Redazione- E’ proprio il caso di dirlo. Ci sono personaggi che agiscono davvero a sangue freddo. E’ il caso di Truman Capote, scrittore statunitense che negli anni ’50 si avventò come un avvoltoio su un massacro avvenuto in una piccola città della provincia americana per poter scrivere un romanzo che narrasse gli eventi di quella tragica storia.
Nel 1959 un agricoltore del Kansas, Herbert Clutter, fu assassinato insieme alla moglie e ai due figli adolescenti nella propria casa da due giovani criminali, Perry Smith e Richard Hickock, che volevano derubarli convinti che lì dentro ci fosse un patrimonio che in realtà non c’era. Non trovando soldi in casa vi fu un esplosione di violenza che portò al massacro della famiglia. Letta la notizia in un trafiletto pubblicato sul New York Times, Capote partì immediatamente con l’amica scrittrice Harper Lee per interrogare i cittadini di Holcomb, luogo nel quale era avvenuto il massacro. Lì Capote si insinuò nella vita delle persone per ottenere da loro notizie che potessero essergli utili nella stesura del suo romanzo. Dopo la cattura dei due criminali Capote si intrufolò anche nelle loro vite, andando a trovarli in carcere ed instaurando un rapporto piuttosto ambiguo – Capote faceva l’amico pur non essendolo – soprattutto con Perry Smith. Ottenne la loro fiducia e riuscì a sapere quello che gli serviva per scrivere il libro. Nel 1965 i due vennero giustiziati per impiccagione. Nel 1967 uscirà anche un film che narra tali eventi, con lo stesso titolo del romanzo di Capote, “A sangue freddo”.
Nel 2005 esce nelle sale una pellicola intitolata “Truman Capote – A sangue freddo”, tratto da una biografia scritta da Gerald Clarke, che racconta tutto ciò che avvenne nel periodo nel quale Capote, qui interpretato da uno straordinario Philip Seymour Hoffman, raccolse le notizie e scrisse il libro. Ciò che viene narrato in questo film probabilmente non si discosta molto da ciò che accadde realmente. Capote viene incuriosito dalla tragica sorte di quella famiglia e ci vede una ghiotta opportunità per poter scrivere un romanzo di successo. Recatosi nella città nella quale i Clutter sono stati trucidati, Capote comincia ad intervistare chiunque per avere notizie utili ai propri scopi. Riesce anche, astutamente, ad entrare nella vita del poliziotto che si occupa delle indagini per poter conoscere gli sviluppi del caso. Dopo l’arresto dei due assassini riesce anche a corrompere il direttore del carcere per poter parlare con i due, dicendogli con aria arrogante che lui avrebbe parlato con i criminali quando avrebbe voluto lui, e non quando avrebbe deciso il direttore secondo le regole del penitenziario. Sapendo da chi lo conosceva com’era fatto Capote, è verosimile che lui abbia agito in tal modo. In fin dei conti egli manipolava chiunque per raggiungere il proprio scopo. Uno scopo non proprio nobile e che per lui, oltre alla volontà di scrivere un’opera letteraria, era solo un passatempo per chiacchiere snob da alta società. Nel film, infatti, Capote parla con gli amici di tutta questa storia come se fosse un gioco, un argomento divertente da narrare senza troppi coinvolgimenti emotivi. Ed anche in questo caso non sembra poi così lontana l’ipotesi che si sia comportato così. E sicuramente è riuscito nell’intento di ingannare Perry per farsi raccontare cosa accadde quella notte, al fine di poter scrivere quelle pagine che agognava per terminare il romanzo. E tutto il comportamento usato nei confronti dei due condannati – prima trova un avvocato per poter rimandare l’esecuzione e tenerli in vita, poi li abbandona al proprio destino – non è dei più corretti. Addirittura entra in crisi quando i due riescono ad ottenere dei rinvii dell’esecuzione, poiché in tal modo egli non può concludere il libro (che poteva terminare solo con l’impiccagione dei due colpevoli). Li voleva morti, perché solo così “A sangue freddo” poteva concludersi (questo fatto è verificato da diverse lettere che Capote mandò in giro lamentandosi che i due erano ancora in vita). Insomma, da questa pellicola esce fuori tutto il cinismo di Capote.
Criticato molto per la stesura di questo discutibile romanzo, Capote riuscì molti anni dopo a dimostrare ancora una volta il suo opportunistico modo di comportarsi. Nel corso degli anni egli raccolse le confidenze più intime dei propri amici dell’alta società americana, e poi pubblicò parte di questo materiale (che doveva essere un libro dal titolo “Preghiere esaudite”) diffamando così molte persone, tradendo la loro fiducia e condannandosi all’isolamento. Da allora, infatti, fu abbandonato da quasi tutti quelli che fino a poco tempo prima erano nella sua cerchia di amicizie. Da quel momento Capote entrò nella strada dell’alcolismo e della tossicodipendenza. Morì nel 1984 a 59 anni distrutto dai suoi vizi. E forse anche da se stesso e dal suo modo di essere.