IL RINASCIMENTO DELLA MATERIA-DOTT.SSA DIANA DELALLE

Redazione-Che cos’ha in comune uno scultore contemporaneo con uno medievale? La pietra, di cui entrambi si servono per realizzare le loro opere, che cosa trasmette all’osservatore e come?

Queste domande potevano formularsi nella mente di quell’osservatore, che recentemente ha partecipato alla visita guidata della chiesa parrocchiale Santo Stefano Primo Martire di Cugnoli, piccolo borgo di origine medievale, arroccato su un colle in provincia di Pescara, organizzata da Fondazione Aria.

Ad introdurre i visitatori è stato lo scultore Luigi D’Alimonte, che vive e lavora a Cugnoli e che ci ha fatto scoprire questa realtà tramite il parroco don Augusto Gobeo. Ma perché Luigi , prima di accompagnarci nella sua country house gallery, dove sono esposte molte delle sue opere, ci ha fatto visitare la chiesa di Santo Stefano?

Certamente la chiesetta del XIII secolo è una testimonianza sia della storia passata che presente, infatti è stata modificata e rinnovata più volte nel corso dei secoli, con rifacimenti quasi totali nel XV e XVI sec. e rinnovamenti periodici successivi fino all’ultimo del 2010, che è stato un intervento di messa in sicurezza, dal momento che la chiesa rimase così fortemente danneggiata nel terremoto del 6 aprile 2009 da essere chiusa al culto fino a fine lavori.

 E’ una testimonianza dell’arte del territorio. Si trova in una piccola piazza del centro storico del borgo, si presenta con una facciata rustica in pietra su cui si aprono un portale e una finestra quadrangolare con al centro uno stemma ciascuno, un orologio sulla sinistra sovrasta un piccolo bassorilievo raffigurante un toro, completa il tutto una campana sorretta su una struttura in ferro posta sul tetto. L’interno ha un’unica navata divisa in cinque campate coperte a botte, con pilastri quadrangolari addossati alle pareti, su cui sono collocate tre cappelle a destra e a sinistra. L’osservatore è colpito immediatamente dalla presenza di stili diversi nell’architettura e nelle diverse opere sacre, a testimonianza delle stratificazioni stilistiche succedutesi nei secoli.

Sulla sinistra, poco prima dell’altare, spicca un superbo ambone, attribuito allo scultore abruzzese Nicodemo, risalente al 1166 e considerato uno dei capolavori della scultura romanica, un’opera addirittura antecedente la costruzione dell’edificio stesso, dove venne portata nel 1528 in seguito alla distruzione della chiesa di S. Pietro, sua sede originaria, annessa al monastero cistercense poco distante. L’ambone, visibilmente danneggiato e privo della scala d’accesso, del parapetto della scala e delle due colonne che ne reggevano il retro della cassa, venne addossato direttamente alla parete sinistra della navata.

 Lo si volle salvare e preservare, nonostante le mutilazioni. Perché? Perché era un simbolo oltre che un’opera d’arte di grande pregio. La pietra, da cui era stato faticosamente plasmato l’ambone trasmetteva dei significati preziosi. Certamente erano più facilmente comprensibili ai cristiani medievali, che trovavano rappresentati nei riquadri dell’opera le storie del Nuovo e Antico Testamento, che nei simboli degli Evangelisti: l’angelo, il leone, l’aquila e il toro, imparavano che i Vangeli erano strumenti per la salvezza dell’anima; che attraverso figure umane intrappolate in tralci vegetali o in lotta con belve feroci ricordavano  l’eterna lotta tra il Bene e il male e l’aspirazione a liberarsi dal peccato; che attraverso gli omini che si arrampicano sulle colonnine angolari ritrovavano il loro desiderio di salvezza.

Nel Medioevo la Chiesa era l’unico luogo dell’educazione del popolo, non solo di quella religiosa, soprattutto in un luogo periferico come erano Cugnoli e dintorni. Tutti erano cristiani e vedere le rappresentazioni sacre scolpite nella pietra, materia prima presente in abbondanza sulla maestosa Maiella, faceva cogliere la solidità e l’eternità dei simboli e del messaggio di quella salvezza a cui tutti aspiravano. Essere gli artefici o i promotori dell’opera era non solo prestigioso, ma garanzia di immortalità attraverso la pietra imperitura che imprigionava i messaggi sacri al pari dei nomi scolpiti dell’artista e del committente. Infatti il nome dell’abate Rainaldo è scolpito sul lato destro dell’opera, mentre quello di Nicodemo, che probabilmente era sulla balaustra della scala distrutta, per analogia con altre opere dell’artista presenti nel territorio abruzzese, è arrivato comunque fino a noi attraverso i secoli, con la sua visione del mondo, la sua fede, il desiderio di salvezza per sé e per tutti gli uomini. Nicodemo attraverso la sua arte si è conquistato la prerogativa degli dei: l’immortalità, che di riflesso ha trasferito anche all’abate Rainaldo, che aveva creduto nella sua capacità di plasmare nella pietra i simboli e le aspirazioni più importanti del loro tempo.

Nella chiesetta di Cugnoli ci sono anche altre opere degne di rilievo, come il gruppo ligneo dorato e policromo dell’Annunciazione di scuola abruzzese del XV sec, a destra dell’altare, nella prima cappella.

La scultura in pietra rappresentante Cristo risorto pantocreatore, ritrovata in anni recenti in seguito a lavori di ristrutturazione nella sacrestia, dove era incastonata, risalente a un’epoca antecedente l’anno Mille, di autore ignoto, come del resto era comune che fosse nell’Alto Medioevo, dove tutto era in funzione di Dio e quindi il nome di un misero uomo era insignificante.

Ma per tornare da dove siamo partiti, che cosa accomuna Luigi D’Alimonte a Nicodemo o all’ignoto scultore del Cristo Pantocreatore? Prima di tutto il luogo: l’Abruzzo, Cugnoli con la sua storia passata e recente. Poi l’uso della pietra della Maiella, elemento naturale del territorio.

Luigi D’Alimonte ha in mente un progetto che chiama “rinascimento della materia”, il cui obiettivo è “l’elevazione culturale “ di un materiale “povero” come la pietra della Maiella. Usata da sempre nell’artigianato per la produzione di oggetti d’uso quotidiano, con D’Alimonte diventa bellezza artistica. La materia si svuota, approda a una “bidimensionalità plasmata”. Affiora l’anima viva della pietra che faticosamente emerge dalla prigione della materia che la trattiene con forza.

Attraverso un lavoro assiduo, testardo, ispirato da un profondo senso di appartenenza al territorio, dalla voglia di comunicare anche con simboli universalmente condivisi come quello del cuore, D’Alimonte libera l’anima della materia, che piega, assottiglia, alleggerisce e ammorbidisce in una nuova forma, perfetto equilibrio tra fisicità e spiritualità.

Le sculture di D’Alimonte, così leggere da trovare collocazione su pareti verticali, sono caratterizzate da elasticità e dinamismo, amplificati dall’uso di corde sottili, che collegano fori minuscoli e deformati dalla tensione ad indicare un equilibrio raggiunto a fatica e facilmente perdibile.

L’osservatore ne rimane disorientato , emozionato, può guardare l’opera davanti a sé come si fa con un qualsiasi quadro, è all’altezza del suo sguardo, del suo essere immanente, ma al contempo vede nella pietra la sua antica storia, testimoniata talvolta dalla presenza di fossili, costretti a dialogare con un “linguaggio contemporaneo”, con un mondo diverso, dopo milioni di anni, alla ricerca comunque di significato, di speranza, di salvezza in una società migliore.

Come Nicodemo anche D’Alimonte usa la pietra per le sue opere, la alimenta dello spirito del suo tempo, che ne esce depurato, perfezionato, costretto a rapportarsi non solo con la dimensione storica e sacra come in Nicodemo, ma anche con la storia della Terra stessa. Mentre nell’opera dello scultore medievale si doveva rivolgere lo sguardo verso l’alto per scorgere gli strumenti che avrebbero consentito di raggiungere la salvezza nell’aldilà, nelle opere del nostro scultore contemporaneo il messaggio è diretto, severo, richiama l’osservatore alla responsabilità di ricercare la salvezza dell’uomo, della natura e del mondo attraverso la volontà e l’impegno dell’uomo stesso, qui ed ora.

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