” CERCAVANO LA VERITA’ ” DI VALTER MARCONE

Redazione- Cercavano la verità e sono stati uccisi. Hanno inseguito la verità anche a costo della loro vita. Sono le storie di giornalisti morti in teatri di guerra, in contesti di indagini sulla criminalità organizzata e in terre di mafia , n’drangheta e camorra .

Della rivelazione e conoscenza di queste storie si è fatto carico giornalistiuccisi.it . Che on line nel suo sito così racconta il suo progetto : “ Cercavano la verità raccoglie e presenta in modo unitario le storie di trenta giornalisti italiani uccisi dalle mafie, dal terrorismo e dai conflitti all’estero.

E’ nato per essere più di un semplice archivio, più di una porta di accesso unico alle informazioni esistenti in ordine sparso sulle vicende che hanno portato alla morte questi 30 uomini e donne. E’ uno strumento al servizio della memoria collettiva, che deve essere costantemente nutrita per aumentare la conoscenza e migliorare la comprensione dei fatti, per conservare documenti e testimonianze e raccoglierne di nuovi, per impedire che, da una generazione all’altra, i ricordi sbiadiscano e si perda il senso delle cose. Perciò “Cercavano la verità” propone anche testi, ricostruzioni, testimonianze che raccontano la storia umana e professionale di questi operatori dell’informazione uccisi durante lo svolgimento del loro lavoro.

Con questo approccio, raccontando una per una trenta storie individuali, Cercavano la verità racconta una sola storia: quella di giornalisti accomunati da una smisurata passione per la professione giornalistica e da un impegno civile per la ricerca della verità. “Tante storie, una sola storia: Cercavano la verità” è infatti lo slogan con cui Ossigeno diffonde dal 2014 Il Pannello in memoria dei giornalisti italiani uccisi che presenta i loro nomi e i loro volti..

Il sito raccoglie le biografie, gli sviluppi delle vicende giudiziarie per individuare i responsabili, i riferimenti bibliografici, la sitografia, i documentari e gli articoli relativi alle storie dei singoli cronisti. Offre la possibilità di conoscere ognuno attraverso un percorso multimediale di testimonianze, immagini.

Cercavano la verità intende essere un punto di riferimento per studenti, giornalisti e aspiranti tali, studiosi, non addetti ai lavori, tutti coloro che cercano notizie sul tema o vogliono partecipare al processo di aggiornamento continuo dei contenuti necessario per rendere sempre più completo il quadro complessivo di conoscenza del fenomeno. La battaglia combattuta da tanti giornalisti coraggiosi per affermare il diritto-dovere di informare ha avuto un costo umano enorme e insegna quali e quanti rischi corre chi cerca e diffonde verità scomode. E’ necessario tenere alta l’attenzione su questo aspetto e ravvivare il ricordo di chi ha pagato un prezzo così alto affinché politici, istituzioni, cittadini, giovani generazioni e giornalisti stessi, ognuno secondo le proprie responsabilità, diventino consapevoli dell’importanza di tutelare più attivamente la sicurezza dei giornalisti e proteggere il diritto d’informazione anche sul piano penale per ridurre l’impunità quasi assoluta di chi deliberatamente ostacola questo diritto, che è fondamentale per la democrazia.

Cercavano la verità si inserisce perciò nelle più ampie campagne di Ossigeno per l’Informazione, Osservatorio sui giornalisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza, nato nel 2006 con l’intento di documentare e analizzare il crescendo di intimidazioni e minacce nei confronti dei giornalisti italiani, impegnati in prima linea nella ricerca delle verità più nascoste. Oltre all’attività del suo Osservatorio, che ha documentato 4031 casi di minacce e intimidazioni ai cronisti negli ultimi 14 anni in Italia, Ossigeno offre fra l’altro ai colleghi un servizio di assistenza legale, un’attività di formazione permanente e un aiuto concreto per rompere l’isolamento sofferto da quanti di loro subiscono intimidazioni e ritorsioni a causa del loro lavoro.”

Graziella De Palo, Italo Toni, Almerigo Grilz, Guido Puletti, Marco Luchetta con Alessandro Ota e Dario D’Angelo, Ilaria Alpi con Miran Hrovatin, Marcello Palmisano, Gabriel Gruener, Antonio Russo, Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello, Enzo Baldoni, Fabio Polenghi, Vittorio Arrigoni, Andrea Rocchelli e Simone Camilli. Dal 1980 a Beirut al 2014 a Gaza, sono 19 i giornalisti e gli operatori tv uccisi all’estero perché svolgevano in prima linea il loro lavoro. I loro nomi si aggiungono a quelli dei loro nove colleghi uccisi dalle mafie tra il 1960 e il 1993: Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Giuseppe Impastato, Mario Francese, aGiuseppe Fava, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno, Giuseppe Alfano. E alle due vittime del terrorismo degli anni di piombo, Carlo Casalegno e Walter Tobagi. Trenta nomi per trenta storie personali diverse, ma accomunate dalla stessa passione per il giornalismo come impegno civile. Le loro storie ora sono raccolte per la prima volta insieme nel sito Cercavano la verità realizzato da Ossigemo per l’Informazione  e online dal 3 maggio, Giornata Mondiale della libertà di stampa.

A fare da base è il libro fuori commercio “Giornata della Memoria per i Giornalisti vittime di mafie e terrorismo” realizzato nel 2008 dall’Unione Nazionale Cronisti Italiani (UNCI), allora presieduta da Guido Columba, La stessa Unione aveva inaugurato, il 3 maggio dello stesso anno in Campidoglio a Roma, la Giornata della Memoria, da allora celebrata annualmente. Si è trattato della prima iniziativa che dava il via ad una modalità di ricordo collettiva. Con il nuovo sito si apre ora una nuova fase, un work in progress per fare di tutti i giornalisti uccisi, mentre lavoravano con coraggio in prima linea, una testimonianza vivente del giornalismo migliore.

Con la promessa di raccontare in sintesi tutte e trenta le storie su queste pagine voglio qui presentare per il momento alcune storie indicative per esempio di giornalisti morti a causa della guerra e morti per majno della criminalità organizzata .

Storie dallo scenario delle guerre .

Andrea Rocchelli, fotoreporter freelance originario di Pavia, è stato ucciso a 30 anni vicino a Sloviansk, nell’Ucraina Orientale, mentre documentava le condizioni dei civili intrappolati durante il conflitto del Donbass. Era il 24 maggio 2014. Con lui morì anche Andrej Mironov, giornalista e attivista politico russo, entrambi colpiti da una scarica di colpi di mortaio durante gli scontri fra esercito e Guardia nazionale ucraini da una parte, e gli indipendentisti filorussi dall’altra. Un fotoreporter francese, William Roguelon, è rimasto gravemente ferito.

Cofondatore del collettivo di fotografi Cesura, Andy aveva viaggiato molto: nel Nord Africa delle rivolte del 2011, in Russia ed Europa dell’Est, sempre attento alle violazioni dei diritti umani. In Italia aveva lavorato anche sulle condizioni dei migranti nel sud e il loro sfruttamento. Le sue foto sono state pubblicate da testate italiane e internazionali.

Sulla sua morte è stata aperta un’inchiesta della procura di Pavia e il processo di primo grado si è concluso nel luglio 2019 con la condanna a 24 anni di reclusione di un cittadino italo-ucraino, Vitaly Markiv, già membro della Guardia Nazionale ucraina. Markiv, nato nel 1989 , da ragazzo si era trasferito in Italia, dove aveva acquisito la cittadinanza. All’esplosione del conflitto del Donbass è tornato nel Paese d’origine arruolandosi da volontario. Qui avrebbe avuto un ruolo di comando in una milizia installata su una collina di Sloviansk, dove Rocchelli e Mironov hanno trovato la morte. Viene arrestato nel luglio 2017, al suo arrivo all’aeroporto di Bologna, e accusato di concorso in omicidio volontario. La pena inflitta dalla Corte d’Assise, più pesante di sette anni rispetto alla richiesta del pm Andrea Zanoncelli, è stata contestata dalle autorità ucraine e da altri. Ora si attende l’apertura del processo d’appello. Quale ne sia l’esito, la prima sentenza ha comunque segnato un significativo precedente, stabilendo che non si possono attribuire genericamente alla guerra le responsabilità per l’uccisione dei giornalisti, spesso testimoni scomodi, ignorando i crimini di guerra e le responsabilità personali. (1)

Fabio Polenghi aveva 48 anni quando fu ucciso il 19 maggio del 2010 a Bangkok, colpito da un proiettile in dotazione all’esercito thailandese. Era nato a Monza e “aveva ben presto scelto il mondo come casa e la fotografia come un caleidoscopio per raccontarne le mille realtà diverse: dalla moda al reportage nei luoghi dimenticati”, ricorda il sito a lui dedicato. Nella capitale tailandese stava documentando la fase finale della protesta del movimento antigovernativo delle “Camicie rosse”, che da due mesi invocavano elezioni anticipate.

Quel giorno l’esercito pose con un blitz sanguinoso la parola fine a settimane di scontri che avevano già causato decine di morti e di feriti da entrambe le parti. Fabio cadde colpito al cuore da un proiettile che lo raggiunse alla schiena, mentre fuggiva insieme ai manifestanti. L’esercito continuò a negare di avere mai colpito civili, ma il 29 maggio 2013 la sentenza di un processo penale, per il quale si era tenacemente battuta la sorella Elisabetta, stabilì invece che Fabio era stato colpito con un fucile dei militari, pur senza individuare le responsabilità personali per quella morte. Elisabetta sarebbe morta per tumore nemmeno un anno dopo, a Milano: per la memoria del fratello aveva già messo a punto un progetto, in accordo con alcuni parlamentari tailandesi, di un monumento alla libertà di informazione da collocare a Bangkok.

Introverso nonostante il sorriso sempre aperto, testimonia chi lo conosceva, Fabio preferiva non parlare di sé. Sono le sue fotografie a testimoniare il suo cammino, dagli anni di lavoro per le grandi riviste di moda alla voglia di raccontare realtà più complesse, umane e sociali, coltivando la sua parallela passione per il reportage. Dal Kosovo al Brasile, il Sud Africa, la Cambogia, il Myanmar, passando per il Kenia, Sierra Leone, Messico, Honduras, Cuba, Cina, Giappone, Corea, Nepal, India. Non è uomo dallo scatto mordi-e-fuggi, Fabio, vuole essere parte di ciò che testimonia e entrare in empatia con i suoi soggetti, nella speranza di dare così anche un contributo per un mondo migliore. I suoi ultimi scatti li troverà Elisabetta, che li raccoglierà in un libro pubblicato nell’aprile 2013 a Bangkok, dove per molti Fabio era diventato un mito. Si intitola Bangkok Last Pictures 2010 e mostra in copertina il logo RFP, Reporter for Passion. (2)

Storie in contesti di mafia e di criminalità organizzata

Cosimo Cristina aveva 25 anni. Nel 1960 aveva scoperto che nella sua Termini Imerese la vecchia mafia stava cambiando pelle entrando nel mercato della droga. Continuava a raccontarlo nonostante le minacce. Anche Giovanni Spampinato aveva 25 anni quando svelò sulle pagine de L’Ora che la sua Ragusa, celebrata come la paradisiaca provincia “babba” (ovvero non mafiosa) era il terminale di intrecci politico-mafiosi con risvolti terroristici. La stessa giovane età aveva Giancarlo Siani che rivelò l’evoluzione mafiosa e affaristica di alcuni clan camorristici dell’area vesuviana e il retroscena di un patto stretto fra i clan Nuvoletta e Bardellino. Peppino Impastato, che aveva 30 anni e divenne giornalista dopo morto, aveva la mafia in famiglia e svillaneggiava via radio un grande boss che abitava a “cento passi” da casa sua.

Gli altri non erano così giovani. Erano uomini fatti. Come Mauro Rostagno, 46 anni, che era stato leader del movimento studentesco a Trento e uno dei fondatori di Lotta Continua e poi del circolo culturale “Macondo”, e aveva scoperto il giornalismo dietro alle telecamere di una tv locale nei pressi di Valderice (Trapani). Come Beppe Alfano, 48 anni, un insegnante con la passione del giornalismo che accese le luci sugli scandali politico-mafiosi della sua Barcellona Pozzo di Gotto. Alcuni di questi nove erano giornalisti affermati, di lunga esperienza. Come Mauro De Mauro, 49 anni, una firma brillante del giornale L’Ora. Come Mario Francese, 53 anni, cronista di punta del Giornale di Sicilia, fra i primi a segnalare lo sbarco dei “corleonesi” di Totò Riina a Palermo. Come Pippo Fava, 63 anni, che aveva una lunga carriera, era direttore e fondatore del suo giornale e aveva messo a frutto la sua esperienza di scrittore e drammaturgo per sbattere in faccia ai suoi lettori la faccia mafiosa di Catania.  Otto sono stati uccisi in Sicilia fra il 1960 e il 1993. In nessun paese europeo si è registrata una ecatombe come questa.

E poi per esempio nel contesto del terrorismo Carlo Casalegno ,torinese, 60 anni, vice direttore del quotidiano La Stampa dal 1968, viene colpito il 16 novembre 1977 con quattro colpi di pistola al volto da due killer delle Brigate Rosse nell’androne del palazzo in cui abitava. Muore dopo tredici giorni di agonia. È la prima volta in Italia che i terroristi della stella a cinque punte sparano a un giornalista con la chiara intenzione di uccidere. L’attentato – che fa seguito alla morte dei componenti della banda Baader – Meinhof nel carcere tedesco di Stammhein – era nell’aria. Casalegno, dopo una serie di minacce e una bomba al giornale, veniva solitamente accompagnato dalla scorta che era stata assegnata al direttore Arrigo Levi, con la sua vettura che procedeva tra l’auto blindata e la seconda macchina della Digos. Quel giorno però aveva dovuto andare dal dentista e poi aveva scelto di trattenersi più a lungo per lavorare alla terza pagina. Era dunque tornato da solo a casa, e. qui aveva trovato i suoi assassini. Da molto tempo Carlo Casalegno era pedinato da Patrizio Peci, Vincenzo Acella, Piero Panciarelli e Raffaele Fiore. A sparare è stato quest’ultimo, con una Nagant 7,62 usata per uccidere anche Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino. “Abbiamo giustiziato un servo dello Stato”, rivendicarono i terroristi richiamando la sua rubrica “Nostro Stato” sul giornale. A Casalegno il 21 gennaio 2011 è stata conferita la Medaglia d’oro al valore civile alla memoria. (3)

E infine per il momento la storia di Ilaria Alpi . Giornalista italiana (Roma 1961 – Mogadiscio 1994). Dopo aver studiato arabo all’università e grazie anche alla sua conoscenza delle lingue, ha iniziato la sua carriera come inviata dal Cairo per i quotidiani Paese Sera e L’Unità. Successivamente è stata assunta dalla RAI, avendo vinto una borsa di studio, e ha iniziato a seguire per il telegiornale di RAI Tre le guerre in Libano, Kuwait e Somalia. Proprio in quest’ultimo Paese, a Mogadiscio, la giornalista è stata uccisa insieme all’operatore M. Hrovatin, vittime di un agguato mirato alle loro persone. Alpi stava indagando su un traffico internazionale d’armi e rifiuti tossici illegali. Le informazioni raccolte, l’esito delle indagini e la vera causa della morte della giornalista non sono ancora noti e sono coperti da Segreto di Stato, anche se nel 2014, a vent’anni dall’omicidio, è stato avviato l’iter per la desecretazione dei documenti relativi all’inchiesta. In memoria della vicenda e in ricordo della giornalista, esempio di giornalismo d’inchiesta, dal 1995 è stato istituito il Premio che porta il suo nome, assegnato annualmente alle migliori inchieste televisive dedicate al tema della pace e della solidarietà. (4)

(1) (2)https://www.ansa.it/sito/notizie/magazine/numeri/2020/05/19/erano-in-30-e-sono-morti-a-caccia-della-verita_cadae7c8-dd2b-4a8a-b7e9-3c8d4051b68b.html

(2)Bangkok Last Pictures 2010 e mostra in copertina il logo RFP, Reporter for Passion.

(3)1977 – A decretare ed eseguire l’uccisione di Carlo Casalegno è un gruppo di fuoco della colonna torinese delle Brigate Rosse formato da Raffaele FiorePatrizio PeciPiero Panciarelli e Vincenzo Acella. A sparare al giornalista, nell’androne del suo palazzo dove tornava per il pranzo, c’è Raffaele Fiore che lo stava aspettando insieme a Piero Panciarelli, mentre Peci sorvegliava la zona armato di mitra e Acella era al volante dell’auto pronta per la fuga.  All’arrivo di Casalegno, Fiore lo chiama per farlo girare e non colpirlo alla schiena: lui si volta ed è raggiunto da quattro colpi al volto. I due brigatisti fuggono convinti di avere ucciso il giornalista che invece, soccorso dalla moglie Dedi Andreis, è ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale Le Molinette, dove muore 13 giorni dopo. Oltre alla moglie, lascia il figlio Andrea, 33 anni, anche lui giornalista.

  • Il giorno successivo all’attentato migliaia di cittadini presero parte ad una manifestazione contro il terrorismo a piazza San Carlo, mentre minore partecipazione si registrò allo sciopero subito indetto alla Fiat.
  • Ai funerali, il primo dicembre, parteciparono il presidente della Fiat Gianni Agnelli e, fra i politici,  il segretario del Psi Bettino Craxi, il leader del Pri Giovanni Spadolini e l’allora ministro Carlo Donat-Cattin.
  • 1983 –  L’omicidio Casalegno viene inserito in un maxi processo contro la colonna piemontese delle Br che si svolge in estate davanti alla Corte d’Assise di Torino: ai 62 imputati sono contestati sette agguati mortali con dieci vittime, 17 tentativi di omicidio e ferimenti alle gambe, sei irruzioni o attacchi a sedi di partito e caserme, due tentativi di stragi, tre sequestri di persona, compiuti nell’arco di otto anni, fino alla primavera del 1980.
  • Nel corso del processo, i brigatisti dicono che avevano deciso di uccidere Casalegno invece di sparargli alle gambe (come avevano fatto con Indro Montanelli), in seguito soprattutto ad un suo recente articolo intitolato “Terrorismo e chiusura dei covi”, in cui sosteneva fra l’altro che contro di loro non occorrevano nuove leggi speciali, bastava applicare quelle che c’erano. In aula il brigatista pentito Patrizio Peci riferisce, citato dall’Ansa : “Da tempo lo tenevamo d’occhio. Quando partì la campagna contro i giornalisti, il fronte di massa propose di ‘azzopparlo’. Letti i suoi articoli sulla fine della Baader-Meinhof in Germania – aggiunge, con riferimento alla morte in carcere di alcuni esponenti di quel gruppo terroristico nelle precedenti settimane – in direzione di colonna decidemmo di ucciderlo”. Ma le motivazioni più proprie – si legge sul sito della Associazione italiana vittime del terrorismo –  vanno ricercate “nell’intransigente orientamento del giornale contro il terrorismo, orientamento che aveva nel vicedirettore il più strenuo sostenitore. Casalegno, pur rifiutando sempre decisamente qualsiasi forma di lotta armata clandestina, era un coerente difensore della legalità”.
  • Il processo si conclude il 29 luglio con la condanna a 12 ergastoli e un totale di 290 anni di reclusione. Carcere a vita per Raffaele Fiore e Vincenzo Acella, e otto anni per il pentito Peci. Intanto, nel 1980, Panciarelli era stato ucciso in un’operazione dei carabinieri.
  • Per responsabilità “morale” anche nell’omicidio di Casalegno, e di altre quattro vittime della colonna piemontese delle BR, viene condannato poco dopo, il 19 dicembre 1983, anche il leader storico della organizzazione, Prospero Gallinari, in un processo svoltosi sempre a Torino: è la sua terza condanna all’ergastolo, dopo quelle per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro e per il concorso in sei assassinii a Genova.
  • 1985 – Il 13 aprile la Corte d’assise d’Appello di Torino conferma gli ergastoli per l’omicidio Casalegno e gli altri delitti della colonna torinese.
  • 1986 – Il 17 febbraio i giudici della prima sezione penale della Corte di Cassazione, presieduti da Corrado Carnevale, confermano la sentenza d’appello rigettando o dichiarando inammissibili i ricorsi presentati da 39 imputati.

Fonte: Unci 2008 con il contributo dei familiari e di Carlo Sinigaglia, presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Torino)

(4)1994 – Le salme di Ilaria e Miran tornarono in Italia il 22 marzo 1994. Per Ilaria a Roma si celebrarono funerali di Stato. Al momento della sepoltura non era ancora stata aperta un’inchiesta. A Trieste, sul corpo di Miran, viene effettuata l’autopsia; a Roma, quando la Procura avvia l’inchiesta, sul corpo di Ilaria viene effettuato solo un esame medico. esterno.

  • 1996 – La prima autopsia verrà fatta nel maggio del 1996, quando viene riesumata la salma. Nel frattempo, scrivono sul sito ilariaalpi.it, “spariscono alcune delle cassette video girate da Miran Hrovatin e i taccuini con gli appunti di Ilaria Alpi. A Roma arrivano solo due bloc notes ancora intonsi e i bagagli giungono con i sigilli violati. L’ambasciatore sottrae il foglio protocollo che era nel taschino della camicia di Ilaria con appuntati dei numeri telefonici”. Il padre di Ilaria, Giorgio, comincia a parlare di “esecuzione” e ricorda che poco prima di morire la figlia aveva intervistato il sultano di Bosaso, Abdullahi Mussa Bogor, e preso appunti su un taccuino che è scomparso. Nel 1996 il sultano viene iscritto nel registro degli indagati ma la sua posizione sarà poi archiviata.
  • 1998 – Due anni dopo viene arrestato per concorso in duplice omicidio volontario, il cittadino somalo Omar Hashi Hassan, indicato quale componente del commando.
  • 1999 – Alla fine del processo, nel luglio del 1999, Hassan viene assolto dalla Corte d’Assise di Roma “per non aver commesso il fatto”. Il pm aveva chiesto la condanna all’ergastolo.
  • 2000 – L’anno successivo la Corte d’Assise d’Appello ribalta la sentenza di primo grado e condanna Hassan al carcere a vita. Per il somalo scattano in aula le manette. I genitori di Ilaria criticano la sentenza: vogliamo i veri colpevoli e i mandanti, dicono.
  • 2001 – Nel 2001 la prima sezione penale della Cassazione conferma la condanna per omicidio volontario ma annulla la sentenza “limitatamente all’aggravante della premeditazione e al diniego delle circostanze attenuanti generiche”.
  • 2002 – Nel 2002 comincia il processo d’appello bis, al termine del quale Hassan verrà condannato a 26 anni di carcere. Per lui si ipotizza un concorso con ignoti, tanto da aprire un’inchiesta stralcio.
  • 2003 – Viene istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dall’avvocato Carlo Taormina.
  • 2006 – Nel febbraio del 2006 la Commissione termina i lavori senza giungere a conclusioni condivise da tutti i componenti. Vengono depositate tre relazioni, una di maggioranza e due di minoranza. Ufficialmente la Commissione si schiera per l’ipotesi di un tentativo di rapina o di rapimento “conclusosi accidentalmente con la morte delle vittime”. La versione alternativa invece ipotizza che Ilaria Alpi avesse scoperto un traffico di armi e di rifiuti tossici illegali nel quale erano coinvolti anche l’esercito e altre istituzioni italiane. Nell’estate dello stesso anno i genitori di Ilaria, Giorgio e Luciana, sono ricevuti da Romano Prodi, presidente del Consiglio, e da Fausto Bertinotti, presidente della Camera.
  • 2007 – La Procura di Roma chiede l’archiviazione dell’inchiesta stralcio aperta nel 2002, dopo la condanna di Hassan.
  • 2010 – Bocciata la richiesta di archiviazione. Il Gip ritiene che quello di Alpi e Hrovatin “fu un omicidio su commissione, con l’intento di far tacere i due reporter ed evitare che le loro scoperte sui traffici di armi e rifiuti venissero rese note”. Intanto, nello stesso anno, parte il processo contro Ali Ahnmed detto Gelle, il principale accusatore di Hassan. L’ipotesi di accusa è calunnia al fine di sviare le indagini.
  • 2014 – Intanto vengono desecretati gli atti delle Commissioni d’inchiesta sui rifiuti e sul caso Alpi. La richiesta era stata avanzata l’anno precedente. La Presidente della Camera è Laura Boldrini.
  • 2015 – Gelle, nel frattempo fuggito all’estero, ritratterà e dirà di aver mentito su Hassan.
  • 2016 – La Corte d’appello di Perugia riapre il processo per Hassan. D’accordo anche il procuratore generale e le parti civili, la Rai e la madre di Ilaria Alpi, che prima dell’udienza abbraccia Hassan. Nell’ottobre dello stesso anno Hassan viene assolto dopo aver scontato 17 anni.
  • 2017 – Di recente, nel luglio 2017, la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sostenendo l’impossibilità di risalire al movente e agli autori degli omicidi e di non avere nessuna prova di presunti depistaggi. Proprio dopo la richiesta della Procura, quando le sue condizioni fisiche erano già provate, la madre di Ilaria dichiarerà di doversi “arrendere all’incapacità della giustizia”. Nel giugno del 2018 mamma Luciana si è addormentata per sempre senza avere giustizia per sua figlia e Miran.
  • 2019 – A ottobre 2019 il gip di Roma Andrea Fanelli rigetta la richiesta di archiviazione e dispone nuove indagini. Il movimento #noinonarchiviamo, composto da FNSI, Sindacato giornalisti Rai, Libera, Legambiente, TG3 e dalla Fondazione Ilaria Alpi nella figura di Mariangela Gritta Grainer, ha fatto un appello alle istituzioni affinché dispongano la desecretazione degli atti ancora riservati e si oppongano all’archiviazione del caso.
  • 2020 – Nel ricordare il 26esimo anniversario della morte di Ilaria e Miran, il Presidente della Camera, Roberto Fico ha affermato che i sospetti, i depistaggi, gli errori e le omissioni nelle indagini sono ancora troppi e che “la Camera dei deputati ha avviato da tempo le procedure di declassificazione di documenti formati ed acquisiti dalla Commissione d’inchiesta. Sull’Archivio digitale “Ilaria Alpi e Miran Hrovatin” – pubblicato sul sito dell’istituzione – sono stati resi accessibili direttamente sia i documenti già in origine liberamente consultabili sia quelli sinora declassificati per iniziativa della Presidenza della Camera.

Maggiori innformazioni su https://www.giornalistiuccisi.it/focus/

Ma anche nella bibliografia che segue

UNCI, Giornata della memoria dei giornalisti uccisi da mafie e terrorismo, Roma, 2008 fuori commercio ma scaricabile sul sito Unuci

Luciano Mirone, Gli insabbiati, Storie di giornalisti uccisi dalla mafia e sepolti dall’indifferenza, Roma, 2008.

Alberto Spampinato, C’erano bei cani ma molto seri. Storia di mio fratello Giovanni ucciso per aver scritto troppo, Milano, 2009

Biacchessi Daniele, Passione Reporter, Milano, 2009

Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, Torino, 2009, 2011

Giuseppe Galeani e Paola Cannatella, Maria Grazia Cutuli Dove la terra brucia, Milano 2011

Franco Nicastro, Vincenzo Vasile, Mauro De Mauro. Il grande depistaggio, Roma, 2013.

Giovanni Impastato, Oltre i cento passi, Roma, 2017.

Gianni Oliva, Torino anni di piombo (1973-1982), Torino, 2018

Luigi Grimaldi e Luciano Scalettari, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Depistaggi e verità nascoste a 25 anni dalla morte, Roma, 2019

Anna Maria Selini, Vittorio Arrigoni – ritratto di un utopista, Roma, 2019

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