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” IL SACRO E IL MESSIA ” – DOTT.RE MARCO CALZOLI

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Redazione-  Nelle lingue indoeuropee la nozione di sacro non ha una radice comune, ma le varie lingue intendono la nozione in maniera ogni volta diversa.

In latino abbiamo sacer, che vuol dire sia investito di energia divina sia maledetto, è una vox media. Invece sanctus, participio passato di sancio, sancire, significa ciò che è proibito sotto pena di sanzione. Sacer e sanctus derivano dalla stessa radice indoeuropea: l’aggettivo sacer è un antico *sakros, un derivato in –ro dalla radice *sak-; anche sancio deriva dalla radice *sak- ma per mezzo di un infisso nasale, questo presente latino in –io con infisso nasale sta a *sak- come jungiu, unire, sta a jug- in lituano, il procedimento è ben noto. Ma in latino sacer e sanctus vogliono dire all’inizio cose differenti sebbene derivino dalla stessa radice. Quindi sacer indica ciò che per qualche evento naturale o umano ha le caratteristiche del sacro, cioè che è separato dal resto dell’umanità (nel bene o nel male, nella sacralità augurale o nella maledizione), invece sanctus è ciò che viene reso proibito da parte di un atto umano, è insomma una restrizione, come fosse una barriera operata dalla formula o dalla legge che rende la cosa proibita. In effetti nel latino arcaico la via era sacra, invece il murus era sanctus: la via è lo spazio esteso, carico di sacer, invece il muro è la sua barriera e quindi è sanctus.

In greco antico avviene qualcosa di analogo con hieros e haghios. Hieros vuol dire ciò che è caratterizzato dal sacro, etimologicamente deriva dal sanscrito ish-, essere vivace, vivido, ardente, vigoroso, che ha dato l’aggettivo vedico ishiraḥ (vācam anamīvām ishiraḥ, una voce senza difetto, potente): hieros è ciò che si agita di divino, che emana divino, che è vivido di divino. Invece il greco haghios è ciò che è “proibito”, reso tale dagli uomini mediante un atto rituale. Haghios deriverebbe dalla radice indoeuropea *sak- (cade la sibilante iniziale e si forma lo spirito aspro, espresso in traslitterazione italiana da /h/): haghios si forma da un tema *sag- in alternanza con *sak- del latino sacer.

Possiamo dire che la storia dell’umanità è una continua ricerca del sacro. Tutti i popoli del mondo sono all’inizio religiosi e cercano il sacro in tanti modi differenti e approntano atti rituali per “santificare” oggetti, luoghi e persone, cioè renderli “santi”.

Da duemila anni i cristiani affermano che il Messia inviato da Dio, atteso dagli ebrei, si è incarnato da una Vergine, Maria, mediante lo Spirito Santo: è Gesù Cristo, l’Uomo Dio morto in croce per la salvezza dell’umanità.

Duemila anni fa in Palestina il popolo ebraico attendeva ardentemente il Messia. Ma chi era il Messia per gli ebrei? Doveva essere un re vittorioso o un Servo sofferente? Da quali opere bisognava riconoscerlo? Ogni donna ebrea di allora, come Maria, sperava di essere la madre dell’Atteso delle genti, del Messia. Vi erano varie idee del Messia in seno alle varie correnti ebraiche: l’ebraismo non era monolitico, così come non lo è ora, ma soprattutto nell’epoca del Secondo Tempio i gruppi di ebrei con tradizioni alquanto differenti, erano molti. L’attesa del Messia trionfante era prevalente: si attendeva la liberazione dal dominio dei romani, che in quegli anni facevano pesare il loro giogo sulla Palestina.

Ma ci sono testi antichi che parlano anche di un Messia sofferente, come in Isaia, in Zaccaria, nelle Lamentazioni: un giusto sofferente che mediante la sua morte espiatrice sarà la salvezza degli ebrei. Quindi non si tratta di una novità del Nuovo Testamento.

Nel Talmud babilonese (trattato Sanedrin) è scritto che uno dei nomi del Messia è il Lebbroso. Scrive il Talmud: “Egli ha sopportato le nostre sofferenze e quindi lo abbiamo considerato afflitto e colpito”, nagua, dal verbo ebraico nagà, che indica colpire e spesso si riferisce al colpire di malattia, come nel lebbroso. Si tratta di una citazione di Isaia 53, quindi già la tradizione ebraica leggeva il Servo sofferente di Isaia in chiave messianica. Lo stesso Cristo morirà crocifisso fuori dalla città, quasi come un lebbroso, il quale doveva vivere isolato e lontano dalla comunità per via di questa malattia contagiosa.

In Zaccaria 12, 10 si parla di un misterioso pianto per la morte di un primogenito. “Guarderanno a colui che hanno trafitto”, ma nell’originale ebraico abbiamo “guarderanno a me, colui che hanno trafitto”, sta parlando Dio, quindi si parla di un Dio trafitto. “Ne faranno il lutto come di un figlio primogenito”. Nel Talmud (trattato Sukka) i rabbini interpretano questo testo e discutono: un rabbino dice che si piange per la morte del Messia figlio di Giuseppe, ben Yosef, invece un altro sostiene che si piange per la morte della cattiva inclinazione. Nel Targum a Zaccaria 12, 10 (commento-traduzione in aramaico della Bibbia ebraica) si dice che il Messia va incontro alla morte e Gog lo uccide alla porta di Gerusalemme: Gog è il nemico per eccellenza del popolo ebraico, identificato dalla tradizione ebraica con Roma.

In un testo del midrash a Isaia (commentario alla Bibbia ebraica) intitolato Yalkut Shimoni è scritto: “Dice Dio, coloro le cui iniquità sono sepolte con te sono destinate a sottometterti con un giogo di ferro, e ti ridurranno come un vitello i cui occhi sono accecati e soffocheranno il tuo spirito sotto il giogo. A causa dei tuoi peccati la tua lingua si attaccherà al palato. È questo ciò che desideri? Il Messia rispose: Signore dell’universo, io con gioia accetto tutto questo su di me affinché nessun ebreo vada perduto”.

Nello Zohar (il più importante testo della Cabala ebraica) è scritto: “C’è nel giardino dell’Eden un palazzo chiamato Palazzo dei Figli della malattia. Il Messia entra in questo palazzo e raccoglie ogni dolore e ogni castigo di Israele, tutti loro vengono e riposano sopra di lui. Egli li alleggerì sopra di sé perché non vi era nessuno capace di portare i castighi di Israele per le colpe verso la Torah”.

Ancora oggi gli ebrei pregano nel Musaf del Yom Kippur così: “Il nostro giusto Messia è partito da noi, ci ha preso il terrore, non ci possiamo giustificare. Egli ha portato il giogo delle nostre iniquità, ed è stato ferito per le nostre trasgressioni, ha portato i nostri peccati sulla sua spalla, possa Egli trovare perdono per le nostre iniquità. Noi saremo guariti dalle sue ferite, al tempo in cui l’Eterno farà di lui una creatura nuova”.

Nella tradizione ebraica vi è una espressione ricorrente, che può essere interpretata come “le orme del Messia”: non si conosce quando verrà il Messia, solo Dio lo sa, ma si può intuire l’epoca della sua venuta dai segni, dalle “orme”, cioè le sofferenze. Nella Mishnà (trattato Sota) si fa riferimento a queste tribolazioni, dette anche “doglie del parto”. “Nelle orme del Messia (= quando il Messia sarà vicino), l’insolenza crescerà, la carestia raggiungerà il massimo grado, la vite darà il suo frutto ma il vino sarà caro, il regno passerà all’eresia, e non ci sarà nessuno che rimproveri. La sinagoga si convertirà in casa di prostituzione, la Galilea sarà devastata, la sapienza degli scribi si corromperà, coloro che hanno timore del peccato saranno disprezzati, la verità sarà assente, i giovani lasceranno lividi gli anziani e gli anziani dovranno servire i minori, il figlio disonorerà il padre, i nemici saranno i propri familiari … In chi troveremo appoggio? Nel Padre nostro che sta nei cieli”. In seguito questo testo elenca i sette mali che precederanno la venuta del Messia. Il Messia verrà solo quando ci sarà una generazione o totalmente virtuosa o totalmente perversa: se lo meritano, verrà dalle nubi del cielo (nella gloria), o, se non lo meritano, verrà cavalcando un asino (nell’umiltà).

In vari testi della tradizione ebraica il Messia sarà figlio di Efraim o figlio di Giuseppe. Si tratta di un personaggio degli ultimi tempi associato al patriarca Giuseppe (figlio di Giuseppe) o a Giosuè perché il figlio di Efraim (che a sua volta è figlio di Giuseppe) è Giosuè, che è quasi lo stesso nome di Gesù. Questo personaggio della tradizione ebraica è tratteggiato come un guerriero che intraprenderà la battaglia finale contro Gog, contro Roma, e libererà Israele. Ma in alcuni testi questo figlio di Giuseppe o figlio di Efraim sarà ucciso in battaglia (come nel Targum che abbiamo visto: le sofferenze del Messia saranno salvifiche per il popolo).

La datazione del Talmud (e degli altri scritti della tradizione ebraica: Mishnà, Targum, midrash) spesso viene calcolata nell’epoca del dopo Cristo (Heinemann), ma probabilmente si rifà certamente a tradizioni anteriori, che sono state messe per iscritto dopo alcuni secoli. Abbiamo visto come gli scritti giudaici appena richiamati sono molto vicini al Gesù del Nuovo Testamento. Nell’epoca del dopo Cristo, nei primi secoli precisamente, vi era una forte polemica tra ebrei e cristiani, quindi difficilmente gli ebrei avrebbero potuto tratteggiare un Messia con caratteri cristiani. È più probabile che il Nuovo Testamento si sia rifatto agli scritti giudaici per inserire la vicenda di Cristo nel solco della tradizione giudaica. Ma, in terzo luogo, potrebbe essere anche una profezia giudaica: Dio parlava agli ebrei, che erano il popolo eletto, e lo sono tuttora, quindi Dio fece loro una profezia su come sarebbe apparso il Messia, cosa avvenuta puntualmente in Cristo, che in greco significa “unto”, esattamente come l’ebraico “Messia”. “Unto” vuol dire consacrato da Dio (presso gli ebrei la consacrazione avveniva per unzione), cioè il Messia o il Cristo è il prescelto per una missione importante.

Gesù Cristo incarnandosi nella storia dell’uomo, che soffre e muore, e venendo persino tra un popolo molto sofferente, come quello ebraico, che stava sotto il giogo romano, entra nelle piaghe della umanità.

La santa famiglia di Nazaret viene da una storia sofferta. I primi a parlarci di Nazaret sono i vangeli. Di questo luogo sappiamo molto poco perché era poca cosa ai tempi di Gesù, un piccolo villaggio, alcuni pensano anche che non esista, ma ultimamente gli scavi archeologici hanno confermato l’esistenza di Nazaret.

Vicino Nazaret vi è la città di Sefforis, dal magnifico splendore, che Erode Antipa si era scelto come capitale della Galilea, ai tempi di Gesù. Sefforis, dalla storia millenaria, era anche il luogo in cui vivevano gli zeloti, rivoltosi ebrei, che contestavano il potere romano sulla Palestina. Vari testi di Giuseppe Flavio, storico ebreo vissuto attorno all’epoca del primo cristianesimo, testimoniano che questi briganti (in greco “brigante” è lestēs, termine che si usa per i ladroni finiti in croce assieme a Cristo), molto fedeli alla Torah come i maccabei (ai quali gli zeloti si rifacevano), mossero diverse rivolte contro i romani. Non per nulla ai tempi di Gesù si pensava a un Messia politico, inviato da Dio per vincere contro Roma, quindi Gesù si dovette difendere dal sospetto di essere uno zelota, l’evangelista Marco presenta un Cristo che nasconde il suo essere Messia per non essere frainteso dal popolino.

Che sacro aspettavano gli zeloti? Invocavano da Dio un Messia vittorioso, e come abbiamo detto l’attesa prevalente in tutti gli ebrei, ma non esclusiva, era quella di un Messia trionfante. Invece Cristo ribalta tutto, egli si presenta come il Servo sofferente di Isaia.

Cristo muta la concezione allora in auge del sacro: il sacro, nei tempi antichi, era qualche cosa di terribilmente potente, di separato dal resto dell’umanità in quanto ribolliva di energia, come abbiamo visto con il latino sacer e il greco hieros; proprio per questa separazione dal mondo degli uomini, il sacro doveva essere proibito, interdetto agli uomini con una pena che ritraesse le persone dall’avvicinarsi ad esso (sanctus, hagios). Nell’Antico Testamento Dio era detto in ebraico, lingua semitica nord-occidentale, così: Qadosh, Santo, che etimologicamente vuol dire “separato” dal resto dell’umanità. Anche le prostitute erano dette in ebraico “sante” in quanto vivevano separate dal resto della comunità.

Invece il Dio fatto Uomo, cioè Gesù Cristo, il Messia atteso dagli ebrei, manifestandosi come il Servo sofferente di Isaia 53, stravolge e fa brillare un sacro che è servizio all’uomo. Gesù muore in croce per gli uomini e, prima dell’estremo sacrificio, lava i piedi agli apostoli, gesto riservato agli schiavi o agli innamorati. Egli non è più il Dio Qadosh, separato, bensì Emmanuele, che in ebraico vuol dire “Dio-con-noi”.

Anche nei Salmi si aspettava un Messia trionfante. Salmo 110:

Oracolo del Signore al mio Signore:

“Siedi alla mia destra,

finché io ponga i tuoi nemici

a sgabello dei tuoi piedi”.

2

Lo scettro del tuo potere

stende il Signore da Sion:

“Domina in mezzo ai tuoi nemici.

3

A te il principato

nel giorno della tua potenza

tra santi splendori;

dal seno dell’aurora,

come rugiada, io ti ho generato”.

4

Il Signore ha giurato

e non si pente:

“Tu sei sacerdote per sempre

al modo di Melchisedek”.

5

Il Signore è alla tua destra,

annienterà i re nel giorno della sua ira.

6

Giudicherà i popoli:

in mezzo a cadaveri

ne stritolerà la testa su vasta terra.

7

Lungo il cammino si disseta al torrente

e solleva alta la testa.

Questo salmo è composto di sole 63 parole ebraiche. È difficilissimo, pensiamo solo al fatto che il versetto 3 è uno dei più oscuri della Bibbia, di esso ci sono almeno settanta tentativi di ricostruzione, probabilmente lo si ripeteva in continuazione nelle liturgie e qualcuno aggiungeva qualcosa fino a renderlo incomprensibile. Nonostante la difficoltà del testo, ai più sembra che questo salmo sia di incoronazione, cioè veniva originariamente proclamato in occasione della intronizzazione del re di Israele. Poi è stato riletto già dagli ebrei in chiave messianica: un Messia regale. Versetto 1. Dio dice al re, sotto il canto dello scriba di corte, di avvicinarsi al suo trono e di sedere alla sua destra: si tratta di un posto di onore, di magnifico prestigio, probabilmente il re era avvicinato all’Arca dell’Alleanza nel tempio, in cui vi era la presenza di Dio, anzi l’Arca è detta a volte il trono di Dio, e lì veniva intronizzato. Altri esegeti pensano che l’autore del salmo avesse in mente l’immagine del tempio di Gerusalemme e alla sua destra il palazzo regale. V. 4. L’espressione “sacerdote al modo di Melchisedek” significa un sacerdozio non conforme alla regola di quello levitico. Gli studiosi ipotizzano che, nelle intenzioni originarie del poeta, si voleva giustificare il re anche come sacerdote, ma diverso da quello consueto. Vale a dire che probabilmente il sovrano era investito anche di un particolare potere sacerdotale. In seguito gli ebrei vedranno un Messia anche dalla funzione sacerdote: lungo questa linea la Lettera agli Ebrei applicherà il sacerdozio di Melchisedek a Cristo.

Gesù in parte realizza il progetto regale adombrato nell’Antico Testamento, ma secondo coordinate inedite. Gesù siede alla destra del Padre ma non per dominare bensì per servire. Marco 10, 43-44: “Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti”.

Cristo è sacerdote, ma in un senso diverso dall’antichità. In tutte le religioni il sacerdote è colui che presiede al sacrificio, cioè alla uccisione della vittima sacrificale. Il latino sacrificium deriva da sacer + facio, “fare il sacer”, compiere il sacer, compiere il sacro. Perché fare una azione rituale sacra significava mettere a morte, sacrificare nel senso comune del termine? Per rendere sacer la vittima sacrificale (uomo o bestia) bisogna escluderla dal mondo dei viventi, uccidendola. Abbiamo una concezione di sacer assai potente: con la morte si sprigionano le energie latenti della vittima, cioè con il passaggio nel regno dei morti la vittima si carica di energia divina. Il termine latino sacerdos deriva da *sakro-dhōt-s, cioè “compiere (dhōt) il sacer”, il sacerdote era l’agente del sacrificio, colui che rendeva sacer la vittima uccidendola. In buona sostanza quasi sempre nell’antichità il sacerdote non era altro che un assassino rituale.

Fin dai tempi più remoti della permanenza dell’uomo sulla terra, le divinità chiedono sacrifici di esseri umani o di bestie, ma anche altri tipi di offerte rituali, come le libagioni, che consistono nel versare un liquido sul fuoco (nel sacrificio vedico si versava la bevanda detta soma). Perché? Secondo gli storici delle religioni, le divinità volevano cibarsi del fumo della vittima bruciata sul fuoco oppure del liquido, nei sacrifici antichi si parla spesso dell’odore gradito alle divinità. In Iliade II 425 ss Omero ricorda che i greci prepararono un sacrificio a Zeus per ottenere favori: “facendo un doppio strato, e posero pezzi di carne cruda sopra le ossa femorali. Questi le bruciavano su sterpi sfrondati e poi, dopo aver infilzato le viscere agli spiedi, li adagiarono sul fuoco”.

Ma il senso più genuino di questi riti è che la divinità si nutriva non tanto del fumo, dell’odore: ci sono anche sacrifici nei quali la vittima non è bruciata, inoltre nel mondo vedico sono i metri degli inni sacrificali ad essere il bestiame degli dei. Allora altri ipotizzano che le divinità si nutrivano della energia vitale della vittima uccisa o di coloro che recitavano gli inni vedici, nei quali permaneva la sostanza vitale mediante la performance poetica. È significativo che in un antico testo ittita (KUB 5.5 1 17-18) è scritto: “La divinità si prese l’intero animo e la vita e lo (?) (diede) alla Dea Madre”, DINGIR-LUM-za da-pi-an ZI-an TI-tar-ra ME-ash na-an DINGIR.MAH-ni (pa-ish).

È significativo che il verbo latino mactare, “offrire in sacrificio un animale”, deriva da mactus, il quale presenta la radice *mag-, comune a magnus, “grande”. Vi è l’idea che con il sacrificio si accresca la divinità che così si nutre dell’animale. Più anticamente vi era l’espressione latina mactare deum extis, con il nome del dio all’accusativo e il sacrificio allo strumentale: questo perché vi era l’idea che con il sacrifico, cioè l’atto di uccidere la bestia, si rende il dio più grande mediante la assimilazione dell’offerta.

La più alta dichiarazione sulla metafisica del sacrificio la troviamo in un frammento di Teofrasto, tramandato da Porfirio (Sull’astinenza II, 29-30). Si racconta che ai primordi gli uomini non offrivano agli dei che frutti e non si cibavano di carne, quando all’improvviso un bue che veniva dalla campagna mangiò una focaccia destinata al dio della città, per questo un certo Sopatro lo uccise. Venne una grande siccità e altri mali, Sopatro fuggì spaventato dalla città perché i concittadini volevano ucciderlo (credendo che la carestia fosse colpa di Sopatro), ma alla fine si trovò la soluzione: si doveva di nuovo compiere quel gesto, cioè uccidere un altro bue spinto per forza a mangiare la focaccia del dio, dopo di che la carne del bue doveva essere offerta al dio e anche consumata dai concittadini. Non si trovava chi dovesse ripetere ritualmente quell’atto (che era quindi il sacrificio appena istituito), quando lo stesso Sopatro venne a patti con i concittadini: di nuovo lui avrebbe ucciso il bue a patto che egli fosse riammesso nella città.

Questo racconto significa che la colpa si redime per spargimento di sangue: nel sacrificio, così istituito, il bue doveva essere sgozzato, perché senza spargimento di sangue la colpa non sarebbe stata rimessa e la città sarebbe restata nella carestia. Già dal tempo dei sumeri si credeva che nel sangue vi fossero le energie vitali dell’essere. Pertanto il riferimento al sangue in questo mito significa che il sacrificio ha efficacia se la energia vitale lascia l’offerta con l’uccisione e viene assimilata dal dio e dai concittadini.

Anche Cristo è sacerdote, ma egli offre non la vita della vittima bensì la propria. Efesini 5, 2: “E camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (prosphoran kai thusian tōi theōi eis osmēn euōdias, letteralmente “offerta e vittima a Dio in odore di soave profumo”). Il nucleo del cristianesimo è che Gesù muore in un sacrificio verso Dio Padre per ottenere il perdono dei peccati degli ebrei, ma non solo, di tutto il genere umano, che mediante la chiesa viene anch’esso redento, anche se non ne è consapevole. Per i meriti di Cristo, attraverso la chiesa, può salvarsi ogni uomo sulla terra, non necessariamente cristiano, ma che si comporta conformemente alla legge naturale. In questa maniera Cristo è il Messia atteso dagli ebrei: ma egli salva e libera non solo gli ebrei ma tutte le persone di buona volontà. Egli è il Salvatore del mondo (Giovanni 4).

Il messaggio cristiano non è riservato ai soli ebrei, anche se Gesù è ebreo e i primi apostoli erano ebrei. È significativo che Luca inizia il suo vangelo a Gerusalemme (considerata la città al centro del mondo), precisamente nel tempio (il centro di Gerusalemme), cioè nel Santo dei Santi (il luogo più sacro del tempio).

Ma dopo la risurrezione Gesù invita espressamente gli apostoli a annunciare il vangelo fino ai confini del mondo. Nel Vangelo di Marco si incita per ben tre volte ad andare “all’altra riva” del lago di Tiberiade: la riva occidentale era abitata da ebrei, mentre l’altra dai pagani, quindi gli esegeti vi hanno visto, in questi tre inviti, una allusione ad estendere il messaggio cristiano anche ai pagani. La teologia cattolica dice che la chiesa è Sacramento Universale di Salvezza (Lumen Gentium 48).

La Santa Messa consiste nello spezzare il pane e nel versare il vino consacrati dal sacerdote: il sacerdote-uomo compie l’atto rituale nella Persona di Cristo, quindi è Cristo il vero Sacerdote, che offre il proprio corpo e versa il proprio sangue, i quali con la invocazione dello Spirito (epiclesi) sulle offerte diventano la sostanza del pane e del vino, mentre le loro apparenze (specie, accidenti) sono preservate. Per questo pane e vino consacrati sembrano ancora alimenti quotidiani (ne hanno solo l’apparenza) ma sono in realtà il corpo e il sangue di Cristo “secondo la sostanza”. Dalla Santa Messa derivano tutte le grazie.

In Cristo il sacer non è più “separato” dai terrestri ma diventa Uomo. L’umanità di Cristo è la via più importante per fare esperienza del sacro, del divino. Giovanni 1, 14: “E il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Il greco en ēmin si può tradurre anche “in noi”. Dio non sta più sull’Olimpo o in un mondo separato come volevano gli epicurei ma si è fatto carne della nostra carne. Quando un ebreo di duemila anni fa parlava di “carne”, in greco sarx, si riferiva all’ebraico basar, il corpo umano visto nella sua fragilità e quindi nella sua sofferenza. Dio si è fatto sofferente per salvarci! “Dalle sue piaghe siete stati guariti” (1Pietro 2, 25). E questo gli ebrei non lo possono accettare, ma nemmeno i musulmani. Maometto in uno degli Hadit (detti extracoranici) afferma: “Perché voi uomini del Libro (= cristiani) dite che Egli è carne? Egli si adira, questa parola è vergogna!”. Kierkegaard diceva che l’idea della filosofia è mediazione, cioè cercare di spiegare come sono le cose mettendole in ordine. Invece l’idea del cristianesimo è paradosso.

Luca 5, 12-16:

“12 Un giorno Gesù si trovava in una città e un uomo coperto di lebbra lo vide e gli si gettò ai piedi pregandolo: «Signore, se vuoi, puoi sanarmi». 13 Gesù stese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio, sii risanato!». E subito la lebbra scomparve da lui. 14 Gli ingiunse di non dirlo a nessuno: «Va’, mostrati al sacerdote e fa’ l’offerta per la tua purificazione, come ha ordinato Mosè, perché serva di testimonianza per essi». 15 La sua fama si diffondeva ancor più; folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro infermità. 16 Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare”.

La vera salvezza offerta dal Messia Gesù non è unicamente quella esteriore e fisica, ma soprattutto quella spirituale. Ogni opera compiuta da Dio è subordinata al bene spirituale. I mistici dicono che quando Dio non concede guarigioni fisiche è perché esse pregiudicherebbero quella spirituale.

L’acqua che disseta veramente, fin nel cuore, è Cristo stesso. Giovanni 4:

“1 Quando il Signore venne a sapere che i farisei avevan sentito dire: Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni 2 – sebbene non fosse Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli -, 3 lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. 4 Doveva perciò attraversare la Samaria. 5 Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicàr, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6 qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. 7 Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: «Dammi da bere». 8 I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. 9 Ma la Samaritana gli disse: «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani. 10 Gesù le rispose: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva». 11 Gli disse la donna: «Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva? 12 Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?». 13 Rispose Gesù: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; 14 ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». 15 «Signore, gli disse la donna, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». 16 Le disse: «Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui». 17 Rispose la donna: «Non ho marito». Le disse Gesù: «Hai detto bene “non ho marito”; 18 infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». 19 Gli replicò la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta. 20 I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». 21 Gesù le dice: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. 22 Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23 Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. 24 Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità». 25 Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa». 26 Le disse Gesù: «Sono io, che ti parlo»”.

È significativo che in ebraico biblico derek vuol dire sia “via” sia “vita”. Gesù dice: “Io sono la Via (odos), la Verità (alētheia) e la Vita (zōē)” (Giovanni 14, 6). I musulmani chiamano in arabo la legge islamica (mediante la quale si ottiene la salvezza) con la parola sharia, che letteralmente significa “la strada giusta per arrivare alla fonte a cui abbeverarsi nel deserto”.

Nei Versi aurei Pitagora si interroga sulla sofferenza. Questi Versi sono sì attribuiti al grande filosofo presocratico, ma l’autenticità venne contestata già nell’antichità. Probabilmente appartengono alla tarda tradizione pitagorica. Ierocle scrive riguardo i Versi aurei: “Essi non sono le parole memorabili di un solo individuo, bensì la dottrina di tutto il corpo dei pitagorici”. La vita di Pitagora ci è nota da fonti tarde, ma la citazione del suo nome ad opera di autori antichi come Senofane, Eraclito e Erodoto ne confermerebbe l’esistenza storica. Pitagora dovette essere il maestro di Empedocle, che fu espulso dalla scuola quando rivelò la dottrina nei suoi scritti. Una importante vita di Pitagora fu quella di Giamblico, filosofo del IV secolo d.C. che nel periodo tardo antico godette di una fama straordinaria, tanto da essere definito “divino”. Egli scrisse una fondamentale opera sul pitagorismo, del quale la Vita pitagorica era l’introduzione, che va considerata quale la più vasta e impegnata mai dedicata a questo versante della filosofia antica. In realtà siamo di fronte a un programma di “rifondazione del pitagorismo” (Harder). Perché? Già all’inizio della sua Vita pitagorica Giamblico scrive: “Ed evitiamo di attribuire alcuna importanza al fatto questa scuola di pensiero ormai da molto tempo è nell’abbandono, che è ammantata di dottrine strane e simboli arcani, mathēmasin apexenōmenois kai tisin aporrētois sumbolois, su di essa gettano ombra una quantità di scritti apocrifi e infine molte altre difficoltà rendono arduo l’accedervi”. Allora Giamblico si interessava al pitagorismo per un programma di “pitagorizzazione” della tradizione platonica, che da Gimablico in poi si afferma come una caratteristica centrale della prospettiva del neoplatonismo, anche se, a onore del vero, bisogna dire che già nel passato vi erano state tendenze di “pitagorizzazione” del pensiero platonico, come fecero alcuni discepoli di Platone del IV secolo a.C., alle quali poi Aristotele aveva reagito e l’Accademia prese altre strade.

Torniamo a noi. Nel Verso aureo 11 è detto: “Di quei mali che per daimonico destino toccano ai mortali, con animo calmo, senza ira, sopporta la tua parte, pur alleviandoli, per quanto ti è dato; e ricòrdati che non estremi sono quelli riservati dal destino al Saggio”. L’espressione greca daimoniēsi tuchais, “per daimoniche sorti”, non indica che la sorte è data dal Demonio, in quanto in greco daimōn indica semplicemente una entità divina generica. Quindi qui l’autore sta dicendo che il destino è dato dagli dei. Probabilmente l’espressione “per demoniche sorti” va collegata al Verso aureo 30, dove si parla del daimōn di cui ogni uomo, senza saperlo, è la manifestazione, delle prove che ognuno si è scelto per sé stesso prima di incarnarsi.

Allora, se è vera questa interpretazione, non sembra che già i filosofi pagani considerino a volte un bene la sofferenza, seppur con tutte le cautele? La ha scelta la nostra parte divina! Tuttavia essa va placata per quanto è possibile.

Il cristianesimo invece sostiene addirittura che la sofferenza non solo è volontà di Dio, quindi risponde al suo disegno, ma che essa salva il mondo e che va accettata fino in fondo, senza sconti, come fanno i grandi santi. Molti santi si considerano Anime – vittima, cioè chiedono a Dio di partecipare in modo totale alle sofferenze di Cristo per redimere l’umanità.

Per capire meglio il sacrificio di Cristo in croce bisogna considerare il dramma del peccato. Come dice Paolo, tutti gli uomini sono “per natura meritevoli di condanna” (Efesini 2, 3). Romani 5, 12-13: “Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e attraverso il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato”. Quindi “mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo” (Romani 5, 10). Sant’Agostino commentava in questa maniera: “Egli non ha dato la sua vita per degli amici, ma per i suoi nemici. Quanto grande è l’amore di Dio per gli uomini, quanta tenerezza, amare i peccatori fino al punto di morire per essi per amore!” (Sermones 215, 5).

La situazione non è cambiata, gli uomini nascono tuttora preda del demonio, quindi nemici di Dio, allora anche di Gesù, che è il Messia Figlio di Dio. Ma Dio concede gratuitamente la salvezza a tutti coloro che si accostano ai misteri cristiani, iniziando con il battesimo. Sono vere ancora oggi queste parole: “… molti … si comportano da nemici della croce di Cristo” (Filippesi 3, 18), dove il verbo originale greco è “camminano” (peripatousin), quindi indica una inimicizia direttamente rivolta verso Dio e gli insegnamenti cristiani, che si manifesta nel modo di vivere.

La salvezza donata da Dio, mediante il sacrificio di Cristo, inizia con la decisione di cambiare vita e con il pentimento dei propri peccati. Ma è necessario uno sforzo costante con le buone opere (preghiera e retta condotta, tra cui la carità fraterna) per tenere accesa la fiaccola della fede. Se la fede è un dono gratuito di Dio, bisogna però quotidianamente essere “conversi ad Dominum” (Sant’Agostino), cioè “rivolti al Signore”. Giacomo 2, 14-25:

“14 Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? 15 Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano 16 e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? 17 Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. 18 Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede, kagō soi deixō ek tōn ergōn mou tēn pistin. 19 Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demoni lo credono e tremano! 20 Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza valore? 21 Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? 22 Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta 23 e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. 24 Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede. 25 Così anche Raab, la meretrice, non venne forse giustificata in base alle opere per aver dato ospitalità agli esploratori e averli rimandati per altra via? 26 Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta”.

Il vero volto del Messia, quello creduto dai cristiani, vuole la nostra cooperazione nella salvezza personale ma anche del mondo. Sant’Agostino scriveva che Colui che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te.

Paolo in 1Tessalonicesi 5 così indicava la via cristiana:

“1 Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; 2 infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore. 3 E quando si dirà: «Pace e sicurezza», allora d’improvviso li colpirà la rovina, come le doglie una donna incinta; e nessuno scamperà. 4 Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: 5 voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre. 6 Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobrii.

7 Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, sono ubriachi di notte. 8 Noi invece, che siamo del giorno, dobbiamo essere sobrii, rivestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza. 9 Poiché Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, 10 il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. 11 Perciò confortatevi a vicenda edificandovi gli uni gli altri, come già fate.

12 Vi preghiamo poi, fratelli, di aver riguardo per quelli che faticano tra di voi, che vi sono preposti nel Signore e vi ammoniscono; 13 trattateli con molto rispetto e carità, a motivo del loro lavoro. Vivete in pace tra voi. 14 Vi esortiamo, fratelli: correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti. 15 Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti. 16 State sempre lieti, 17 pregate incessantemente, 18 in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. 19 Non spegnete lo Spirito, 20 non disprezzate le profezie; 21 esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. 22 Astenetevi da ogni specie di male.

23 Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. 24 Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo!

25 Fratelli, pregate anche per noi.

26 Salutate tutti i fratelli con il bacio santo. 27 Vi scongiuro, per il Signore, che si legga questa lettera a tutti i fratelli.

28 La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi”.

Preghiera incessante, come consigliava anche Cristo. La preghiera deve essere l’attività più importante della giornata perché siamo esseri dotati di anima immortale, che bisogna nutrire con il contatto vivo con Dio. La preghiera più efficace e più gradita a Dio è la Santa Messa, nella quale si compie il mistero della nostra salvezza, quindi è la fonte di tutte le grazie. Per questo il Magistero della Chiesa prescrive come obbligo grave la partecipazione almeno domenicale alla Santa Messa.

Quello di Marco è il primo vangelo a essere stato scritto. Al capitolo 14, 22-25 si presenta l’Ultima Cena nella quale Cristo istituisce l’Eucaristia dicendo che il pane e il vino sono il suo corpo e il suo sangue (l’originale greco è leggermente diverso dalla traduzione della CEI, che abbiamo riportato):

“22 E mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo (kai esthiontōn autōn labōn arton euloghēsas eklasen kai edōken autois kai eipon): «Prendete, questo è il mio corpo». 23 Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24 E disse: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti. 25 In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio»”.

Gesù non è un mito, ma un personaggio storico, è un ebreo realmente esistito ed è vivo oggi e sempre, in quanto dopo tre giorni dalla morte, è risorto. E questo lo si vede anche dal fatto che in Marco, il vangelo più antico, le parole di Cristo dell’Ultima Cena riflettono enormemente il frasario degli ebrei di duemila anni fa, cosa che si perde un poco negli altri evangelisti con il passare del tempo.

Notiamo le principali espressioni semitiche (semitismi) presenti nel testo di Marco (ci limitiamo al versetto 22), sebbene il vangelo sia redatto in greco (però Cristo parlava aramaico e si rifaceva agli usi ebraici). Il versetto inizia con la congiunzione “e”, in greco kai: unico dei vangeli, Marco, salvo poche eccezioni, comincia ogni brano monotonamente con kai, come è tipico degli scritti ebraici e aramaici. Prevalenza della paratassi con la congiunzione kai (e… e lo spezzò e lo diede loro e disse … e avendo preso il calice …), un tipico semitismo in quanto le lingue semitiche (ebraico e aramaico) sono povere e semplici, amano la coordinazione. “Avendo preso il pane (e) avendo benedetto”, in greco labōn arton euloghēsas: era la formula degli ebrei prima di iniziare a mangiare. Il verbo euloghein ha nella grecità profana il senso di “lodare” con oggetto della persona, invece Marco lo usa come “benedire” o “recitare la preghiera conviviale” nel senso semitico (ebraico berak; aramaico barek), così come un semitismo è la mancanza dell’oggetto (nei passi paralleli di 1Corinzi 11, 24 e Luca 22, 19 vi è un grecismo, cioè la sostituzione di euloghein con eucharistein, “ringraziare”). “Spezzò” il pane, in greco eklasen, è un semitismo, ricalca l’ebraico basa’, l’aramaico qesa: il capofamiglia spezzava il pane per i suoi commensali. “E diede loro”, kai edōken autois: “diede” non ha alcun oggetto all’accusativo perché il “pane”, a causa di “avendo benedetto” in senso assoluto, non può essere riferito a tutti e quattro i verbi. “Dare” nel senso di “porgere” senza oggetto in accusativo è un semitismo.

Bibliografia

  • E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. 2 (Potere, diritto, religione), Torino 2001;
  • R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano 1988;
  • S. Cohen, R. Goldenberg, H. Lapin (a cura di), The Oxford Annotated Mishnah. A New Translation of the Mishnah With Introductions and Notes, New York 2022;
  • Giamblico, La Vita pitagorica. Introduzione, traduzione e note di M. Giangiulio, Milano 1991;
  • I Versi d’oro. La summa della sapienza pitagorea. Introduzione e commento di J. Evola, Roma 2010;
  • J. Jeremias, Le parole dell’Ultima Cena, Brescia 1973;
  • G. Jossa, Gesù Messia? Un dilemma storico, Roma 2006;
  • J. Klausner, The Messianic Idea in Israel from Its Beginning to the Completion of the Mishnah, Londra 1956;
  • J. Neusner, W. S. Green, E. Frerichs, Judaisms and their Messiahs at the Turn of the Christian Era, Cambridge 1987.

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 50 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.

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