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AUMENTARE LA MOTIVAZIONE NEGLI ALLIEVI AMOTIVATI: IL RUOLO DELL’INSEGNANTE

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Aumentare la motivazione negli allievi amotivati Il ruolo dell’insegnante

A cura del Dott. Mario Leoncini

Presentazione Prof.ssa G. Fontecchio

Indice

PREFAZIONE

Introduzione
I. La teoria dell’auto-determinazione
La teoria dell’auto-determinazione di Deci e Ryan
La motivazione intrinseca
La motivazione estrinseca
II. Il problema dell’amotivazione
Amotivazione ed educazione fisica
Insegnamento e motivazione
III. Lo Sport Education Model
Le caratteristiche dello Sport Education Model
Alcuni riscontri empirici
IV. Insegnare educazione fisica, motivare gli amotivati
Le domande di ricerca
La metodologia
La misurazione della variabile indipendente: lo stile di insegnamento
La misurazione delle variabili indipendenti: soddisfacimento dei bisogni psicologici e motivazione auto-determinata
I risultati
Conclusioni
Bibliografia
Ringraziamenti

PREFAZIONE

E’ d’obbligo, nel merito, dedicare alcune righe, poche ma essenziali, alla definizione di Prevenzione, ma quale intesa nel presente articolo; infatti, è argomento che rientra in insegnamenti universitari di Igiene e Medicina Preventiva, ma non solo, in quanto permette altresì di acquisire nuove conoscenze ed orientamenti specifici rispetto al pubblico cui essi sono rivolti, qualora al termine “Prevenzione” si associ la preparazione di addetti professionisti i quali risultino essere abilitati ad affrontare svariate problematiche, con esplicito riferimento a coloro che conseguono la laurea specialistica in Scienze Motorie Preventive e Adattative (o Adattate), ossia specialisti collaborativi con figure mediche, paramediche e, dunque, sempre più essenziali quanto a presenza/competenze da mettere nel concreto in atto qualora si configuri un problema che coinvolga negativamente la salute umana. L’attività ginnica al servizio della salute. Questo è l’obiettivo primario di tali professionisti la cui conoscenza nel campo deve essere alquanto ampia e garantita da insegnamenti universitari, a partire dall’aspetto psicologico di ciascuna persona presa in carico e di qualsivoglia età, per terminare a quello prettamente medico nel senso di comprendere la motivazione del trattamento farmacologico stabilito dal medico curante o specialista, con il fine di far conseguire ai pazienti uno stato di benessere psico-fisico, soprattutto nel caso in cui si tratti di anziani o giovani portatori di un handicap.

In termini generali, la prevenzione, con riferimento particolare a quella primaria, va attuata prima ancora che le persone, appartenenti ad ogni fascia di età, di qualsivoglia estrazione sociale, sane o con traumi o patologie in atto (congenite, acquisite o non), vadano incontro a peggioramento delle condizioni di salute, dunque di vita. A quest’ultimo aspetto devono rispondere, come detto, numerose figure: mediche, biomediche, paramediche e collaborative, sì da mettere a disposizione la propria esperienza professionale e garantire il miglior stile di vita. Certamente, alla competenza medica va data la priorità: lo specialista od il medico di base, tramite prescrizione di indagini diagnostiche, sintomi riferiti, nonché segni evidenziati, formula la diagnosi di malattia e stabilisce la terapia; tuttavia, la stessa terapia non deve esaurirsi in quella prettamente farmacologica, bensì deve comprendere anche aspetti motivazionali, basati su una corretta alimentazione e programmi individualizzati di attività fisica (in parole semplici, strategie in grado di “far sorridere” la persona ed accrescere la propria autostima). E’ la ragione per cui stanno emergendo figure Competenti provviste di Laurea Magistrale in Scienze Motorie Preventive e Adattative, come anticipato. Tali esperti vengono formati al fine di comprendere il significato vero e proprio di Prevenzione (sia essa primaria, secondaria, terziaria, quaternaria) sulla base di conoscenze genetiche, biochimiche, neurologiche, cardiologiche, in generale farmacologiche, e quant’altro.

Specificato quanto, la prevenzione, soprattutto quella primaria, ha come obiettivo quello di prolungare, quanto più possibile, il tempo tra stato di salute ottimale e insorgenza di malattie, comprese quelle di natura infettiva; in via di esempio ci riferiamo a quelle patologie contraibili negli ambienti indoor dediti ad attività sportive (legionella, tigna, epatiti, ecc.). In quest’ultimo caso vanno educati i responsabili del centro sportivo/ricreativo cui i pazienti afferiscono. In aggiunta, ogni individuo ha la sua personalità, la quale va rispettata, sempre, particolarmente se in età avanzata, spesso soggetti alquanto restii a svolgere attività fisiche, scogli che vanno superati con abilità di cui dovranno “approvvigionarsi” gli specialisti aspiranti, ripetiamo ancora, alle Scienze Motorie Preventive e Adattate.

Introduzione

Con il presente lavoro si cercherà di dimostrare il ruolo che svolge l’insegnante di educazione fisica nel motivare i giovani che presentano altissimi gradi di demotivazione. Per fare ciò si è deciso di partire da un articolo di Dana J. Perlman della School of Social Sciences dell’Università di Wallongong (Australia) il cui titolo è «Help motivate the amotivated by being a supportive teacher». L’articolo è stato pubblicato nel 2015 sulla prestigiosa rivista scientifica Physical Education and Sport Pedagogy, sebbene la sua stesura finale risalga alla fine del 2013.

L’analisi intende gettare una luce su un particolare fenomeno, contemplato all’interno della Teoria dell’Auto-Determinazione (Self-Determination Theory; Deci e Ryan, 1985), ma che sul piano della ricerca empirica ha ricevuto scarsa attenzione: l’amotivazione.

Si tratta della più radicale e preoccupante forma di motivazione all’interno dei processi educativi e di apprendimento. Solo negli ultimi anni questa ha ricevuto attenzione e probabilmente Dana Perlman è la studiosa che maggiormente se ne è occupata in relazione all’educazione fisica.

Nel primo paragrafo, quindi, si procederà a tracciare le linee fondamentali della cornice teorica di riferimento in cui si inserisce il concetto di amotivazione: si tratta della già citata Teoria dell’Auto-Determinazione. Nel secondo paragrafo si metterà in relazione l’amotivazione con l’educazione fisica e si cercherà di capire quali siano i meccanismi che legano l’insegnamento dell’educazione fisica al più generale concetto di motivazione.

Nel terzo si darà conto dello Sport Education Model, un paradigma educativo che, partendo dalla Teoria dell’Auto-Determinazione, intende aumentare la motivazione degli studenti e dare pieno soddisfacimento ai bisogni psicologici fondamentali degli individui.

Infine, si commenterà la ricerca condotta da Dana Perlman su 48 studenti amotivati di una scuola superiore statunitense per capire se e come il ricorso ad uno stile educativo incentrato su strategie che incoraggiano l’autonomia degli alunni e che rispondono allo Sport Education Model possa aumentare la motivazione degli studenti e soddisfare le domande profonde di autonomia, competenza e relazionalità dei ragazzi.

I

La teoria dell’Auto-Determinazione

Uno dei principali obiettivi che si pone l’educazione fisica è quello di educare l’alunno a conoscere e a valorizzare il proprio corpo in una prospettiva che non si esaurisca solo in ambito scolastico, ma che lo prepari a tutta un’esistenza inevitabilmente connessa all’attività fisica.

In apertura del suo articolo intitolato Help motivate the amotivated by being a supportive teacher, Dana J. Perlman rileva come numerose ricerche siano state concentrate sullo studio di tutti quegli aspetti capaci di stimolare la motivazione dello studente rispetto all’educazione fisica, ma nota anche la poca attenzione mostrata nei confronti di quegli alunni che presentano livelli estremamente bassi di motivazione, a cui la ricercatrice fa riferimento con il termine «amotivated», cioè «amotivato». Prima di entrare nel cuore di questo problema è opportuno inquadrare la tematica dell’amotivazione all’interno di un quadro teorico più ampio.

La teoria dell’Auto-Determinazione di Deci e Ryan

Il concetto di amotivazione risale al 1985, agli studi di Edward L. Deci e Richard M. Ryan (1985), inserito all’interno della Teoria dell’Auto-Determinazione (Self-determination theory, SDT) (Ryan e Deci, 2000; Perlman, 2010). Secondo i due celebri autori, l’essere umano è un organismo attivo che tende a sviluppare le proprie capacità e la propria personalità all’interno di un ambiente che può facilitare o anche ostacolare questo processo. Gli esseri umani, dal canto loro, tendono alla crescita, cioè ad ampliare il proprio vissuto attraverso nuove esplorazioni dell’ambiente, e alla coerenza, ossia, cercano di far sì che le varie esperienze siano tra loro integrate o amalgamate in maniera tale da costruire un sé unificato, una personalità coerente.

Tutto ciò risponde a tre bisogni innati fondamentali.

  1. il bisogno di autonomia, cioè, la necessità di ciascuna persona umana di sentirsi capace di formulare e di mettere in atto delle scelte e di mettersi in moto rispetto ad attività a cui si aderisce attraverso una valutazione dettata dalla propria volontà, senza subire alcuna pressione esterna;
  2. il bisogno di competenza (o capacità), vale a dire, il bisogno di sentirsi efficaci quando si dà libera espressione alle proprie capacità all’interno di un certo spazio ambientale;
  3. il bisogno di relazione, di sentirsi inseriti ed accolti in un ambiente fatto di rapporti interpersonali.

La persona è davvero autodeterminata se ha la percezione di vivere all’interno di un ambiente che gli permette di dare piena soddisfazione ai tre bisogni di cui si è appena parlato. In questo modo, cresce la propria motivazione e si struttura sempre meglio un sé unitario.

Quindi, per Ryan e Deci (2000) essere motivati significa essere spinti a fare qualcosa.

In base alla Teoria dell’Auto-Determinazione, la motivazione all’interno di un certo contesto sociale può essere classificata in tre diverse maniere: intrinseca, estrinseca e amotivata. Infatti, dopo aver rilevato l’esistenza di vari gradi di intensità o livelli di motivazione e di diversi tipi o orientamenti di questa, i due autori hanno tracciato una prima e fondamentale distinzione, che riguarda le motivazioni intrinseche ed estrinseche.

La motivazione intrinseca

Si parla di motivazione intrinseca quando l’attività è portata avanti in quanto costituisce per l’individuo una fonte di piacere, di divertimento. Quindi, la persona trae soddisfazione proprio nel compiere una determinata azione.

La natura intrinseca della motivazione si può osservare (e misurare) a partire dal paradigma della scelta libera (free choice). Tuttavia, Ryan e Deci hanno deciso di dare ampio spazio anche ai fattori ambientali e sociali. Questi, infatti, possono impedire o favorire, diminuire o incrementare l’espressione della motivazione intrinseca. Per quanto organicistica sia la motivazione intrinseca, gli autori affermano che questa subisce una sorta di catalisi o accelerazione qualora l’individuo incontri delle condizioni che possano condurlo verso una sua manifestazione.

Da qui deriva la prima sub-teoria della Teoria dell’Auto-Determinazione, ossia la Teoria della Valutazione Cognitiva (Cognitive Evaluation Theory, CET), grazie alla quale è possibile specificare i fattori sociali contestuali che generano la variabilità della motivazione intrinseca. In particolare, sarebbero gli eventi e le strutture interpersonali (ricompense, comunicazioni, feedback) a restituire quelle che Ryan e Deci definiscono sensazioni di competenza (feelings of competence) durante lo svolgimento di un compito. In questo modo il fondamentale bisogno psicologico di competenza trova soddisfazione.

Per far sì che le sensazioni di competenza siano efficaci, a queste va associato un senso di autonomia, anche detto locus di causalità percepito interiore (internal perceived locus of causality, IPLOC; de-Charms, 1968). Non conta solo l’auto-efficacia dell’azione, cioè la percezione di competenza. Le persone devono anche avere la sensazione che il loro comportamento sia autonomo, auto-determinato. Tutto questo è dimostrato da numerosissimi studi (Deci, 1971; Deci & Cascio, 1972; Harackiewicz, 1979; Ryan, 1982; Vallerand & Reid, 1984).

Inoltre, è ampiamente dimostrato che ogni tipo di ricompensa esterna può indebolire la motivazione intrinseca, perché trasferisce dall’interno all’esterno il locus di causalità percepito (Deci, 1971; Lepper, Greene e Nisbett, 1973). A questo si aggiunga che anche le minacce, le scadenze, lo stress da competizione e uno stile di insegnamento direttivo improntato ad un eccessivo controllo riducono la motivazione intrinseca, mentre questa cresce qualora si dia maggior respiro alla libertà di scelta e ad uno stile di insegnamento a supporto dell’autonomia, grazie al quale vengono esaltate, a detta Deci e Ryan, la motivazione intrinseca, la curiosità e il desiderio di sfida. Tutte queste osservazioni, tuttavia, non valgono qualora le attività in questione non suscitino un interesse intrinseco di un individuo. Passiamo così ad esaminare le motivazioni di natura estrinseca.

Comportamento Non auto-determinato Auto-determinato
Tipo di motivazione Amotivazione Motivazione estrinseca Motivazione intrinseca
Stile di regolazione Assenza di regolazione Regolazione esterna Regolazione introiettata Regolazione identificata Regolazione integrata Regolazione intrinseca
Processi regolatori rilevanti Mancanza di

controllo,

incompetenza,

mancanza di

attribuzione di

valore, non-intenzionalità,

Premi e punizioni

esterni

Coinvolgimento

dell’Io,ricerca di approvazione da parte di se stesso o degli altri

Attribuzione di valore conscia,

condivisione degli obiettivi

Coerenza,

consapevolezza,

integrazione con

il sé

Interesse,

piacere,

soddisfazione

intrinseca

Locus di causalità percepito Impersonale Esterno Parzialmente esterno Parzialmente interno Interno Interno

Tabella 1. Tassonomia della motivazione umana

La motivazione estrinseca

La motivazione estrinseca è quella conduce a comportamenti dettati da fattori esterni al nesso tra azione e persona (ad esempio la prospettiva di un guadagno o di un riconoscimento oppure il timore di una punizione).

Come si può notare in tabella 1, la motivazione estrinseca presenta diversi gradi di autonomia. In tutti questi casi, il ricorso a degli incentivi può produrre buoni risultati quando si è in presenza di uno studente piuttosto riluttante a compiere una determinata attività. Sul lungo periodo, però, rischiano di esaurire la loro spinta propulsiva. Per questo motivo bisogna trovare sempre un supporto motivazionale intrinseco.

Ad ogni tipo di motivazione si collega, così, un tipo di comportamento (e ciascuno si colloca lungo un continuum di auto-determinazione che va dalla totale non auto-determinazione alla totale auto-determinazione) e un certo stile di regolazione (lungo l’asse che va dalla totale assenza di regolazione ad un grado massimo di regolazione intrinseca, passando per diversi gradi di regolazione esterna o interna al soggetto).

Questo andamento si fonda su una sub teoria interna alla Teoria dell’Auto-Determinazione, che prende il nome di Teoria dell’Integrazione Organicistica (Organismic Integration Theory, OIT), grazie alla quale è stato possibile individuare le differenti forme di motivazione estrinseca e i fattori contestuali che possono facilitare o impedire l’interiorizzazione e l’integrazione della regolazione.

Gli organismi tendono, infatti, ad interiorizzare le esperienze e a trasformare la regolazione esterna dei comportamenti in regolazione interna. Proprio a partire dalla regolazione interna sorgono comportamenti autodeterminati e la motivazione intrinseca.

Il passaggio da una regolazione di tipo esterno ad una di tipo interno non è, tuttavia, automatica o immediata, ma graduale, perché diversi elementi (valori, obiettivi, bisogni di relazione) necessitano di tempo per essere assorbiti e strutturati all’interno del Sé.

Ovviamente, gli autori mettono in guardia dall’adottare una prospettiva “sequenzialista” del continuum. Ciascun soggetto, rispetto ad un particolare compito, può partire da un punto qualsiasi del continuum e non per forza dal primo, soprattutto a causa dei vissuti precedenti e dei fattori contestuali contingenti (Ryan, 1995). Allo stesso modo, il processo di interiorizzazione non deve seguire obbligatoriamente tutti gli step che portano da una regolazione di tipo esterno ad una di tipo interno. Inoltre, non è detto che ciascun soggetto non possa retrocedere da un grado di interiorizzazione ad uno più basso, quindi verso una modalità di regolazione più esterna.

La principale criticità che gli autori rilevano riguarda le modalità con cui si può incentivare la regolazione autonoma di comportamenti estrinsecamente motivati. Poiché i comportamenti estrinsecamente motivati non suscitano interesse in determinati soggetti e devono, almeno all’inizio, essere introdotti per via esterna, la ragione primaria che spinge a tenere quei comportamenti va rintracciata nell’influenza che esercitano le persone o i gruppi sociali ai quali si appartiene o dei quali si vorrebbe far parte. L’interiorizzazione trova, perciò, un terreno fertile nel senso di appartenenza o in quello che nella Teoria dell’Auto-Determinazione prende il nome di relatedness o relazionalità. In tal senso, Ryan e Deci (2000, p. 64) affermano che uno studente che si sente apprezzato dal proprio insegnante è sicuramente più incline ad accettare i valori e gli obiettivi che vengono proposti in classe, così come confermato anche da una ricerca di Ryan, Stiller e Lynch (1994).

Il secondo elemento che hanno premura di sottolineare riguarda la competenza percepita. Secondo i due autori, più gli studenti comprendono l’obiettivo e sentono di possedere le qualità necessarie per raggiungerlo, più alta sarà la probabilità che facciano proprio ed interiorizzino quell’obiettivo. Quindi, Ryan e Deci ipotizzano che incoraggiando le competenze si possa aumentare l’interiorizzazione.

Tuttavia, l’auto-determinazione delle persone non si può raggiungere solo tramite una regolazione introiettata. Quest’ultima, infatti, soddisfa solo i bisogni di competenza e relazionalità. Piuttosto, è incoraggiando l’autonomia che si facilita l’interiorizzazione, attraverso una regolazione integrata piuttosto che introiettata. A detta degli autori, il controllo dell’ambiente può generare una regolazione introiettata se si fonda sulla competenza e sulla relazionalità, ma solo quegli ambienti che incoraggiano l’autonomia sono i veri generatori di un’auto-regolazione integrata. E per interiorizzare una regolazione e divenire autonomi rispetto ad essa le persone devono coglierne dentro di loro il significato e il valore.

II

Il problema dell’amotivazione

Se nei paragrafi precedenti si è dato ampio spazio alla Teoria dell’Auto-Determinazione di Deci e Ryan, ora si entra all’interno della parte viva del tema su cui si fonda questo lavoro di tesi. Nonostante la copiosa produzione scientifica attorno ai problemi che ineriscono alle motivazioni estrinseche, Dana J. Perlman (2015) nota quanto poco spazio sia stato dato al tema e alla ricerca sull’amotivazione, così come rilevato già a suo tempo da Ntoumanis, Pensgaard, Martin e Pipe (2004). Secondo Perlman (2010), ciò dipende dalla scarsissima partecipazione alle attività di educazione fisica da parte degli studenti amotivati. Proprio per questo motivo, vi è una certa penuria di dati che la studiosa, in collaborazione con altri ricercatori, ha cercato di sopperire.

La relazione tra amotivazione ed educazione fisica

Il tema della motivazione è divenuto particolarmente interessante all’interno del campo delle ricerche riguardanti l’educazione fisica, e questo è dovuto alle conseguenze di tipo psicologico, fisico e affettivo che derivano da determinati modelli di attività (Vallerand, 2001).

Secondo Perlman (2010), quindi, l’educazione fisica costituisce un contesto sociale ottimale al quale applicare i concetti e i parametri della teoria dell’auto-determinazione e, in particolare dell’amotivazione in relazione ai tre bisogni, così come sostenuto anche da altri autori (Ntoumanis, 2001; Standage, Duda & Ntoumanis, 2003). Anche Deci e Ryan (2004) hanno apprezzato quale importante e diffusa applicazione abbia trovato la Teoria dell’Auto-Determinazione all’interno delle ricerche sull’educazione fisica.

In riferimento all’amotivazione, si può esordire dicendo che l’amotivazione afferisce alla totale mancanza di intenzione di agire e coincide con la completa mancanza di desiderio di impegnarsi o di partecipare all’interno di un certo contesto. L’amotivazione deriva dalla scarsa importanza che ha per il soggetto una determinata azione (Ryan, 1995), dal non sentirsi capace di realizzarla (Deci, 1975) oppure dal non credere che porterà i risultati attesi (Seligman, 1975).

Ad esempio, uno studente amotivato può percepire l’educazione fisica come priva di senso e può mostrare comportamenti di rifiuto, come portare delle scuse per non partecipare alla lezione (Ntoumanis et al., 2004). In generale, si può affermare che l’amotivazione aumenta in quei contesti sociali in cui non trovano soddisfazione i tre bisogni psico-sociali fondamentali di cui già si è discusso in precedenza, vale a dire, i bisogni di autonomia, competenza e relazionalità.

Insegnamento, una variabile che incide sulla motivazione

Come già detto in precedenza, la questione del contesto sociale è una componente cruciale all’interno di un ambiente educativo. Addirittura, secondo Taylor, Ntoumanis e Smith (2009), il contesto educativo è l’unico aspetto del processo motivazionale che può essere condizionato dalle scelte dell’insegnante. Reeve et al. (2004), a questo proposito hanno individuato due modelli differenti di insegnamento, tra loro dicotomici: a supporto dell’autonomia (autonomy-supportive) e direttivo (controlling).

Il primo stile è empatico e permette agli studenti di esprimersi all’interno di un certo grado di libertà. Con il secondo stile, invece, vi è un controllo pressante da parte dell’insegnante, il quale, attraverso una grande quantità di istruzioni, impone azioni e comportamenti che riducono l’autonomia degli studenti.

Ovviamente, si tratta solo di modelli dicotomici. Lo spettro dei contesti sociali motivazionali si muove lungo l’asse sul quale i due modelli rappresentano esclusivamente le estremità. Nella realtà quotidiana, ciascun contesto risponde ad un modello piuttosto che ad un altro e secondo diversi gradi di intensità. Inoltre, nel tempo ciascun contesto può passare da uno stile all’altro, o avvicinarsi all’uno piuttosto che all’altro.

Ad ogni modo, è la stessa Perlman (2015) a riportare i risultati di alcuni studi che dimostrano come a più alti livelli di autonomia corrisponda tutta una serie di risposte ed esperienze positive da parte degli studenti (McLachlan and Hagger, 2010), una maggiore motivazione (Perlman, 2011), un maggior impegno nelle attività fisiche (Perlman, 2013) e più alti livelli di apprendimento (Black e Deci, 2000). Al contrario, un maggior controllo delle azioni degli studenti determina un abbassamento dei livelli di motivazione e di impegno (Deci e Ryan, 2002).

Con particolare riferimento al caso degli studenti amotivati, Ntoumanis et al. (2004) hanno condotto una ricerca su un gruppo di studenti adolescenti amotivati rispetto all’educazione fisica. Le conclusioni alle quali sono giunti sono piuttosto incoraggianti: anche gli studenti amotivati desideravano partecipare, ma desideravano altresì delle lezioni più piacevoli, attraverso le quali soddisfare i loro bisogni psico-sociali fondamentali. Dalla ricerca è emerso che ciò che i ragazzi cercano consiste nel potersi relazionare in gruppi più piccoli di amici, nel sentirsi apprezzati dalle figure di riferimento (in particolare dall’insegnante) e di sentirsi ascoltati e capiti.

III

Lo Sport Education Model

Secondo Perlman (2010), un modello capace di rispondere ai bisogni psico-sociali fondamentali e al desiderio di appagamento personale degli studenti è lo Sport Education Model (SEM), teorizzato da Daryl Siedentrop (1994). Numerosi studi dell’autrice australiana si basano proprio su questo modello e sulla sua applicazione empirica. In questo breve capitolo, prima di passare al caso di studio specifico studiato dalla ricercatrice, si cercherà di delineare i punti salienti del modello.

Le caratteristiche dello Sport Education Model (SEM)

Lo Sport Education Model è stato pensato per offrire agli studenti delle scuole medie e superiori un’esperienza sportiva autentica ed educativa attraverso una concezione dell’insegnamento che badi a tutti gli aspetti della pratica sportiva. Secondo Siedentrop, il mix tra pratiche di tipo pedagogico e altre di tipo prettamente sportivo all’interno delle attività di educazione fisica permette agli studenti di andare ben oltre la mera partecipazione sportiva e di divenire «literate, enthusiastic and competent sportspeople» (Siedentrop, 1994, p. 4), uno sportivo alfabetizzato (ovviamente allo sport, quindi potremmo anche dire “istruito”), appassionato e capace.

Un atleta educato allo sport è colui che comprende e dà valore alle regole, ai riti, alle tradizioni dello sport e sa discernere quali sono le buone pratiche sportive. Un atleta appassionato è colui che difende e promuove una cultura dello sport improntata all’onestà e all’autenticità attraverso l’impegno, la partecipazione e un comportamento appropriato. Infine, un atleta capace è colui che possiede abilità e conoscenze sufficienza per partecipare con soddisfazione alla competizione e che riesce a mettere in atto delle strategie idonee rispetto alla complessità del gioco a cui partecipa.

Per far sì che lo studente riesca a divenire uno sportivo così come teorizzato da Siedentrop, bisogna centrare questi dieci obiettivi:

  1. sviluppare delle abilità e una forma fisica adeguata rispetto allo specifico sport che si vuole praticare;
  2. apprezzare ed essere capaci a mettere in atto le tattiche che il gioco offre;
  3. partecipare a un livello commisurato al proprio stato di avanzamento;
  4. condividere le esperienze di pianificazione e gestione sportiva;
  5. essere dei leader responsabili;
  6. fare realmente un lavoro di squadra per raggiungere obiettivi comuni;
  7. apprezzare i riti e le convenzioni che danno allo sport dei significati unici e speciali;
  8. sviluppare la capacità di formulare decisioni ragionate attorno alle questioni sportive;
  9. sviluppare e applicare le conoscenze riguardanti il giudizio, l’arbitraggio e l’allenamento;
  10. decidere volontariamente di impegnarsi in attività sportive anche fuori scuola.

A questo punto Siedentrop ha individuato sei elementi che contribuiscono al raggiungimento di questi obiettivi.

  1. Le stagioni. Il modello non si applica a singole lezioni, ma su un numero minimo di 12. In questo modo si favorisce un apprendimento che tende ad approfondire le tematiche. Può essere l’insegnante a scegliere lo sport o l’attività che si porterà avanti oppure può lasciare agli studenti la scelta, da realizzarsi attraverso votazione.
  2. L’affiliazione. Tutti gli studenti vengono inseriti all’interno di una squadra, che rimane la stessa durante tutta la stagione.
  3. La competizione ufficiale. Viene stilato un calendario ufficiale della competizione. Di solito, tra una giornata e l’altra di gara è prevista una giornata di allenamento.
  4. L’evento culminante. Si stabilisce qual è l’evento culminante e conclusivo della stagione. In questo modo, gli allievi lavorano tutti in direzione di un comune obiettivo.
  5. La registrazione dei risultati. I risultati e i record vengono pubblicati. Lo scopo è quello di suscitare dei feedback e di stabilire degli obiettivi per gli atleti e le squadre.
  6. La festosità. Questo elemento accresce i significati propri dello sport e fa sì che gli allievi attribuiscano importanza sociale alle attività.

Lo Sport Education Model ridisegna i ruoli di insegnante e alunno. L’insegnante è chiamato a ridefinire le proprie modalità educative, che non sono più centrate sulla propria figura, ma sullo studente. Per far questo, l’insegnante deve stabilire un sistema di gestione ben definito, attraverso regole e routine. L’insegnante, così facendo, ha tempo e modo per istruire, agevolare e capire in maniera più efficace il grado di apprendimento degli studenti. Gli studenti, dal canto loro, vengono sempre più responsabilizzati in termini di leadership, valutazione, insegnamento e performance, in base al ruolo che viene da loro ricoperto. Il vero protagonista del modello è, quindi, lo studente.

Grazie a questo modello, gli studenti si sentono parte di una squadra. Il senso di appartenenza e di responsabilità fortifica la maturazione della personalità di ciascun ragazzo. I capitani di ciascuna squadra, scelti all’inizio della stagione dagli studenti stessi, possono sviluppare le loro doti di leadership e sperimentano in diversi casi il compito di allenare un gruppo (l’allenamento può essere gestito direttamente dall’insegnante che delega al capitano l’effettivo e corretto svolgimento del compito, oppure lascia al capitano la possibilità di pianificare gli allenamenti limitandosi a supervisionare in anticipo il programma).

Il contesto di apprendimento è fortemente inclusivo: tutti partecipano, non solo quelli che possiedono delle abilità specifiche molto sviluppate. Ognuno assume un ruolo che possa rispondere al meglio alle proprie capacità e al proprio livello di preparazione, ma tutti sono comunque coinvolti nel gioco in prima persona e si sentono protagonisti.

Alcuni riscontri empirici

Dana Perlman (2015), a supporto della propria ipotesi circa l’efficacia dello Sport Education Model, non manca di dare spazio a tutta una serie di risultati empirici provenienti da altre ricerche che di fatto confermano gli effetti positivi che l’applicazione del modello genera negli studenti sul piano emotivo, soprattutto per ciò che concerne il senso di piacere e di appagamento, e in relazione al soddisfacimento dei bisogni di autonomia, capacità e relazionalità.

Wallhead e Ntoumanis (2004) hanno notato come lo Sport Education Model riesca a suscitare soddisfazione in quegli studenti che nutrono sentimenti ostili verso l’educazione fisica. I livelli di soddisfazione sono notevolmente superiori rispetto a quelli osservati in classi in cui si ricorre a metodiche di insegnamento tradizionali. Carlson e Hastie (1997) hanno osservato, inoltre, quanto un maggiore senso di responsabilizzazione venga apprezzato dagli studenti.

Il bisogno di relazionalità è ampiamente soddisfatto. Grazie allo Sport Education Model, aumenta il senso di inclusione sociale e offre nuove occasioni di comunicazione tra pari (Hastie e Sharpe, 1999; Carlson e Hastie, 1997). Soprattutto, i ragazzi apprezzano la possibilità di dare libera voce alle proprie opinioni, sia dinanzi ai propri compagni di classe che ai propri insegnanti (Kinchin e O’Sullivan, 2003; O’Donovan, 2003). Wallhead e Ntoumanis (2004) hanno scoperto che l’applicazione del modello contribuisce ad un sostanziale aumento della percezione di competenza, mentre Clarke e Quill (2003) hanno avvalorato l’ipotesi secondo la quale l’applicazione del modello riesce a dare una più compiuta soddisfazione del bisogno di autonomia e Selnikov, Hastie e Prusak (2007) sono andati anche oltre, spiegando come questo effetto sia a sua volta causa di una maggiore interiorizzazione della motivazione.

IV

Insegnare educazione fisica, motivare gli amotivati

Nei paragrafi precedenti è stata esaminata la cornice interpretativa della Teoria dell’Auto-Determinazione (su cui si fonda la ricerca condotta da Dana Perlman) e si è poi passati ad esaminare la relazione tra motavazione/amotivazione ed educazione fisica, nonché l’incidenza dei diversi stili di insegnamento sulla motivazione. Infine, si è ristretto il campo ad un modello educativo specifico, lo Sport Education Model di Daryl Siedentrop (1994). A chiusura del precedente paragrafo, è stata riportata una brevissima rassegna di quei lavori di ricerca che confermano l’efficacia dell’adozione del modello.

Le domande di ricerca

L’articolo di Dana J. Perlman «Help motivate the amotivated by being a supportive teacher» parte proprio dallo Sport Education Model per compiere uno studio empirico circa la sua incidenza su una porzione specifica minoritaria ma assai significativa degli studenti, ossia su quelli che sono definiti amotivati, ossia su coloro che presentano livelli infimi di coinvolgimento nelle attività di educazione fisica e un’altissima propensione all’assenteismo. Più in generale, le domande di ricerca che l’autrice si pone sono essenzialmente due.

  1. Lo stile di insegnamento (a supporto dell’autonomia vs. direttivo) incide sul livello di soddisfacimento dei bisogni psico-sociali fondamentali (autonomia, competenza, relazionalità) degli studenti amotivati?
  2. Lo stile di insegnamento incide sul livello di motivazione degli studenti amotivati?

La metodologia

Lo studio è stato applicato a 48 studenti amotivati (18 maschi, 30 femmine) provenienti da 14 classi del nono grado di istruzione obbligatoria statunitense[1]. L’universo statistico era inizialmente composto da tutti i 392 studenti del nono grado di una scuola del midwest americano. Grazie a diversi test (Questionario di Auto-Regolazione e Scale di Amotivazione; Goudas, Biddle e Fox, 1994), tramite i quali si chiedeva agli studenti di stimare il proprio livello di motivazione nei confronti dell’educazione fisica, è stata compiuta la prima scrematura. Sono stati così individuati 54 studenti potenzialmente amotivati, scesi poi a 48 in seguito ad un periodo di osservazione di due settimane compiuto dall’insegnante di educazione fisica, debitamente formato in merito al tema dell’amotivazione.

L’osservazione è stata effettuata su diverse unità di insegnamento (alcune concernenti gli sport di squadra, altre gli sport individuali). Ogni unità era della durata di 4 settimane (16 lezioni). L’osservazione ha privilegiato le attività inerenti il basket, uno sport molto popolare negli Stati Uniti e che non risente della variabile di genere. Il campione statistico è stato, quindi, diviso in due gruppi: il gruppo sperimentale, sottoposto ad uno stile di insegnamento a supporto dell’autonomia; il gruppo di controllo, sottoposto ad uno stile di insegnamento direttivo.

Ovviamente, prima di iniziare la ricerca, è stato individuato un insegnante di educazione fisica, che ha poi opportunamente frequentato un workshop sullo stile di insegnamento autonomy-supportive. Al termine del seminario, gli sono state affidate quattro classi non interessate dallo studio, allo scopo di testare quanto appreso. Questo studio-pilota ha permesso all’insegnante di prendere ulteriormente coscienza delle differenze tra i due stili di insegnamento.

La misurazione della variabile indipendente: lo stile di insegnamento

Per misurare il livello di autonomia concesso dall’insegnante, tutti gli studenti sono stati chiamati a rispondere ad un Learning Climate Questionnaire (LCQ, Williams e Deci 1996) all’inizio e alla fine di ciascuna unità di insegnamento. Agli studenti è stato richiesto di esprimere il proprio livello di accordo verso 15 item (affermazioni) attraverso una scala Likert a 5 passi.

Ognuna delle 16 lezioni è stata opportunamente registrata, allo scopo di conteggiare la frequenza delle dichiarazioni a supporto dell’autonomia e le dichiarazioni di tipo direttivo enunciate dall’insegnante.

In base ai risultati attesi, il gruppo sperimentale avrebbe dovuto percepire un significativo incremento nel supporto alla propria autonomia da parte del docente. In secondo luogo, almeno quattro quinti delle dichiarazioni dell’insegnante avrebbero dovuto rifarsi ad uno stile supportante dell’autonomia. All’interno del gruppo di controllo, invece, ci si attendeva una relazione equilibrata tra affermazioni supportanti dell’autonomia e affermazioni direttive.

La misurazione delle variabili dipendenti: soddisfacimento dei bisogni psicologici e motivazione auto-determinata

La misurazione è stata condotta, inoltre, su due variabili dipendenti. Il soddisfacimento dei bisogni psicologici degli studenti è stata misurata tramite la cosiddetta Scala dei bisogni psicologici fondamentali in educazione fisica (The Basic Psychological Needs Scale in Physical Education, BPNS-PE; Ntoumanis, 2005), composta da 21 item ai quali gli allievi era chiesto di rispondere attraverso una scala Likert a 7 passi (1 non vero, 7 assolutamente vero).

L’altra variabile, ossia il grado di auto-determinazione della motivazione, è stata misurata chiedendo a ciascuno studente di esprimere il proprio livello di accordo in base ad una scala Likert a 7 passi (1 assolutamente in disaccordo, 7 assolutamente d’accordo) su 16 item, facendo ricorso, quindi, alla cosiddetta Sport Motivation Scale modificata (SMS; Pelletier et al., 1995). Da questa è stato poi ricavato un Indice di Auto-Determinazione (Self-Determination Index, SDI).

I risultati

Per ciò che concerne la percezione degli studenti circa la capacità dell’insegnante di adottare una didattica a supporto dell’autonomia, i risultati mostrano un notevole miglioramento dei punteggi tra la fase di pre-test e quella di post-test nel gruppo sperimentale. Invece, il gruppo di controllo non mostra incrementi significativi.

Figura 1. Percezione degli studenti del supporto dell’autonomia da parte dell’insegnante tramite LCQ (Learning Climate Questionnaire).

La tabella 2 conferma anche il secondo risultato atteso in relazione alla variabile indipendente. Le istruzioni date dall’insegnante all’interno del gruppo sperimentale rispondono ad una logica di insegnamento fortemente incentrata su uno stile supportante dell’autonomia. In tutte e 16 le lezioni viene superato il muro dell’80% di affermazioni di tipo supportante dell’autonomia (tabella 2).

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Tabella 2. Percentuale di affermazioni a supporto dell’autonomia (AS), direttive (C) e neutrali (N).

Per ciò che riguarda le variabili dipendenti, si può notare una significativa crescita nel gruppo sperimentale dell’Indice di Auto-Determinazione e un più significativo soddisfacimento del bisogno di relazionalità. Molto meno significativa è stata l’incidenza del metodo di insegnamento nel soddisfare i bisogni di autonomia e competenza (tabella 3 e figure 2 e 3).

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Tabella 3. Statistiche riguardanti i diversi elementi afferenti alle variabili dipendenti

Figura 2. Indice di Auto-Determinazione (Self-Determination Index) e confronto tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo.

Figura 3. Supporto della relazionalità percepito dagli studenti appartenenti ai due gruppi (sperimentale e di controllo).

Nelle sue conclusioni Dana Perlman fa notare che i modelli educativi costruiti attorno alla Teoria dell’Auto-Determinazione nell’ambito dell’educazione fisica esercitano un effetto positivo anche su quegli studenti che presentano bassissimi gradi di motivazione. Questi effetti positivi si possono riscontrare negli allievi amotivati soprattutto in termini di auto-determinazione della motivazione e di soddisfacimento al bisogno di relazionalità.

A detta dell’autrice, lo studio ha portato a due importanti conclusioni.

  1. Uno stile di insegnamento supportante dell’autonomia è un importante catalizzatore per lo sviluppo di una motivazione che sia auto-determinata. L’insegnante, che è un elemento fondamentale all’interno del processo di apprendimento, qualora ricorra ad uno stile supportante della motivazione, non è obbligato ad intervenire in maniera decisiva sui contenuti delle lezioni. Piuttosto, gli è sufficiente intervenire più semplicemente sui propri comportamenti educativi, adottando, ad esempio, delle forme di comunicazione più flessibili.
  2. Per curare l’amotivazione serve un maggior sostegno al bisogno di relazionalità, incoraggiando alcuni atteggiamenti come la premura e l’empatia, così come già dimostrato da Shen et al. (2010). Secondo Perlman è importante che l’insegnante sia recettivo e che ammetta il fatto che gli studenti possono non apprezzare una determinata attività. Solo così si può creare un efficace campo di interazione tra l’insegnante e gli studenti.

Secondo Perlman, la scarsa significatività nelle variazioni circa il soddisfacimento dei bisogni di autonomia e di competenza è piuttosto preoccupante. Probabilmente, gli studenti amotivati hanno bisogno anzitutto di sentirsi connessi con il resto della classe e probabilmente è più difficile implementare il livello di autonomia o di capacità in uno studente amotivato che non ha quelle sensazioni di capacità di cui si è parlato all’inizio. Inoltre, l’autrice non ha nascosto alcune criticità intrinseche alla ricerca, come il ricorso ad un unico insegnante o l’influenza di fattori esterni come le esigenze imposte dalla scuola, che limitano le possibilità di generalizzare i risultati.

Conclusioni

Lo studio condotto da Dana J. Perlman dimostra chiaramente che un inquadramento dei modelli di insegnamento all’interno della Teoria dell’Auto-Determinazione e che il ricorso allo Sport Education Model e soprattutto ad uno stile di insegnamento a supporto dell’autonomia accrescono la motivazione degli studenti ad impegnarsi nelle attività di educazione fisica e aiutano l’allievo a soddisfare i propri bisogni fondamentali di ordine psicologico (autonomia, competenza e relazionalità).

Tuttavia, il livello di partenza nella scala di motivazione sembra essere un fattore incidente su alcuni di questi aspetti piuttosto che su altri. Se uno stile di insegnamento a supporto dell’autonomia è capace di aumentare la motivazione e di incidere sui bisogni degli studenti che presentano diversi gradi di motivazione (estrinseca o intrinseca), più complesso si fa il discorso quando si è di fronte al caso “speciale” degli amotivati, in particolare per ciò che concerne la capacità di dare soddisfazione ai bisogni di autonomia e competenza.

Perlman, a chiusura del suo articolo, delinea tre sfide per il futuro (pp. 212-213):

  1. Ampliare il numero degli insegnanti all’interno di ciascuno studio, così da verificare se vi sono importanti differenze nei comportamenti educativi.
  2. Indagare maggiormente su quegli aspetti educativi o pedagogici che possono consentire di incidere su tutti e tre i bisogni psicologici fondamentali.
  3. Mettere insieme un numero sempre più ampio di ricerche tramite le quali comprendere meglio quanti e quali sono gli effetti e i benefici che derivano da uno stile di insegnamento a supporto dell’autonomia applicato agli studenti amotivati.

Ad ogni modo, è dimostrato che si sta procedendo lungo la strada giusta. I benefici offerti da modalità didattiche sempre più coinvolgenti sono numerosi e di notevole portata. Nonostante gli scarsi risultati ottenuti dallo studio condotto da Dana Perlman rispetto ad alcune variabili (autonomia e competenza), che tra l’altro sono quelle che necessitano di maggiori conoscenze di tipo tecnico e che hanno bisogno di un’attività più intensa e prolungata nel tempo per essere ben assimilate e padroneggiate, restano comunque confortanti i risultati ottenuti se si guarda alla relazionalità ma soprattutto alla motivazione.

In fondo, è proprio da questo elemento che si dovrebbe partire per comprendere al meglio il fenomeno dell’amotivazione. Pur con tutti i suoi limiti e le sue criticità, lo studio ha dimostrato che uno stile di insegnamento autonomy-supportive esercita un effetto positivo sulla motivazione e soddisfa sicuramente meglio di uno stile

direttivo i bisogni essenziali dei giovani allievi.

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Ringraziamenti

  • Prof.ssa. Per la sua professionalità e disponibilità e per il modo con cui attraverso le sue lezione ha aumentato in me l’amore per l’attività fisica e ha aumentato l’attenzione (utilità per gli altri).
  • Ringrazio la mia compagna, i miei genitori, mia sorella e in generale la mia famiglia che mi hanno sempre sostenuto e accompagnato.
  1. Il nono grado (Year-9) nel sistema scolastico degli Stati Uniti corrisponde al primo anno delle scuole superiori (high school) ed è frequentato da ragazzi di età compresa tra i 14 e i 15 anni. Rispetto al sistema scolastico italiano, questo coincide con il primo anno delle nostre scuole superiori.

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