciò significa che oltre il rispetto per le vittime ed i loro cari, testimonianza che la collettività tiene a cuore ogni vita, divampa come un incendio feroce, la sete di giustizia, la rabbia interiore, la convinzione che il nostro “Bel Paese” sia mal amministrato, a prescindere da chi sta al governo e la parola chiave è malcontento! Eppure, altra faccia della medaglia, dei veri eroi, medici, infermieri, soccorritori civili, vigili del fuoco, consapevoli di rischiare la vita ogni istante sono li al lavoro per poter salvare altre persone! Il dispiacere di quello che succede, si lega ad una rabbia generica che non troverà mai sollievo, perché si considera un’ingiustizia l’errore umano, concentrando l’attenzione sul desiderio di vendetta: “qualcuno dovrà pagare per questo”. Si resta poi della convinzione che neppure le persone evacuate saranno assistite dallo stato, si pensa che verranno ancora una volta abbandonate a loro stesse. I commenti di solito finiscono sempre con un punto di domanda sul governo del momento: “vedremo se questo governo è veramente diverso e farà qualcosa (filogovernisti) o invece “voglio vedere di cosa saranno capaci questi signori (antigovernisti). Per ricondurre il discorso in chiave scientifica, proverò a dare una dimensione psicosociologica di quei disastri (in cui si annida l’ombra della responsabilità e dell’errore umano), attraverso i concetti di emergenza e rischio. Ma prima voglio dire che l’uomo d’un tempo era un alchimista che placava il vento delle sue idee, s’abbeverava placidamente alle acque delle sue emozioni, seminava il fuoco del suo cuore nella terra della sua umanità corporea. Un uomo centrato su se stesso che onorava ogni giorno il suo Spirito. L’uomo di oggi ha rinunciato a tutto questo e vive dunque la condizione d’emergenza non più come evenienza rara o straordinaria, ma ordinaria, tessuto stesso delle sue ore e dei suoi giorni. Occorre dunque fornire a questi cambiamenti risposte rapide ed eccezionali con sempre maggiore pressione e qui occorrerebbe un grande pudore ed impegno da parte dei mass media, nel ricordare alla collettività che la sofferenza non è una malattia, che il lutto è parte del vivere nell’intento comune di riattivare l’iniziativa della comunità colpita, valorizzando le risorse di persone d’ogni età. Nell’epoca della massima diffusione di beni materiali e risorse medicali, dunque l’emergenza non è lo stato eccezionale della circostanza, ma la normalità dell’accadere, con continue chiamate all’erta contro il disastro del momento (vissuto come un attentato alla propria immortalità ed inviolabilità). Ormai abbiamo capito che non esistono zone franche su questo Pianeta, i rischi incombono da ogni lato e la possibilità di restare intrappolati in certe situazioni è alta per ogni Nazione. La percezione dell’emergenza è una costruzione individuale e sociale, anche se a volte trascende tali sfere afferendo all’antropologia dei disastri, oppure all’inferenza della politica nelle scelte come dimensione pervasiva dell’esistere contemporaneo. Una tragedia ci ha appena consegnato un’altra dolorosa esperienza di vita e un altro disastro carico di paura già inizia ad impattare sul nostro io collettivo, memore di altre dolorose esperienze. La sensazione di continuare ad imparare ad evitare gli ostacoli del vivere quotidiano, alleva, oltre il disagio e la sofferenza, la personale voracità del vivere, il senso dell’entusiasmo, la quiete di risalite lente ed inalienabili, lo slancio brillante in vortici di adrenalina. Tuttavia, in questa frattura del diaframma esistenziale tra conoscenza astratta e realtà concreta ed emotiva, che evidenzia la fragilità della nostra vita, occorre gestire adeguatamente gli aspetti chiave, e per questo nulla di più gratificante che prendere un foglio bianco, come faccio stasera e tracciare le nostre linee di demarcazione in questo particolare momento per contrastare il dramma e stabilire un principio di empowerment delle vittime e della collettività. Dobbiamo poter pensare come innanzi ad una moviola dell’accaduto che tutto venga riportato indietro nelle sequenze precedenti al crollo per poterci immaginare di nuovo sopra qualsiasi ponte d’Italia e d’Europa a continuare ciascuno il proprio percorso esistenziale, superando l’improcrastinabile tragedia collettiva rappresentante una vera e propria minaccia alla propria integrità fisica, evitando cosi gravi contraccolpi a livello psicologico. Il dato di fatto è che comunque il contesto di vita e la comunità circostante rimarranno immutati nel tempo, trasformando il ricordo dell’evento in una percezione di superamento del trauma. La psicologia dell’emergenza ci ricorda che siamo parte della soluzione e non del problema senza negare la specificità e la necessità del presidio del pensare, della riflessività in una dimensione dove il fare è una premessa prepotente degli operatori di soccorso per evitare di ridurre l’emergenza (nella sua accezione pervasiva) ad un sintomo di una società impaurita ed impotente (quando invece è un fenomeno ben più complesso e multifattoriale). Gli psicologi con il ruolo importante di esperti, possono esprimere un bellissimo piano integratore d’emozioni ed azioni (Ethos, Pathos, Logos) che organizzi ed esegua un controllo ed un corretto monitoraggio nel tempo sulla comunità colpita dal disastro. Anche se si deve puntare pure sulla partecipazione politica collettiva e smetterla di far parte delle statistiche recriminative autodefinentesi di fatto comunità esclusa e discriminata negli spazi di potere politico e decisionale pubblico. Dobbiamo assumerci responsabilità, definire azioni, divenire unità civile e camminare insieme per gli stessi scopi volti al benessere collettivo. Questo ridurrà le conseguenze psicosociali di visioni vittimistiche e teatrali autoalimentantesi, in un processo in tutto diviene “emergenza” ed impone azioni, pensieri e sentimenti congruenti, che non fanno altro che ampliare la percezione d’insicurezza. Pertanto la dimensione psicologica d’un contesto emergenziale non prescinde da interattività, controllo dalla presenza di minacce latenti, attivazione rapida di decisioni, riproporzionamento tra bisogno (cresciuto per intensità, ampiezza, numerosità, ritmo) e potenziale di risposta attivabile da risorse immediatamente disponibili accompagnato da un clima emotivo congruente. La sofferenza psicologica per un evento catastrofico come quello di Genova è variabile ad personam, in quanto alcuni individui esposti ad eventi come questo mostrano una distorsione fenotipica per cui, piuttosto che palesare sintomi basati su ansia o fobia, possono evidenziare sintomi anedonici e disforici, sintomi di rabbia e aggressività esternalizzate, o addirittura sintomi dissociativi. Questi possono costituire per il singolo individuo, per la sua famiglia e per gli operatori che intervengono, un’esperienza di difficile gestione. L’impatto d’un evento del genere deriva dall’interpretazione che viene data allo stesso, ai pensieri ed alle emozioni evocati, che a loro volta appaiono collegati allo sviluppo ed al vissuto dell’individuo, nonché alla sua rete relazionale. In quest’ottica, tali avvenimenti possono rappresentare esperienze traumatizzanti anche per chi non li vive direttamente, mettendo in crisi e indebolendo assunti di base e credenze ed inducendo un senso di vulnerabilità, di paura e d’impotenza. L’atmosfera di catastrofe personale e collettiva produce dunque ripercussioni di disorientamento ed incertezza e può arrivare a favorire l’insorgenza di disturbi psicopatologici. Numerose ricerche mettono, in evidenza come sopravvissuti a gravi disastri stradali (e qui siamo di fronte al crollo di un ponte) e familiari di persone decedute o disperse (per la difficoltà di dare un senso all’accaduto di perdita non naturale con possibili complicazioni del lutto in cui i dettagli dell’episodio si fissano nella memoria imprimendo emozioni di terrore e disperazione), siano a rischio di sviluppare patologie psichiatriche (DSPT, depressione, disturbi d’ansia e fobia per la guida e “psicosi” per il transito sui viadotti). La psicologia dell’emergenza deve preparare le persone a fronteggiare l’evento in modo anticipatorio, attraverso strumenti di gestione dello stress riguardo le possibili reazioni psicologiche al trauma ed all’emergenza. l’obiettivo è quello di semplificare al momento l’intervento dei soccorritori contenendo o evitando reazioni di panico ed infine prevenire ulteriori danni psicologici, tentando di ripristinare in modo veloce e naturale il livello di funzionamento precedente al disastro, coadiuvando i rapporti con istituzioni ed associazioni in un continuum armonico.

ANTONIO LERA (PROFESSORE A CONTRATTO UNIVAQ)

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