Redazione- L’Eneide è il più importante poema epico latino, scritto da Publio Virgilio Marone tra il 29 e il 19 a.C. Il mitico eroe Enea, figlio di Anchise e della dea Venere, riesce a fuggire da Troia e vagando per il Mediterraneo raggiunge l’Italia dove diviene il progenitore del popolo romano.
Nel IV libro dell’Eneide Virgilio ci parla della tormentata storia di amore tra Enea e Didone, la mitica regina di Cartagine. Enea deve seguire il suo destino e andare nel Lazio, lasciando sola Didone, la quale si dispera e dapprima lancia maledizioni terribili e poi si suicida.
Presentiamo un brano della parte conclusiva del IV libro (dal v. 642):
Ā́t trĕpĭda‿ḗt cœ̄ptī́s īmmā́nĭbŭs ḗffĕră Dī́do,
sā́nguĭnĕā́m uōluḗns ăcĭḗm, măcŭlī́squĕ trĕmḗntis
Ī́ntērfū́să gĕnā́s ēt pā́llĭdă mṓrtĕ fŭtū́ra,
Ī́ntĕrĭṓră dŏmū́s īrrū́mpīt lī́mĭna‿ĕt ā́ltos
Cṓnscēndī́t fŭrĭbū́ndă rogòs ēnsḗmquĕ rĕclū́dit
Dā́rdănĭū́m, nōn hṓs quǣsī́tūm mū́nŭs ĭn ū́sus.
Ma: le parti più importanti sono tutte segnate da un at e quindi anche quella conclusiva: “Ma trepidante e agitata (effera), dai propositi feroci (=cœ̄ptī́s īmmā́nĭbŭs), Didone, volgendo lo sguardo sanguigno (e quindi questi occhi ora sono sanguigni nella misura in cui sono prolettici del sangue che presto sarà versato), e cosparsa le gote (questo è un accusativo di relazione/accusativo alla greca), frementi di chiazze e pallida per la morte futura, che presto ci sarà (questa espressione – pallida morte futura – viene utilizzata con una minima variante nell’VIII libro dell’Eneide per Cleopatra e questo è importante perché ci consente di intravedere un ulteriore figura dietro quella di Didone, quella cioè di Cleopatra che, dopo aver amato Antonio, si suiciderà, stando alla vulgata, essa stessa), fece irruzione nella parte più interna della casa (quindi nelle soglie più interne della casa), e, furiosa, salì sugli alti roghi (se guardiamo all’apparato troveremo che questa lezione rogos presenta anche una variante, gradus, cioè: salì sugli alti gradini, ma questa variante viene rigettata e respinta dall’editore perché è tautologica rispetto al verso 685 dove, appunto, c’è scritto grădū́s ēuā́sĕrăt ā́ltos, per cui la ripetizione fa propendere per la variante alternativa rogos, cioè per evitare la ripetizione e poi conscendere gradus è un’espressione così triviale che ancora fa preferire la variante vista a testo) e snuda la spada dardania (e questo dardanium, aggettivo, fa il paio con il crudelis Dardanus dei versi 661-662), dono (=munus) ricercato e non per questi usi acquisito e quindi donato/regalato non a questo scopo.
Hī́c, pōstquam‿Ī́lĭăcā́s uēstī́s nōtū́mquĕ cŭbī́le
Cṓnspēxī́t, pāulū́m lăcrĭmī́s ēt mḗntĕ mŏrā́ta
Ī́ncŭbŭī́tquĕ tŏrṓ dīxī́tquĕ nŏuī́ssĭmă uḗrba
Qui, cioè all’interno del palazzo (ma questo hic ha anche un valore temporale, oltre che locativo, quindi significa anche, a questo punto e il valore temporale si correla alla congiunzione subordinante temporale che viene subito dopo, postquam) dopo che ebbe visto (=conspexit) proprio con uno sguardo subitaneo (questo è il valore puntuativo/momentaneo di questo perfetto) le stoffe iliache e il noto giaciglio, (cioè quel letto nel quale si era consumato il suo amore per Enea), indugiando un po’ in lacrime nel suo animo, si adagiò sul talamo e pronunciò le estreme parole.
Dū́lcēs ḗxŭuĭǣ́, dūm fā́tă dĕū́squĕ sĭnḗbat
Ā́ccĭpĭte‿hā́nc ănĭmā́m mēque‿hī́s ēxsṓluĭtĕ cū́ris.
“Dolci spoglie, finché il fato e la divinità lo consentiva, ricevete questa anima e liberatemi, scioglietemi da questi affanni”.
Vī́xi‿ēt quḗm dĕdĕrā́t cūrsū́m fōrtū́nă pĕrḗgi
Ḗt nūnc mā́gnă mĕī́ sūb tḗrrās ī́bĭt ĭmā́go.
“Ho vissuto in quella rotta che la sorte mi aveva concesso/quella vita che la sorte mi aveva concesso io l’ho percorsa, ed ora andrà sotto terra una grande immagine di me”, qui c’è il riferimento alla teoria dell’eidolon che, una volta che si muore, raggiunge gli Inferi.
V̄́rbēm prǣ́clārā́m stătŭī́, mĕă mœ̄́nĭă uī́di
V̄́ltă uĭrū́m pœ̄nā́s ĭnĭmī́co‿ā frā́trĕ rĕcḗpi,
Fḗlīx, hḗu nĭmĭū́m fēlī́x, sī lī́tŏră tā́ntum
Nū́mquām Dā́rdănĭǣ́ tĕtĭgī́ssēnt nṓstră cărī́næ
“Ho fondato una famosissima città, ho visto le mie mura. Ho vendicato lo sposo, e ho punito il fratello nemico (cioè ho ottenuto punizioni dal fratello nemico/ho punito il fratello nemico). Felice, o troppo felice, se soltanto le nave dardanie non avessero mai toccato le nostre rive” (e vediamo come tutto quello che riguarda Troia ed Enea sia detto anche con ripetizione di dardanio).
“Ma Didone, agitata e stravolta, dalla ferocia dei suoi propositi, volgendo lo sguardo sanguigno, cosparsa di macchie le gote frementi e pallida della morte futura, irrompe nelle intime soglie del palazzo e sale furiosa gli alti gradini e snuda la spada dardania, dono non a quest’uso richiesto. Qui quando vide le iliache vesti e il noto giaciglio, un poco indugiando in lacrime e in pensiero, si adagiò sul letto e disse le estreme parole: “dolci spoglie, finché il fato e il dio permettevano, accogliete quest’anima e liberatemi da queste pene, ho vissuto e percorso la via che aveva assegnato la sorte e ora la mia ombra gloriosa andrà sotto la terra. Ho fondato una splendida città, ho veduto mura da me costruite, vendicato lo sposo, punito il fratello nemico, felice, troppo felice, se solo le navi dardanie non avessero mai toccato le nostre ripe”.
Il finale del libro IV prosegue così:
“Disse e, premendo le labbra sul letto, “moriremo invendicate, ma moriamo!”, esclamò, “così desidero discendere tra le ombre, beva questo fuoco con gli occhi dal mare il crudele Dardanio e porti con sé la maledizione della mia morte”, disse e fra tali parole le ancelle la vedono gettarsi sul ferro, la spada schiumante, le mani bagnate di sangue, vanno le grida negli alti atri, imperversa la fama per la città sgomenta, le case fremono di lamenti, di gemiti, di urla femminee, il cielo risuona di un grande pianto come se, penetrati i nemici, precipiti tutta Cartagine o l’antica Tiro e fiamme furenti si propaghino per i tetti degli uomini e i templi degli dei. Udì, disanimata e atterrita, nella corsa angosciosa, la sorella, ferendosi il volto con le unghie e il petto con i pugni, si getta tra la folla e invoca per nome la morente: “Questo era sorella? Volevi ingannarmi? Questo mi preparavano il rogo, le fiamme, le are? Abbandonata, cosa lamenterò prima? Sfregiasti la sorella compagna nella morte? Mi avessi chiamata a uno stesso destino? A uno stesso dolore momento avrebbe rapito entrambe col ferro. Ho innalzato il rogo con queste mani, ho invocato gli dei patri per mancare crudele alla tua morte? Hai estinto te e me, sorella, e il popolo e i padri sidoni e la tua città. Fate ch’io lavi le ferite e se erra ancora un estremo alito, lo colga con le labbra.” Detto così, era scesa sugli alti gradini e con un gemito stringeva al seno la sorella morente e detergeva con la veste il nero sangue. Ella, tentando di aprire gli occhi pesanti, di nuovo ricade. Stride la ferita nel profondo del petto. Tre volte poggiando sul gomito tentò di sollevarsi, tre volte s’arrovesciò sul giaciglio e con gli occhi erranti cercò nell’alto cielo la luce e gemette a trovarla. Allora l’onnipotente Giunone, commiserando il lungo dolore e la difficile morte, mandò dall’Olimpo Iride che sciogliesse la lottante anima e le avvinte membra. Poiché non periva per destino o per debita morte, ma sventurata prima dell’ora, arsa da subitanea follia, Proserpina non aveva ancora strappato dal capo il biondo capello, né assegnato la vita all’orco Stigio. Iride, rugiadosa, con crocee penne, nel cielo traendo mille vari colori dal sole discese e le si fermò sul capo: Questo, comandata, reco e consacro a Dite, da questo tuo corpo ti sciolgo”, dice così e con la destra tronca il capello, d’un tratto tutto il colore svanì e la vita dileguò nei venti”.
Facciamo un grande salto e passiamo alla letteratura persiana. Una delle fonti medievali tra le più interessanti relative al mestiere di poeta è quella contenuta in un testo completato nel 1082. Il testo di chiama Qabusnama, tradotto come “il libro dei consigli”. È un’opera importante perché è una delle prime testimonianze di prosa antica persiana, opera molto conservativa dal punto di vista linguistico, essa rappresenta una tradizione iranica-principesca che si conserva nelle Coste sud orientali del Mar Caspio, in particolare, in quella regione che in persiano si chiama Gorgon, regione nella geografia medievale araba chiamata Jurjan. Si tratta di un’area di grande conservatività, ancora oggi, che si distingue in diversi aspetti dal resto dell’Iran. Essendo distaccata dal resto dell’altopiano, ha mantenuto a lungo le caratteristiche specifiche e un’autonomia politica abbastanza netta, fino almeno al XII sec e anche nelle età più recenti nel Nord dell’Iran ci sono stati movimenti politici più d’avanguardia. Nello specifico a partire dalla metà del X sec qui si rende autonoma una dinastia che si chiama degli Ziyaridi, che prende il nome da Ziar. Il nome identificabile come non musulmano, dimostra la tendenza a mantenere delle categorie specifiche autonome. Si tratta di una delle dinastie iraniche che lascia delle tracce importanti come ad esempio dal punto di vista architettonico alcune costruzioni come la torre, con pianta a stella e alta 53 m, con importantissimi significati anche astronomici.
È in questo contesto di l’autonomia, di diversità e di interazione con le altre dinastie dell’epoca come anche i Ghaznavidi, che viene scritto il libro di Qabus, anche se Qabus non è l’autore bensì il nonno dell’autore cioè Kay Ka’us, figlio di Escandar, figlio di Qabus. Si fa riferimento a quell’insieme di fenomeni storici che va sotto il nome generico di Shucuria, il movimento delle nazioni, anche se è il termine con cui gli storici antichi definivano il rendersi progressivamente autonomi proponendo la reinvenzione di una tradizione, esattamente da un punto di vista funzionale, paragonabile a quello che accadde nell’età sassanide quando la famiglia Sasan reinventa la tradizione achemenide. Nel X secolo alla Shucuria è stato dato il nome di rinascimento persiano.
Parlando del Qabusname, è necessario fare un ragionamento particolare. Si ritrova spesso il concetto dei tre stili della letteratura persiana: il concetto rimanda al fatto che durante l’800 si comincia a studiare i generi letterari persiani, inventando la storia della letteratura. La storia della letteratura è ancillare alla storia della nazione, cioè funzionale a mostrare la dignità nazionale. Per questo la tradizione di opere cosmopolite viene spazzata via completamente. Bahor distinse i tre grandi stili che sono: lo stile Khorasanico, lo stile iracheno e lo stile indiano (chiamato anche Barocco persiano) con riferimento alle regioni nelle quali si produssero i tre diversi periodi letterari. A questi si aggiunge un quarto ovvero lo stile neoclassico. È interessante perché in questa visione si pensa ad una progressiva decadenza dalla purezza elegante e autonoma, non contaminata dalle altre culture, ad una prima decadenza con lo stile iracheno (intendendo l’Iraq persiano, nell’altopiano centro occidentale), ad una seconda decadenza quando i centri culturali persiani si spostano nel territorio indiano. Vi è quindi un parallelo interpretativo su quanto avviene in Europa quando si abbandona e si svilisce il Barocco. Ci sarebbe poi stata la proposizione di un altro stile di scrittura, che abbandona i barocchismi, per tornare alla purezza dello stile Khorasanico, per poi giungere al neoclassico.
Il Qabusname è stato spesso classificato come esempio di pura prosa Khorasanica. È necessario quindi contestualizzare per comprendere come la letteratura dipenda sempre dalla necessità di giustificazione. Il libro è stato scritto come libro di consigli dedicato dall’autore al figlio Gilanshah. Si tratta di un libro in cui Kay, rivolgendosi al figlio, ma più in generale a qualunque principe, spiega come comportarsi in qualunque occasione della vita (come scegliere una donna, come bere il vino, come cavalcare, ect). Il libro è diviso in capitoli chiamati Bab “porta”. Il capitolo che ora leggiamo è dedicato alla descrizione delle modalità dell’esser poeta. Il titolo potrebbe essere un caso abbastanza raro che viene dedicato al nonno stesso dell’autore. Si pensa che siano stati i copisti ad intitolare il libro in questo modo.
“E se sei un poeta, sforzati affinché la tua parola ti sia facile e inaccessibile. Astieniti da una parola misteriosa (evita di usare espressioni oscure) e non dire ciò che tu sai e che agli altri servirebbe una spiegazione per capirlo (ciò che tu sai ma agli altri servirebbe una spiegazione per capirlo, evita di dirlo) poiché la poesia si dice per le persone non per sé stessi. Non accontentati esclusivamente di un metro e una rima vuoti (non farti bastare la rima e il metro) senza produrre artificio e senza ordine che non è gradevole, ci deve essere [un non so che] che è nella prassi musicale e nella voce della gente affinché risulti gradevole con quelle costruzioni e artifici, propri dei poeti come [elenco lunghissimo di artifici della scienza della retorica arabo-persiano classica] omografia (due parole uguali ma con significati diversi) comparazione e contrasto, armonia, similitudine, discorso metaforico, ritornello, concatenazione, similitudine limitata, metrica, doppia rima, anagramma […].
Se desideri che la tua parola sia eccellente parla soprattutto in modo metaforico e di’ metafore su cose che siano possibili. Usa le metafore anche quando scrivi un elogio panegirico e se ti occorre di dire ghazal e canzone, dì semplice, delicato e nuovo e dì con rime note e non dire parole arabe fredde e strane, va bene che si utilizzino descrizione degli stati degli amanti e si utilizzino parole gentili e paragoni (letteralmente proverbi, in questo caso casi concreti) affinché tutto ciò sia gradevole ai nobili e le persone comuni e i tuoi versi diventino noti. Non dire metri dalla metrica pesante perché intorno ai metri e ai sistemi metrici pesanti ci gira qualcosa che ha una natura sgradevole ed è incapace di espressioni delicate e concetti eleganti ma se proprio lo vogliono (gli uditori, la corte, il mecenate o il sovrano) dilla pure ma devi conoscere bene la scienza dei metri, la scienza della poesia, le arti delle definizioni e impara la critica poetica affinché, se tra i poeti nasce una competizione o se con te qualcuno discute, o ti fa un esame, tu non sia impreparato. E questi diciassette metri che si producono dai cerchi della metrica, i nomi di questi; […] tutte queste cose ti siano ben note e quei versi che tu dici in poesia il panegirico, il ghazal poesia lirica, la satira, l’elegia e la devozione, restituisci giustizia di quel discorso (adeguati alle norme fondamentali a seconda del genere che scegli) e non dire mai versi incompleti (cioè non accontentarti di abbozzi) e quei discorsi che non si dicono in prosa tu non dirli in poesia ché la prosa è come i sudditi la poesia come i re. Ciò che non è adatto ai sudditi certamente non si addice al sovrano.
Quando componi poesia lirica, componila fresca e luminosa. Se invece componi un panegirico deve essere forte e coinvolgente e si sempre con un animo nobile. Conosci ciò che è adeguato a ciascuno. Quando componi un panegirico devi conoscere le qualità che lo costituiscono e a colui il quale non ha mai preso in mano un pugnale non dire che tu con la spada uccidi leoni e con la lancia sollevi la montagna o con la freccia spacchi un capello e a colui che non si è mai seduto su niente non paragonare il suo cavallo a Gora, Rash, Shabdiz e Doldol. Sappi che cosa dire a ciascuno. Il generale, però deve essere cosciente della natura del suo patrono e deve sapere che cosa gli piace, deve elogiarlo nel modo in cui vuole poiché fino a che tu non dirai quello che lui vuole lui non ti darà quello che vuoi tu (devi conoscere i gusti del patrono). Non farti vedere troppo vile. In ogni qasida non chiamare te stesso schiavo e servo se non in quel panegirico dove l’oggetto dell’elogio lo merita. Non abituarti troppo a questo, infatti non tutti i secchielli vengon su con l’acqua. Se proprio sei capace di produrre devozione e rituali, non astenertene che ti verrà del bene in entrambi i mondi. Nella poesia non eccedere nel dire bugie anche se la bugia nella poesia sia un’arte, e considera necessarie le elegie degli amici e delle persone di valore. Quanto al ghazal e all’elegia dilli in un modo e la satira e il panegirico su una strada loro. Se vuoi dire una satira e non sai come dirla nello stesso modo in cui elogi qualcuno dì l’opposto di quel panegirico e tutto ciò che è l’opposto di un panegirico è una satira, stessa cosa vale per il ghazal e l’elegia”.
Presentiamo ora brevi note al testo persiano:
- Sohan: il termine si avvicina al concetto che la linguistica classica richiama alla lingua astratta dalla pratica e in questo senso alla parola poetica come la parola per eccellenza, il linguaggio nella sua astrazione. Per parola si intende logos ovvero il linguaggio del senso filosofico. La parola non deve essere oscura e comprensibile alla sua audience.
- Sahl va montane: l’obiettivo del poeta è quello di rendere un testo facile e scorrevole ma difficile da creare, ovvero un testo con un’apparente semplicità. Diventerà la marca stilistica di Sa’di Shirazi, ovvero colui che applicherà alla lettera questo consiglio.
- “Un non so che”: termine la cui traduzione non è ancora stata decifrata. Secondo alcuni sotto questo termine si nasconde il termine “hol hol” ovvero un borbottio delicato.
- Mostahor: secondo Kay Qa’us uno degli elementi importanti è l’elemento metaforico, la poesia persiana è infatti un ambito letterario nel quale il testo acquisisce delle proprietà quasi visuali. Mostahor è il termine con cui si rende la metafora. La metafora però deve essere reale. Il poeta deve trovare nel reale la corrispondenza analogica perché la poesia è vedere nella realtà quello che si deve vedere. Il poeta non deve dire parole in libertà, perché la poesia è un’interpretazione della realtà. Il linguaggio figurato deve essere messo in relazione con cose che hanno tratti comuni nella forma, nel colore e nella funzione.
- Ghazal va tarane: si tratta di due termini importanti, il ghazal che conosciamo come ghazal tecnico con una struttura ben precisa, è qui, nell’XII sec, semplicemente la poesia lirica (che ha come tema il vino e l’amore), e tarane che vuol dire canzone, anche se è un testo con cui ci si riferisce a quartine prodotte per una occasione di svago.
- La qasida è un’ode dall’argomento molto vario. Dalla sua parte iniziale, di argomento amoroso, è nato il ghazal, poi divenuto autonomo. Si tratta di generi sorti in ambito arabo e poi diffusisi in tutte le civiltà islamiche, ma il ghazal divenne importantissimo solo nella letteratura persiana. Nella letteratura persiana la qasida ha schema fisso di rima (versi doppi che rimano tra loro: a-a, b-a, c-a, d-a …), il ghazal ha schema di rima come quello della qasida, possiede versi dai 5 ai 15, è una sorta di sonetto. Altri generi poetici importanti sono roba’i (una sorta di quartina, in genere a, a, b, a, ignoto alla letteratura araba), mathnavi (il poema lungo, in versi doppi: a-a, b-b, c-c, d-d …, ignoto alla letteratura araba), e così via.
- Bahr: letteralmente Mare, anche se qua è il termine tecnico con cui in persiano si indica il sistema metrico, uno dei sistemi metrici della poesia, in questo caso della poesia persiana. La scienza metrica è una parte fondamentale che in ambito persiano ha un sistema di scansione del verso, esso è basato sull’alternanza di sillabe lunghe e sillabe brevi (sistema quantitativo). La scienza che studia i metri persiani si chiama elme aruz che riconosce una serie di metri fondamentali, ma i versi hanno anche altre particolarità al loro interno. Il primo sottoinsieme è il bahr, nel sottoinsieme più piccolo c’è il basn (Peso) che è il metro nel quale è scritta una poesia piuttosto che l’altra. Se vogliamo sapere quale è il metro di una poesia, non chiediamo il bahr ma il basn. L’unità minima della metrica è un ucl.
- Marsie: ovvero poesia elegiaca, anche in questo caso è necessario pensare al contesto in cui questo genere ha acquisito un peso enorme con la testualizzazione del martirio dello sciismo. A partire dal 1500 si assiste ad una fioritura dei generi letterari che nascono da un contesto elegiaco e diventano vere e proprie forme sociali. Diventerà uno spazio sociale sul quale si costituirà la società. Ancora oggi in Persia e in India, in contesti prettamente sciiti si può trovare la couse ani che ha a che fare con la masiene (lett. Lettura della ause), si tratta di un rito letterario che è fondato sulla recitazione del rouse ovvero del testo chiamato rouzat asciuada (lett. dei martiri). Si tratta di un’opera di un autore importante, Oez de Coscefi, grande autore soprattutto della prosa persiana, attivo nelle corti dell’Iraq. Si tratta di un’opera che raccoglie le tradizioni elegiache sul martirio dell’imam Husayn in un grandissimo testo dove il genere elegiaco si fa addirittura una struttura sociale.
- Il concetto della prosa come suddita e la poesia come regnante marcherà l’intera letteratura persiana. Tutto è fondato sul discorso fondamentale del linguaggio che si distingue come tratto umano e poi all’interno del linguaggio occupa un posto particolare la poesia.
- Si dà spazio soprattutto alla poesia lirica, un po’ al panegirico ma molto poco alla invettiva. L’invettiva, o poesia oscena, ha un ruolo costitutivo nella letteratura persiana, non è un divertissement marginale o straordinario od occasionale, è proprio una struttura fondamentale e lo dice anche il nostro Qabusname. Hajv sta in endiadi, ovvero insieme con un’altra parola, forma una coppia con un altro termine fondamentale e complementare ad esso che è hazl: la poesia satirica e oscena, le quali sono distinte, non sono sempre la stessa cosa perché non sempre la satira è oscena o le oscenità non sono sempre satiriche.
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 48 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.