Redazione- Alla metà dell’Ottocento Émile Prisse d’Avennes, un egittologo francese, riportava in Europa dai suoi scavi e dalle sue ricerche egiziane un documento eccezionale. Si trattava di un papiro lungo sette metri, risalente al 1800 a.C. circa e proveniente – a quanto pare – dalla tomba di un alto funzionario dell’antica Tebe. Oggi il papiro è custodito presso la Biblioteca Nazionale Francese.
Cosa contiene questo papiro? Nella prima parte si può leggere la fine degli “Insegnamenti per Gemnikaï”, futuro visir del faraone Snefru (IV dinastia, XXVII sec. a.C. ); poi seguono due metri di testo vuoto, cancellato già nell’antichità; quindi comincia un’opera dal titolo “Gli insegnamenti di Ptahhotep”. Anche quest’ultimo fu un visir, vissuto ai tempi del faraone Djedkara Izezi (V dinastia, XXV-XXIV sec. a.C.), e il testo riporta le sue massime indirizzate al figlio, che l’avrebbe dovuto sostituire nel ruolo di visir presso il re.
Il papiro Prisse, redatto in una elegante scrittura ieratica (la scrittura usata dagli scribi egizi per lettere, documenti amministrativi, testi letterari e altri contenuti che interessavano la corte e che non erano destinati ai monumenti, sui quali si preferiva il geroglifico), era dunque una raccolta di Insegnamenti, un genere letterario che ebbe grande fortuna nel Medio Regno. In questi scritti si immaginava che dei sapienti trasmettessero le loro conoscenze ai più giovani sotto forma di massime. È scritto in medio egiziano, considerato la fase classica della lingua. Si tratta di uno dei libri più antichi dell’umanità.
In un noto passaggio del Papiro Prisse, Ptahhotep dice che il vero sapiente è colui che ascolta gli insegnamenti degli anziani. Invece colui che non lo fa, sta nell’ignoranza. Egli non impara, è come se fosse un morto vivente perché non sa vivere. Non ha stabilità. Ecco la frase, lapidaria, di Ptahhotep: Hr m.t anx ra nb, “dicono di lui: è un morto vivente ogni giorno”.
In un altro passo, il sapiente egiziano afferma: r Tss.t(w) jm=f ra-nb, “per questo egli sarà rimproverato/oggetto d’ira quotidianamente/con il risultato di suscitare ira su di sé quotidianamente”. Bresciani traduce: “ciò che gli sarà rimproverato ogni giorno”.
R è la preposizione egiziana che si può tradurre “per questo”. Tss.t(w) significa “essere arrabbiato con qualcuno”. Anche “sollevare, alzare”. La t forse potrebbe indicare un tw, ovvero un pronome impersonale, ma è opinabile. L’espressione jm=f vuol dire “contro di lui, su di lui”. Il sintagma ra-nb “tutti i giorni, quotidianamente”.
Il verbo Tss.t(w) ha due determinativi: l’uomo con la mano alla bocca, quindi il verbo esprime un’azione verbale o emozionale; l’altro determinativo è il simbolo U39 di Gardiner, l’asta verticale della bilancia, che indica una azione di spostamento, sollevamento. Quindi possiamo intendere il verbo egiziano come “sollevarsi con la parola contro qualcuno”. Quindi ogni possibile traduzione che rientra in questo ambito semantico, quale adirarsi, portare rancore, incolpare, biasimare.
Essendo la particella r una preposizione, non può essere seguita da un verbo suffissato o stativo. Se è seguita da una forma verbale, vuol dire che ci troviamo di fronte a una voce nominale del verbo, ovvero l’infinito o il participio. Vediamo queste due ipotesi.
- IPOTESI INFINITO: Essendo il verbo Tzj di terza debole, la forma Tss.t o Tzz.t presenta un raddoppiamento che non ci aspettiamo in un infinito (a meno di postulare un infinito della forma mrr=f di Tss, che potrebbe essere un retaggio dell’egiziano antico in cui coesistevano più forme).
- IPOTESI PARTICIPIO: Propendiamo invece nell’interpretare Tss.t/Tzz.t come un participio, femminile/neutro senza sostantivo. Quindi r assume il significato di “verso un fine, allo scopo di”.
Diversi verbi di emozione (come Tzj) usano m per indicare l’oggetto dell’emozione.
Da queste poche battute di Ptahhotep possiamo arguire come la parola sia fondamentale nel mondo antico. Gli insegnamenti delle divinità veicolati dai maestri venivano espressi mediante antiche parole che ricevevano la venerazione di tutti i discepoli. Non per nulla in egiziano antico il determinativo del papiro indica anche ogni realtà positiva.
Analizziamo quindi la parola. Cosa è la parola? I linguisti di oggi non riescono a dare una definizione certa di “parola”.
Uno dei compiti della semantica è quello di studiare i rapporti che ci sono dal punto di vista del significato tra le parole, o meglio, tra i lessemi del lessico di una lingua.
Il vocabolo parola, come termine tecnico, ha diversi significati. Può essere una parola grafica, ossia quell’unità di una frase separata dalle altre da uno spazio bianco. Ci si può riferire alle parole come forme delle parole, ossia si considerano le sue occorrenze o repliche (quante volte una stessa parola occorre in una frase). In ultimo è lessema, l’unità base che può presentarsi in forme diverse a seconda delle modifiche grammaticali cui è soggetta e alla quale possiamo ricondurre le varie forme (gatti, gatta sono forme del lessema gatto). Basandoci sulla distinzione tra lessemi (gatto), forme dei lessemi (gatti, gatte) e occorrenze/repliche delle forme, si può definire il lessema come l’unità astratta alla quale si riconducono le diverse forme che compaiono nelle realizzazioni linguistiche.
L’insieme dei lessemi forma il lessico. La disciplina che si occupa del lessico dal punto di vista semantico è la semantica lessicale e ha tra i suoi obbiettivi sia l’analisi semantica dei singoli lessemi, sia l’analisi dei rapporti semantici che intercorrono tra lessemi o insieme di lessemi.
Lo sviluppo dell’analisi dei rapporti semantici tra lessemi e della loro organizzazione è merito della semantica strutturale. L’assunto alla base è quello di Saussure che il significato sia un’entità linguistica e differenziale e di conseguenza, l’analisi semantica deve consistere nello studio delle relazioni intra linguistiche tra le unità lessicali.
Saussure indica due tipi di rapporti: sintagmatici e associativi (questi ultimi detti poi da Hjelmslev paradigmatici).
I rapporti sintagmatici riguardano la successione lineare degli elementi linguistici lungo la catena del discorso: ogni elemento di un messaggio linguistico si colloca in una posizione che ne esclude altri e acquisisce valore in relazione agli elementi che lo precedono e seguono. Siamo a livello della realizzazione pratica del messaggio, quindi a livello della “parole”, cioè l’uso concreto della lingua.
I rapporti paradigmatici si instaurano a livello della “langue”, cioè la grammatica, il sistema linguistico preso nella sua astrazione. Al di fuori di ogni discorso, ogni unità ha rapporti paradigmatici con altre unità a essa collegabili tramite un’associazione mentale basata su un legame morfologico o semantico. Si tratta di vere e proprie associazioni che si fanno nella mente quando viene detta una parola: gladiatore fa pensare a romano, Colosseo ma se si è visto il film anche a Russell Crowe.
I rapporti sintagmatici sono in presentia, quelli paradigmatici in absentia, si manifestano nella mente di un parlante. Proprio per quest’ultimo tratto, i rapporti paradigmatici sono in teoria illimitati, non sono determinabili a priori e hanno un carattere individuale con associazioni soggettive. È anche vero però che la lingua ha dei rapporti associativi già consolidati, che esprimono “percorsi semantici” condivisi dalla comunità linguistica e che formano un repertorio di associazioni cui i parlanti attingono. Quindi sotto un certo punto di vista anche loro possono essere limitati da una visione comune, dalla cultura della società.
Un classico rapporto paradigmatico è la sinonimia. È una relazione tra lessemi diversi ma che hanno lo stesso significato. Iniziare/cominciare, gatto/micio, dono/regalo. La sinonimia si definisce in termini di sostituibilità tra lessemi in un certo contesto. Due parole sono sinonime se hanno esattamente lo stesso senso e dunque sono intercambiabili in tutti i possibili contesti.
La sinonimia assoluta in realtà non esiste, è molto rara e riguarda solo delle varianti formali come tra/fra, devo/debbo. Nella maggior parte dei casi i lessemi condividono il senso denotativo ma non quello connotativo, nel valore affettivo e stilistico (gatto/micio); oppure differiscono per la varietà linguistica (eritrocita/globulo rosso).
Ci sono poi i geosinonimi, sinonimi che appartengono a varietà geografiche diverse di una lingua (babbo/papà). Nelle espressioni idiomatiche la sostituibilità tra lessemi è bloccata. Infine, va considerato che la sinonimia dipende dal contesto e non può essere determinata in astratto: comprare e vendere non sono sinonimi in astratto, ma lo possono diventare se dico Esco a comprare/prendere il pane. Più che di sinonimia, si dovrebbe parlare di quasi-sinonimia o sinonimia parziale, una somiglianza semantica tra lessemi che condividono parte del loro contenuto semantico.
I rapporti sintagmatici si creano tra lessemi compresenti sull’asse lineare del discorso, che cooccorrono nello stesso discorso.
Tali rapporti dovrebbero includere tutto ciò che rientra nell’ambito della sintassi. Ma le condizioni e le regole che stabiliscono quali combinazioni sono possibili dal punto di vista sintattico non coincidono con le condizioni e regole che stabiliscono le possibili combinazioni dal punto di vista semantico. Esempio di Chomsky:
- Idee verdi senza colore dormono con furia.
- Furia con verdi dormono senza idee colore.
La (2) è sgrammaticata, la (1) segue la grammatica, ma bizzarra dal punto di vista semantico.
Esistono anche frasi non corrette grammaticalmente ma che appaiono sensate, come Mi hanno rimasto solo.
La buona formazione dal punto di vista sintattico non coincide con la sensatezza dal punto di vista semantico.
Le collocazioni sono combinazioni di parole che si trovano regolarmente vicine sull’asse sintagmatico, che tendono a cooccorrere molto spesso (miagolare/gatto). Hanno delle forti limitazioni alla loro libertà di combinarsi con altri lessemi.
Gatto/miagolare, camuso/naso sono esempi di collocazioni, anche chiamati solidarietà semantiche o lessicali. Il termine collocazione è usato per indicare molti altri tipi di parole ed espressioni linguistiche con un certo livello di fissità o limitazione nella distribuzione. Nelle collocazioni rientrano i verbi frasali, le espressioni idiomatiche, i proverbi.
Ci sono lessemi che tendono a cooccorrere solo con pochi altri pur avendo un significato che non escluderebbe altre combinazioni, come ad esempio madornale. Il limite alla distribuzione della parola non dipende dal suo significato ma da fattori puramente lessicali (altri esempi: lasso, zonzo, ruba).
Un secondo caso sono le combinazioni i cui componenti possono comparire liberamente anche in altre espressioni, ma che, in quella combinazione, danno luogo a un’espressione lessicalmente fissa, tipica o ricorrente. Esempi: avanzare un’ipotesi, prendere provvedimenti suonano più giuste di proporre un’ipotesi, decidere provvedimenti.
Molti studiosi riservano a quest’ultimo caso il nome di collocazione, in cui dato un lessema X, la scelta di Y non è totalmente libera ma lessicalmente determinata. I lessemi in questione presentano delle restrizioni di collocazione o collocazionali, dei limiti combinatori.
I fenomeni esaminati si intrecciano con altre espressioni fisse, come i lessemi complessi (macchina da scrivere), binomi/trinomi fissi (aglio, olio e peperoncino), le espressioni stereotipiche o le frasi fatte (efferato delitto), le formule convenzionali, le espressioni idiomatiche.
In ogni modo le parole sono così importanti perché permettono di superare le leggi dello spazio e del tempo. Ancora oggi possiamo parlare con Aristotele o con il profeta Isaia stando comodamente seduti sul divano di casa.
Da ciò deriva come lo studio delle parole (linguistica, noematica) abbia quasi da sempre accompagnato lo sviluppo dell’umanità. Nella storia le grandi tradizioni di linguistica sono quella mesopotamica, quella indiana, quella greco-romana e quella araba. La linguistica moderna nasce nell’Ottocento in Europa, in parte sul modello greco-romano.
Le parole non solo hanno una funzione semantica (veicolano concetti e informazioni) ma creano anche il pensiero (legge di Sapir-Whorf). Questo significa che lo sviluppo cognitivo di ogni essere umano è influenzato dalla lingua che parla. I sistemi linguistici veicolano informazioni fissandole e categorizzandole in schemi linguistici e in espressioni idiomatiche, collocazioni e altri stereotipi: tutti questi influenzano il modo di pensare sia del singolo sia del gruppo di parlanti.
In tal modo, dato che è da millenni che i racconti tradizionali veicolano all’umanità credenze assai eterogenee riguardo le divinità e gli angeli, queste credenze si sono trasmesse nell’immaginario collettivo di ieri e di oggi. In linea generale, per quanto riguarda le divinità e gli angeli, non abbiamo a che fare con fatti ma con miti, vale a dire con parole. Di contro, tali parole nascono quasi sempre perché chi ha iniziato a trasmettere notizia degli dei e degli angeli, li ha incontrati. Ma la persona normale non è un medium, quindi si basa esclusivamente su miti, su parole perlopiù del passato. Oggi sono rari i medium, coloro che stabiliscono un contatto con entità soprannaturali, cose che per molti sarebbero semplicemente frutto di suggestione, pazzia, inganno premeditato. James Randi diceva che la magia è l’arte di convertire la superstizione in denaro.
Anche per via della tradizione religiosa un Ḥadīth (detto di Maometto non raccolto nel Corano) può recitare: “Il verso poetico più vero mai pronunciato da un poeta è: In verità! Tutto, tranne Allah, è transitorio” (Sahih al-Bukhari, numero 6489).
Quasi ogni religione si fonda su un testo sacro, spesso venerato, proprio per trasmettere in maniera continuativa nel tempo, perennemente, il messaggio delle divinità. Gli ebrei e i cristiani hanno la Bibbia, i musulmani hanno il Corano, gli zoroastriani gli Avesta, oppure gli induisti i Veda, i buddhisti hanno i Discorsi (Sutra) del Buddha (però il buddhismo Zen non si basa su testi sacri), gli shintoisti hanno il Kojiki, che costituisce la più antica cronaca del Giappone e la prima opera di narrativa giapponese.
Spesso i racconti tradizionali affermano dottrine in parte analoghe a un primo sguardo. Un grande alchimista del passato diceva che tutte le storie dell’umanità dicono le stesse cose. Anche Guenon, per il quale la vicenda dell’umanità sarebbe alimentata da una vena profonda di miti in comune, cioè da una tradizione perenne a cui tutte le religioni attingerebbero e che sarebbero di essa una sorta di espressione calata nei diversi contesti storici e politici.
Portiamo l’esempio dei monti. Per tutte le religioni i monti sono un luogo sacro, nel quale avvengono avvistamenti e fenomeni non ordinari. Spesso le alte montagne sono considerate dalle religioni come la residenza delle divinità. Il profeta biblico Isaia (14, 14) parla del “monte dell’assemblea” dove gli dei si riuniscono per decidere le sorti dell’umanità. Sembra quasi un Olimpo, luogo di dimora e giudizio degli dei greci, come ce ne sono molti altri, pensiamo al monte sacro cinese Tai oppure a quello giapponese Fuji, al Kailash induista sede del dio Shiva, al monte Hira dove Maometto ebbe la prima visione dell’angelo Gabriele. Ma il paragone più prossimo lo troviamo nella Epopea di Gilgamesh, poema accadico che parla del “monte dei cedri” (V, 6) , con toni simili a quelli di Isaia, ideale anche di perfezione e di eternità. Ma ancor più vicina alla Bibbia è la religione cananea: il dio Baal risiedeva sul monte Safon. Questo termine verrà smitizzato dalla Bibbia e usato per indicare semplicemente il nord (Geremia 6, 1). Tuttavia il salmo 48 si preoccupa di ricordare che per Israele il Safon è ormai il “monte santo” di Gerusalemme, “altura stupenda, gioia di tutta la terra, il monte Sion, vertice del Safon, capitale del gran re”. Altrove la Bibbia chiama soprattutto il monte Sion “casa” (bajit) di Dio.
Facciamo anche questo esempio. La Genesi è il primo libro della Bibbia. Questo testo si apre con le parole “In principio Dio creò i cieli e la terra”. Il termine “cieli” è nell’originale ebraico shamayim, probabilmente un duale. Questo perché gli antichi ebrei credevano che sopra le nostre teste ci sia una calotta metallica, la quale divide il cielo in due, la porzione sotto la calotta e la porzione sopra. È straordinario pensare che nel Kojiki vi è la stessa credenza, infatti nel libro I, sezione XXXI una freccia scagliata contro il cielo, dopo aver ucciso un fagiano, buca la volta celeste e cade ai piedi degli dei.
Ma questa somiglianza non deve far credere, come alcuni sostengono erroneamente o comunque non portando prove definitive, che ebraismo e shintoismo siano radicati sulla stessa tradizione, come un fiume catactonio che irriga due campi di grano diversi. L’ebraismo crede in un Dio unico, e all’inizio in un Dio più potente di tutti gli altri dei (monolatria), per cui il termine ebraico per Dio è ‘Elohim, un plurale maschile, come fosse il retaggio dell’antico culto di un Dio più potente tra altri dei, per poi essere sostituito dal monoteismo (esistenza di un solo Dio). Invece lo shintoismo non riconosce un Dio unico o più potente di altri tanto da essere venerato a dispetto di altre entità, bensì crede in più divinità, dette kami, intese come forze che possono fare del bene o fare del male, quindi in senso estensivo la parola giapponese kami può veicolare anche l’idea di un evento naturale, oppure esprimere lo spirito di un defunto benevolo o molesto, oppure ancora significare un regnante.
Lo Shinto (meglio della parola shintoismo) come costrutto complessivo ha una profonda influenza sul funzionamento dei santuari. Lo Shinto non è mai stato una religione (basata sulla fede) né un fenomeno unitario, ma nel periodo Meiji si tentò una sua unificazione e codificazione, falsandone così apertamente lo spirito.
Nel dopoguerra giapponese, lo sviluppo del concetto dello Shinto è stato uno dei principali ruoli dell’Associazione Nazionale dei Santuari (Jinja Honcho, NAS), fondata nel 1946 in un periodo di profonda crisi per il paese e per la religione. Tutti erano d’accordo sul fatto che, se lo Shinto doveva essere salvato da una rapida disintegrazione, aveva bisogno di essere reinventato. La direzione che lo Shinto avrebbe preso dopo la sconfitta del Giappone non era chiara.
Il mondo dei santuari aveva buone ragioni per temere per il proprio futuro. Dal 1868 i santuari hanno ottenuto importanza politica, e dal 1900 in poi lo Shinto aveva occupato un posto stabile al centro dell’identità nazionale giapponese. Gli alleati che occuparono il Giappone nel settembre del 1945 vedevano lo Shinto come il fondamento ideologico della venerazione dell’imperatore e dell’espansionismo, muovendosi dunque per rimuoverne l’influenza dalla sfera pubblica attraverso sistemi drastici.
Davanti a questa minaccia, i santuari combatterono una dura battaglia su tutti i fronti a causa delle difficoltà economiche e a ottenere il sostegno del pubblico generale. Molti giapponesi provavano avversione per la propaganda a cui erano stati esposti per più di un decennio, e i santuari soffrirono di ciò per la loro associazione con la propaganda. Inoltre, in pochi riuscivano a immaginare la sopravvivenza di uno Shinto arretrato in un Giappone democratico. Le autorità occupanti erano convinte che se lasciato stare, lo Shinto sarebbe scomparso autonomamente.
Lo Shinto si dimostrò più resistente di quanto si immaginasse. La maggior parte dei templi non solo sopravvisse, ma vide una rinnovata prosperità non appena il periodo peggiore per l’economia fu passato. La possibilità che lo Shinto cadesse nell’abisso della modernizzazione e della democratizzazione era sentita come estremamente vera, e coloro che si impegnarono per salvare i santuari aveva una forte visione di ciò che lo Shinto doveva rappresentare in questa nuova era.
Tra coloro che si intromisero nel dibattito, si possono individuare tre campi principali. Il primo, guidato da Ashizu Uzuhiko, enfatizzò il ruolo dello Shinto nell’unire il popolo giapponese sotto la guida spirituale dell’imperatore. Il secondo, ispirato dal lavoro dell’etnologo Yanagita Kunio, rifiutò l’idea che l’ideologia imperiale fosse il cuore dello Shinto, enfatizzando invece il valore spirituale delle tradizioni locali incentrate sulla venerazione dei kami locali. Il terzo, capeggiato da Orikuchi Shinobu, affermava che se lo Shinto doveva sopravvivere, dovrebbe svilupparsi in un’etica universale.
Queste tre posizioni riflettono sistemi di approccio radicalmente differenti. Ashizu era un fedele imperialista e attivista che vedeva lo Shinto in un contesto politico. Yanagita e Orikuchi erano studiosi specializzati in folklore giapponese che dedicarono le loro carriere alla ricerca delle radici più profonde della cultura religiosa giapponese. All’interno della NAS, Ashizu combatté una dura battaglia per escludere l’influenza di Yanagita e Orikuchi dalla nuova organizzazione dei santuari, temendo che la loro enfasi sulla diversità regionale avrebbe distrutto il senso di unità nazionale giapponese. Inizialmente Ashizu ebbe la meglio, ma col tempo le alternative proposte da Yanagita e Orikuchi lo superarono.
Per capire queste tre facce dello Shinto, dobbiamo prestare attenzione al periodo pre-guerra. Gli anni formativi dello Shinto moderno sono concentrati tra il 1868 e il 1915, quando il santuario Meiji di Tokyo venne inaugurato.
Nel dicembre 1867 un piccolo gruppo di rivoltosi portò l’imperatore a rilasciare un testo ufficiale nel quale lo shogunato veniva abolito. Questo testo condusse alla ristorazione del governo imperiale, e presto divenne chiaro cosa ciò implicava per i santuari. Il nuovo regime si basava sul concetto che “riti e governo sono un’unità” e di conseguenza tutti i sacerdoti shintoisti vennero posti sotto l’autorità del Jingikan. Nelle settimane successive i santuari vennero separati dal buddhismo, che venne bandito completamente.
La riforma del 1868 portò alla nascita di un’ondata di nativismo nostalgico che idealizzava l’antichità giapponese come era di naturale armonia e innocenza. Per poter rinascere, il Giappone doveva liberarsi delle influenze “corrotte” che erano arrivate nel corso dei secoli, tra cui il buddhismo, che in realtà aveva già perso la sua posizione di dominio intellettuale già dal XVIII secolo, mentre era diventato più popolare il Confucianesimo.
Un altro fattore dietro l’istituzionalizzazione dello Shinto era il senso di crisi davanti all’espansionismo occidentale. Si temeva che il cristianesimo avrebbe preso il controllo in Giappone, con effetti devastanti sulla coesione del paese e sulla sua possibilità di sopravvivere. Il nuovo Shinto era anche uno strumento per evidenziare la figura dell’imperatore, ora unico simbolo di unità nazionale.
Di conseguenza, il nuovo culto Shinto del periodo Meiji funzionava come una forma di venerazione degli antenati ispirata dal confucianesimo. Onorando gli antenati, si creava una comunità che celebrava un passato condiviso. Il santuario centrale era quello di Ise. Nel 1871 tutti gli altri santuari vennero sistemati su una scala gerarchica, e la discendenza ereditaria dei sacerdoti venne abolita con dei sacerdoti scelti dallo stato posti in loro sostituzione. In tal modo i santuari venivano controllati dallo stato e scelti come luoghi per lo svolgimento di rituali statali.
L’effetto di queste misure fu tale che, per la prima volta, lo Shinto acquisì dei contorni ben definiti. Sotto altri punti di vista, però, lo Shinto rimaneva un concetto estremamente vago, in quanto non c’era nessun insegnamento consistente e disponibile per i missionari shintoisti che vennero distribuiti nel territorio nel 1870. Inoltre, i pensatori shintoisti si trovavano in disaccordo anche sulle domande fondamentali, come quali kami dovessero essere inclusi nel culto imperiale.
In più era chiaro dall’inizio che l’obiettivo di raggiungere coesione nazionale non sarebbe stata ottenibile eliminando il buddhismo. Già nel 1872 il Jingikan venne sostituito da un nuovo istituto chiamato Kyobusho, con il compito di diffondere il “Grande Insegnamento” giapponese, che rimaneva volontariamente neutrale. Si concentrava su tre punti:
- Rispettare i kami e amare il paese
- Osservare i “Principi del Paradiso e del Modo d’essere dell’Uomo”
- Mostrare servitudine verso l’imperatore e obbedienza al suo governo.
Questo messaggio consisteva di una combinazione di ideali confuciani e simbolismo giapponese, dove i santuari dovevano dare sostanza all’identità giapponese.
Quando la situazione politica cominciò a sistemarsi nel 1870, ci si cominciò a chiedere che ruolo il Grande Insegnamento dovesse avere. I gruppi buddhisti presto cominciarono a sentirsi a disagio con la campagna dominata dal culto dei kami, che non era mai stato parte della loro tradizione. Adottando il concetto occidentale di “religione,” discussero che lo Shinto non era mai stato e non sarebbe mai stato parte di quella categoria, e che i santuari non erano luoghi di religione ma di rituali, la cui partecipazione non era da tradursi come fede. In seguito a questo contrasto nato tra buddhismo e Shinto, il governo prese misure drastiche, e dal 1882 i sacerdoti dei santuari non poterono più partecipare ad attività “religiose”.
Dopo questo dibattito, l’interesse dello stato per i santuari diminuì drasticamente, a causa della scomparsa dell’urgenza dei primi anni Meiji, mentre il cristianesimo si era mostrato molto meno minaccioso di quanto ci si fosse aspettato.
Fu solo la guerra Sino-giapponese del 1894-5 e la guerra Russo-giapponese del 1904-5 che fecero sì che nascessero nuove possibilità. L’ondata di sicurezza ispirò entusiasmo patriottico, espresso in una forma di rituale che poneva i santuari al centro. Con la minaccia socialista che andava a ledere l’unità nazionale, lo Shinto divenne nuovamente oggetto degno di nota. Nel 1906 migliaia di piccoli santuari si fusero per mantenere un solo santuario in ogni comunità, che venivano usati per cerimonie nazionali e imperiali. Il piano di eliminare il supporto statale per i santuari venne abbandonato e venne introdotto un nuovo sistema finanziario, e la liturgia Shinto venne standardizzata per legge. Tutti questi cambiamenti ebbero un grande effetto sui santuari. Molti sparirono mentre ne nacquero di nuovi dedicati agli eroi nazionali. I santuari pre-Meiji che sopravvissero vennero spesso ristrutturati. Le tradizioni locali vennero perse e scambiate con procedure standardizzate scelte da Tokyo. Inoltre, i santuari persero le loro tradizionali forme di ricchezza e dovettero adattarsi a un nuovo contesto sociale.
La prima e la seconda categoria di riti svolti nei santuari sono prodotti di questo periodo di intensa modernizzazione che iniziò nel 1868.
Nel dicembre 1945, mesi dopo la resa giapponese, l’Occupazione promosse il Direttivo Shinto, che doveva porre fine alla perversione della teoria Shinto e al credo nella propaganda militaristica e ultranazionalistica. il Direttivo vietava tutte le forme di sostegno finanziario da fondi pubblici, mentre ai santuari veniva concesso di diventare organizzazioni religiose private. Nel febbraio 1946 i santuari vennero registrati come istituzioni giuridiche religiose e il NAS venne fondato.
Piuttosto che creare una rottura radicale con il passato, il NAS scelse di mantenere più elementi del culto di stato Meiji. Venne ripresa la posizione di leadership del santuario di Ise, e ad oggi l’organizzazione fa un grande sforzo per distribuire amuleti della divinità di Ise. I riti imperiali istituiti nel periodo Meiji hanno una posizione prominente nel calendario dei rituali dei santuari membri, proprio come prima della guerra. Inoltre, il NAS mantenne la visione Meiji dello Shinto come non-religione. Il NAS vede lo Shinto come un sistema di rituali “pubblici” aperto a tutti i membri della comunità indifferentemente dai loro credi “privati.” Dunque, se lo Shinto non funziona come religione, questo è dovuto principalmente a una scelta fatta dall’organizzazione stessa.
Invece, secondo la grande tradizione cristiana, che si rifà al monoteismo ebraico, Dio è unico ed è l’essere di tutte le cose.
Tommaso d’Acquino, il più grande teologo di tutti i tempi, in un piccolo trattato di logica e di metafisica, De ente et essentia, scritto a Parigi tra il 1252 e il 1256, dà alcune definizioni sull’ente e sull’essenza.
L’ente è ciò che è, affermazione che si compone di due elementi: “ciò” è l’essenza, “è” è l’atto di essere, cioè l’essere stesso. Tutti gli enti che cadono sotto la nostra conoscenza sono composti, cioè da essenza e da atto di essere, che è l’essere. Esistono anche enti privi di essere, come la chimera, che possiamo definire cosa sono (essenza, perché la definizione coincide con la essenza stessa) ma che sono enti privi di essere, non sono enti reali, li possiamo pensare ma non ci sono. Ordinariamente tutti gli enti sono reali, cioè dotati di esistenza (atto di essere).
Nel capitolo IV Tommaso dimostra l’esistenza di Dio per via di causalità. Questo teologo è famoso per le cinque vie, che appartengono ad un’opera della maturità, la Summa Theologiae, ma già nel De ente et essentia, la quale è un’opera giovanile, che Tommaso redige tra i 27 e i 29 anni, si occupa di questo tema.
Ogni ente composto è sempre causato da altro. Gli enti sono composti di essere e essenza: l’essere è l’atto, invece l’essenza sta all’essere come la potenza sta all’atto, perché l’essenza riceve l’atto d’essere in quanto è potenza all’atto d’essere. Una realtà definita può essere definita senza esistere necessariamente, possiamo definirne l’essenza, la definizione (quid est) senza che abbia l’essere, cioè senza che esista.
Ogni realtà composta è causata da altro perché non è possibile che l’atto d’essere sia causato dalla stessa essenza dell’ente, altrimenti quell’ente sarebbe causa di sé stesso, ed è assurdo in quanto l’ente sarebbe già in atto in quanto in potenza.
Quindi è necessario che l’ente composto riceva l’atto di essere da altro. Pertanto è necessario che ci sia un ente che sia causa di essere di tutti gli enti in quanto tale ente è solo essere. Se non ci fosse tale ente, si procederebbe all’infinito alla ricerca della causa dell’essere, fino all’assurdo di una realtà composta non causata. “Tutto ciò che conviene a una cosa o è causato dai principi della natura della cosa, come la capacità di ridere nell’uomo (dalla sua natura razionale), oppure deriva da un principio esterno, come la luce nell’aria è causata dall’influsso del sole. Ma non è possibile che lo stesso essere sia causato dalla stessa essenza di una cosa, perché così una cosa sarebbe causa di sé stessa e una cosa produrrebbe sé stessa nell’essere, che è impossibile. È quindi necessario che ogni cosa, che ha essere altro dalla sua essenza, abbia l’essere da un altro ente. E poiché tutto ciò che è lo è mediante un altro e è ricondotto a ciò che è di per sé la sua causa prima, è necessario che vi sia una realtà che sia causa dell’essere di tutte le cose, per il fatto che essa stessa è soltanto essere. Se così non fosse si andrebbe all’infinito nella ricerca delle cause, poiché ogni cosa che non è soltanto essere, ha la causa del suo essere. Questo primo ente è soltanto essere, e questo è la causa prima che è Dio”.
Anche le intelligenze, cioè gli angeli, ricevono l’essere da Dio, mentre Dio è l’essere senza alcuna aggiunta. L’essere completamente privo di qualsiasi composizione e potenzialità, che Tommaso chiama: ipsum esse per se subsistens.
Se Dio è essere, allora si può dire anche che tutto è Dio. Non esiste il mondo, esiste il mondo: sono parole fuorvianti, in quanto il mondo non c’è senza Dio. Detto in altre parole il mondo è Dio.
Pertanto anche la parola non è altro che una manifestazione di Dio. I libri sono tutti sacri in quanto ogni parola è sacra poiché teofania, manifestazione di Dio attraverso l’anima umana che scrive, la quale altro non è che una particella di Dio.
Questa concezione è evidente nella riflessione induista per la quale l’arte, quindi anche quella letteraria, serba una “essenza”, detta in sanscrito rasa, che può portare anche alla liberazione.
Un trattato anonimo islamico, che Corbin traduce, così recita: “Sappi che l’essenza eterna (haqīqat) del Corano è il Logos, o Verbo divino (Kalām-e Haqq), che permane con e attraverso l’Ipseità divina e ne è indissociabile, senza inizio e senza fine nell’eternità. Questo indica il versetto del Corano: Noi abbiamo fatto scendere il Monito (dhikr) e Noi ne siamo i custodi (15, 9). L’Essere divino enuncia un Unico che mai differisce, per quanto differiscano le lingue, i termini tecnici, i modi di espressione”.
Pertanto i testi sacri hanno un senso letterale, essoterico (le parole umane) e un senso spirituale, esoterico (la Parola divina e eterna). Secondo un noto Ḥadīth, il Corano ha un senso essoterico e un senso esoterico (ossia un zahr, un dorso, un’apparenza esteriore, il senso letterale, e un batn, una matrice, una profondità interiore, il senso nascosto o spirituale); a sua volta il senso esoterico ha un senso esoterico, così di seguito fino a sette sensi esoterici. In arabo abbiamo: Inna li’l-Qurān zahran wa batnan, wa li-batnihi batnan ilā sab’at abton.
Dio è l’Unico il quale è in cerca dell’uomo. Perché? In un senso più lineare, possiamo dire che Dio si sentiva solo e crea l’uomo per amore, per condividere con lui il suo amore e tutto quello che c’è. Invece secondo una visione più profonda, Dio e mondo sono la stessa cosa, quindi Dio ama sé stesso nell’uomo.
Per l’induismo il mondo è una illusione (māyā) ed esiste solo il Brahman, l’Assoluto. Per il cristianesimo Dio crea l’uomo come diverso da sé per poi però farlo diventare come Lui: soprattutto le chiese orientali pongono l’accento sulla divinizzazione dell’uomo.
Il Vangelo di Matteo presenta cinque discorsi di Gesù, che gli studiosi hanno paragonato ai cinque libri della Torah: il primo è il Discorso della Montagna (capitoli 5-7), quello missionario (capitolo 10), quello in parabole (13), quello comunitario (18) e quello escatologico (24).
Citiamo i primi versetti del capitolo 18 di Matteo:
“1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». 2 Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: 3 «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4 Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.
5 E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me.
6 Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. 7 Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!
8 Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. 9 E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco.
10 Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. 11 [È venuto infatti il Figlio dell’uomo a salvare ciò che era perduto].
12 Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? 13 Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. 14 Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli”.
In aramaico il sostantivo talja significa sia “bambino”, sia “servo”, sia “agnello”. Gli studiosi ritengono che il Gesù di Matteo, quando parla dei bambini, dei piccoli, si riferisca anche a sé stesso in quanto servo di Dio e agnello che dovrà morire in sacrificio per la salvezza del mondo. Nell’Antico Testamento la salvezza era ottenuta dal sacrificio di un agnello rivolto a Dio, adesso è Cristo il nuovo Agnello che muore per la salvezza del mondo intero.
In un ebreo che parlava aramaico come Gesù questa associazione era molto forte. Si parla dei piccoli, dei servi (gli apostoli) e di Lui che è venuto per servire e c’è anche un riferimento alla pecora perduta, allusione dell’agnello sacrificale.
Gesù sta salendo a Gerusalemme verso la croce e proprio per questo compare la associazione tra questi tre termini.
Nel capitolo 18 compare 5 volte il termine “uno” (chi accoglie UNO di questi piccoli … chi scandalizzerà UNO solo di questi piccoli … guardatevi dal disprezzare UNO solo di questi piccoli … cento pecore e UNA di loro si smarrisce … il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche UNO solo di questi piccoli). Gli studiosi ritengono che l’insistenza sull’uno abbia due facce. La preghiera più importante di Israele è lo Shemà, nel quale si declama in ebraico: shemà Israel YHWH ‘Elohenu, YHWH ‘echad, che tradotto vuol dire “ascolta Israele, YHWH è il nostro Dio, YHWH è uno solo (‘echad)”. Cristo vuole intendere a tutta prima che Egli è Iddio, l’Unico Creatore. Dall’altra parte vuole associare alla propria unicità gli uomini da lui creati, identificandosi con i piccoli. Dio e uomini sono o diventano la stessa cosa.
Con la risurrezione della carne alla fine dei tempi avremo da Cristo un corpo glorioso e Dio sarà tutto in tutti. Già nell’Antico Testamento compare la risurrezione della carne. 2Maccabei 7: i martiri ebrei offrono il proprio corpo a Dio perché poi sarà risuscitato alla fine dei tempi (“Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re del mondo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna” … “Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da Lui spero di riaverle di nuovo”, kai par’autou tauta palin elpizō komisasthai). È significativo che nel targum (traduzione aramaica della Bibbia ebraica) Ismaele (circonciso a 13 anni) si vanta contro Isacco (circonciso all’ottavo giorno) perché ha offerto volontariamente il membro per essere consacrato mentre Isacco non era cosciente; però Isacco risponde: Se adesso Dio chiedesse a me, che ho 37 anni, tutte le membra, io non esiterei a donargliele. La Genesi racconta che Abramo tentò di sacrificare Isacco ma poi Dio glielo impedì. Secondo la tradizione ebraica, Isacco era un adulto, aveva 37 anni, quindi si offrì volontariamente al sacrificio, ciò che viene detto dall’ebraismo ‘aqedah, termine derivato dall’espressione ebraica Abramo “legò” (wajj’aqod) Isacco (Genesi 22, 9). E la tradizione ebraica dice che per questo gesto Isacco vide la gloria di Dio: offrire la vita a Dio non significa annullarla ma salvarla, fino alla risurrezione dei giusti nella Gloria di Dio alla fine dei tempi.
Gesù parla dello scandalizzare. Il termine greco è poco usato nel greco classico, ma molto presente nella traduzione greca della Bibbia ebraica detta Septuaginta. Lo “scandalo” in greco è una pietra di inciampo, una trappola, traduce spesso l’ebraico mikschol, “trappola”, dalla radice semitica del “fallire”. Quindi Gesù ammonisce dall’essere una pietra di inciampo, un bastone tra le ruote dei “piccoli” tanto da farli fallire nel raggiungimento della salvezza, facendoli cioè sprofondare nel peccato.
Chi sono questi “piccoli”? In senso esteso sono i bambini, ma anche i poveri e i malati, che sono piccoli come bambini, fragili, oggetto di terribili ingiustizie. Ma il vangelo va più in profondità: i piccoli sono coloro che credono in Gesù in quanto chiamati a subire la croce. In senso ancora più stretto, nel vangelo i piccoli sono gli apostoli, che andavano nel mondo come poveri e perseguitati, pensiamo a Paolo.
Il testo di Matteo è molto pregnante. Nel riferimento ai piccoli, Gesù sta parlando sia dei bambini sia dei “piccoli che credono in me”, quindi dei cristiani e soprattutto degli apostoli. Allora Gesù vuole dire anche che bisogna guardarsi dal far fallire gli apostoli, cioè bloccandoli dalla loro missione, in quanto sono inviati di Dio, sono i suoi servi, e allora Dio ha cura di loro. Certamente sta parlando anche di sé stesso, che è l’Inviato per eccellenza di Dio Padre, il Servo per eccellenza. Gesù, l’Uomo Dio sceso in terra, si sta identificando con gli uomini e soprattutto con i piccoli.
“8 Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. 9 E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco”. Questi versetti richiamano un passo del Talmud, trattato Berakot.
C’è un importante passo della Bibbia (Siracide 32, 15): “Chi indaga la Torah ne sarà appagato, ma l’ipocrita vi troverà motivo di scandalo”. Quindi anche le cose buone possono far fallire una persona. Dio confonde i superbi. In greco lo “scandalo” non è il nostro scandalo morale, ma una trappola, una tentazione, una prova. Anche Gesù è detto Pietra di inciampo (1Pietro 2). Perché? Perché le cose buone possono essere prove, se il cuore non è puro. L’arrogante non trova nella Bibbia e in Dio una occasione per elevarsi ma un mezzo per strumentalizzare tutto per i propri scopi reconditi e malsani.
Alla fine dei tempi solo i giusti saranno integrati nella divinità assoluta anche con la risurrezione della carne, invece gli increduli, che hanno trovato in Cristo motivo di fallimento, saranno condannati alla dannazione eterna anche con il loro corpo in una risurrezione di condanna.
Dio si identifica solamente con i giusti, gli altri sono semplicemente immagine del demonio.
Dio è eterno e infinito e vuole donare a chi crede in Lui la partecipazione alla sua divinità. Data l’immensità incommensurabile di Dio, non finiremo mai di amarlo e quindi di identificarci con Lui e pertanto di salire di grado nella felicità, senza alcun limite. Il poeta Novalis (1772-1801), protestante pietista, forse l’incarnazione più pura del Romanticismo tedesco e europeo, così cantava:
“Non abbastanza intimo né autentico
è il connubio con l’Amato”,
Nicht innig, nicht eigen genug
kann sie haben den Geliebten.
(Canti spirituali, VII).
In sé stesso Dio è amore (1Giovanni 4, 8), ma non è solo misericordia bensì anche giustizia. Dio vuole che l’uomo sia libero di amarlo veramente, quindi lo lascia in grado di scegliere o rifiutare il suo progetto di amore. Dio prende tremendamente sul serio la libertà umana prevedendo anche il possibile rifiuto di Dio da parte del peccatore. Per questo i santi dicono che Dio non manda nessuno all’inferno, è l’uomo che si autocondanna all’esclusione definitiva da Dio, che si compie dopo la morte, poiché non vuole accettare Dio. E, secondo alcune linee esegetiche, a ben guardare, la Bibbia lo afferma chiaramente. “Forse che io ho piacere della morte del malvagio, o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?” (Ezechiele 18, 23). Anche il Corano (39, 53): “Non disperate della misericordia di Dio. Sì, Dio perdona tutti i peccati, perché Lui è il perdonatore, il misericordioso”.
Allora da dove proviene il male e il dolore, il “castigo”? Ognuno di noi è creato in Cristo e in vista di Cristo (Colossesi 1,16-17), questa è la legge espressa nella natura delle cose e dell’uomo e formalizzata nella legge morale della chiesa, quindi chi si allontana dalla virtù cristiana, cioè pecca, trasgredisce la legge di natura con le conseguenze nefaste che ne derivano. “La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio” (Geremia 2,19). È vero che nella Bibbia emergono immagini violente, come se Dio punisse direttamente l’uomo (“Bene e male, vita e morte, tutto proviene da Dio”, Siracide 11,14), ma derivano dalla mentalità olistica semitica, la quale pone tutto sotto la stessa luce, mentre in mezzo c’è la libertà dell’uomo, che può scegliere tra bene e male, e se preferisce il male va incontro alle conseguenze nocive che derivano dallo squilibrio delle energie cosmiche.
Non per nulla Gesù Cristo, messo dagli uomini in croce, grida “Padre, perdona loro perché non sanno ciò che fanno” (Luca 23, 34), che nell’originale greco suona: pater, afes autois, ou gar oidasin ti poiousin. Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo: è del tutto simile agli uomini tranne nel peccato (Ebrei 4, 15). Tuttavia Dio Padre lo ha caricato di tutto il peccato del mondo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore” (2Corinzi 5, 21). Egli, stando sul punto di morire in nostro favore, mentre sperimenta il peso totale dell’essere uomo pur non avendone colpa, non maledice, non giudica e neppure perdona, ma chiede il perdono dei carnefici a Dio Padre, intercedendo per loro, come il Servo di YHWH cantato da Isaia 53, 12 (“Portava su di sé il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”). Cristo sulla croce si spoglia di tutto, anche delle prerogative divine, che pure si era attribuito quando perdonava il paralitico peccatore (Luca 5, 21: “Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi”). Cosa è il perdono se non un estremo atto di amore verso i peccatori pentiti? In effetti Paolo per dire “perdonare” predilige un altro verbo greco, che è charizomai, dal greco charis, “grazia”, che traduce il sostantivo ebraico chesed, la “misericordia” di Dio nei confronti degli esseri umani.
Romani 5, 8: “Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo, sunistēsin de tēn eautou agapēn eis ēmas o theos: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”. È da osservare che questo versetto richiama 3, 5, ove Paolo ha detto che “la nostra ingiustizia dimostra la giustizia di Dio”. Tale accostamento vuol dire che, se da una parte peccato e ingiustizia si equivalgono, dall’altra la giustizia di Dio e il suo amore (agapē) si corrispondono. In effetti in 3, 24-26 Paolo dice: “Ma (tutti) sono gratuitamente giustificati per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù. Lui ha Dio preordinato per far l’espiazione mediante la fede nel suo sangue, per dimostrare così la sua giustizia per il perdono dei peccati, che sono stati precedentemente commessi durante il tempo della pazienza di Dio, per manifestare la sua giustizia nel tempo presente, affinché egli sia giusto e giustificatore di colui che ha la fede di Gesù”. La giustizia di Dio coincide con il suo amore misericordioso verso l’uomo. A questo punto non è il Dio cristiano che condanna, come potrebbe fare Allah, la cui giustizia è diversa dalla misericordia, ma la punizione è una conseguenza delle azioni nefaste dell’uomo.
C’è uno splendido passo del libro della Sapienza al capitolo 19, versetto 18, nel quale il sapiente cerca di spiegare l’esodo degli ebrei dall’Egitto: il premio di Dio verso gli israeliti tratti in salvo e il castigo di Dio verso gli egiziani che affogano nell’acqua. “Difatti gli elementi scambiavano ordine fra loro, come le note di un’arpa variano la specie del ritmo, pur conservando sempre lo stesso tono. E proprio questo si può dedurre dalla attenta considerazione degli avvenimenti”.
In uno strumento a corda come l’arpa, le note sono sempre uguali nel loro suono, ma la musica (la melodia) è diversa se si cambiano il ritmo e la sequenza delle note. Dio, per punire o per premiare, non ha dovuto aggiungere all’arpa della creazione corde nuove, cioè animali o fenomeni naturali nuovi, ma ha messo in azione le creature esistenti, facendole agire in maniera diversa.
L’esodo diventa così il racconto di un’arpa che dà musica diversa, pur con le stesse corde, cioè la natura i cui elementi (sempre gli stessi) sono usati in modo prodigioso: gli israeliti entrano nel mare asciutto, ma i cavalli e i cavalieri degli egiziani sono travolti dalle acque (la musica è cambiata).
Infatti Scarpat intende la parola greca ruthmos non come il nostro “ritmo” (una canzone che ha ritmo quattro quarti oppure tre quarti) ma in maniera più estesa, cioè come “forma musicale”, vale a dire la melodia. Scarpat chiama a sostegno Erodoto 5, 58, 1, ove lo storico greco informa che “mutarono la forma delle lettere” (metebalon kai ton ruthmon tōn grammatōn). Questa interpretazione di Scarpat del passo della Sapienza è confermata anche Platone (Repubblica 397 b): “se uno dà al discorso l’armonia e la melodia convenienti” (ean tis apodidōi prepousan armonian kai ruthmon tēi lexei).
Il Salmo 36, indicato da Tertulliano come “specchio della provvidenza”, è uno splendido inno che rincuora chi spera nel Signore, invitandolo a non adirarsi se l’empio sembra avere successo, in quanto il peccatore andrà presto incontro alla rovina:
“5 Manifesta al Signore la tua via,
confida in lui: compirà la sua opera;
6 farà brillare come luce la tua giustizia,
come il meriggio il tuo diritto.
7 Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui;
non irritarti per chi ha successo,
per l’uomo che trama insidie”.
Chi ha totale “fiducia” (btḥ) in Dio e segue le leggi del Signore, si affida alla provvidenza divina che dirige la storia, quindi si compie in lui l’opera di Dio, che vuole la salvezza dell’uomo. Il riferimento al brillare probabilmente si giustifica con il fatto che nella tradizione cultuale l’esaudimento di Dio della richiesta del giusto avviene all’alba attraverso un oracolo sacerdotale (Salmo 101, 8: “Veglio e gemo come uccello solitario sopra un tetto” in attesa che Dio accetti la mia invocazione).
Di fronte alla volontà di Dio, bisogna rispondere come Maria “Ecco la serva del Signore; avvenga a me secondo la tua parola, rēma” (Luca 1, 38), che nell’originale greco suona: idou ē doulē kuriou; genoito moi kata to rēma sou. È la scena dell’Annunciazione, quando l’arcangelo Gabriele si presenta alla allora sconosciuta fanciulla ebrea di Nazaret, un paesino sconosciuto della Giudea dominata dai romani, e le dice che diventerà la madre di Cristo. Maria non sa spiegarsi come e perché ma risponde che sia fatta la volontà superiore.
La provvidenza non è altro che la azione di Dio che “provvede” a tutte le necessità dei suoi piccoli. Matteo 6: “25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.
L’originale greco di Luca della risposta di Maria, la madre verginale di Cristo per opera dello Spirito Santo, serba il termine greco rēma, che non indica solo una espressione verbale ma altresì un “atto”, traducendo il sostantivo ebraico dabar, “parola”, “azione”, “progetto”: è una sfumatura per indicare come l’annunzio angelico sia efficace, vera e propria promessa divina. Il termine greco era risuonato già nell’ultima frase dell’angelo: pan rēma, “nessuna realtà/fatto/parola è impossibile a Dio” (Luca 1, 37).
Maria inoltre si definisce “serva del Signore”, che riecheggia la figura biblica del ‘ebed-YHWH, espressione ebraica che significa Servo di Dio, un titolo glorioso, che spetta a Mosè, Giosuè, Davide, i profeti, coloro che fanno la volontà di Dio e così facendo incidono significativamente nella storia. Anche Isaia 53 parla del Servo di YHWH, un personaggio misterioso che redimerà Israele, che il Nuovo Testamento interpreta in chiave cristologica. Cristo è venuto nel mondo “non per essere servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Matteo 20, 28). Nei Testi delle Piramidi, redatti sulle pareti delle piramidi dell’antico Egitto, Osiride viene definito mediante l’altisonante titolo di Servo dell’Enneade.
Ma ogni cristiano è come Maria, un servo di Dio. Ogni battezzato ha la dignità di re, sacerdote e profeta, esattamente come Cristo. Il battezzato è sacerdote in quanto può intercedere per i fratelli mediante la preghiera comunitaria e personale (offrire una Messa, recitare un Rosario a favore di qualcuno). È profeta in quanto è immagine di Cristo, alter Christus (Tertulliano), quindi Cristo si manifesta in lui, pertanto il cristiano può essere portavoce di Cristo, diviene abilitato ad annunciare il vangelo. Il battezzato è anche re in quanto, mediante il sacerdozio e il profetismo, può contribuire a instaurare il Regno di Dio nei cuori delle persone, a cominciare dal proprio, vincendo le passioni mondane e vivendo per Cristo.
Cristo esercita la propria regalità nel servizio. I re sono esaltati e onorati mediante un prestigio umano. Cristo invece è un re che dice: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Giovanni 12, 32). È quindi nell’innalzamento mediante la croce che Cristo viene esaltato. È nel dare la sua vita in riscatto per molti che esercita la sua funzione regale. E per Cristo il morire per gli uomini è fare la volontà del Padre.
Aderendo fino in fondo alla volontà di Dio, ogni cristiano esercita il servizio a Dio diventando strumento di salvezza per il mondo intero mediante la preghiera, la parola e le opere.
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Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 51 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.