Redazione-Il pane è da molti considerato come una conquista dell’uomo che è riuscito con la tecnica a trasformare un prodotto della terra non commestibile (grano) in uno edibile. Ogni gruppo sociale ha accordato a tale alimento un significato differente, ma tutti concordano nel sottolineare la sua importanza: che si parli di pane come cibo e quindi come sinonimo di sostentamento e di vita o di pane come simbolo e «arte effimera» (Cirese, 1977), esso racchiude sempre «una imponderabile potenza sacra» (Di Meo, 2009:15). Un esempio della rilevanza simbolica che viene associata al pane ci è fornita dal mondo cattolico che utilizza l’espressione ‘’pane della vita’’ in riferimento al Cristo eucaristico la cui essenza viene ritenuta presente nell’ostia sacra. In questo caso il pane è quindi considerato un nutrimento spirituale piuttosto che un alimento nel senso classico del termine (ovvero di un cibo che sfama gli appetiti dello stomaco) (Chevalier, Gheerbrant, 1986).
Il grano, ingrediente principale nella panificazione e simbolo di fertilità per molte civiltà, è un cereale la cui domesticazione, secondo il parere degli archeologi, risale a tempi antichissimi difficilmente collocabili nel tempo. La coltura del grano secondo molti studiosi, primo fra tutti James Henry Breasted, si sarebbe concentrata originariamente in Mesopotamia e in Egitto, nella regione geografica nota come mezzaluna fertile, grazie ad un clima particolarmente favorevole. È in questa area, la “culla della civiltà”, che ebbe origine la civiltà del grano sotto la quale si verificò il passaggio dal Neolitico all’età dei metalli (del rame, del bronzo e del ferro). Tale mutamento ebbe luogo grazie allo sviluppo di un sistema di irrigazione dei campi di grano che incoraggiò la vita sedentaria e quindi la formazione di nuclei sociali umani sempre più complessi (dai villaggi alle formazioni statuali). Questa tipologia di coltivazione si diffuse poi in gran parte del globo terrestre e in particolare in tutta l’area del Mediterraneo occupando una funzione rilevante nello sviluppo economico e sociale. In poche parole al grano si deve in un certo senso la civilizzazione dell’umanità.
La mitologia di molti popoli rispecchia la portata di tale innovazione e la scia di novità che si è portata dietro. Stando alla storia sacra di parecchie comunità, infatti, il grano risulta un prodotto introdotto grazie alla generosità di una divinità che ne avrebbe fatto dono all’uomo allo scopo di civilizzarlo. Così in Egitto l’emblema del dio Osiride è un chicco di grano, in Grecia «la perennità delle stagioni, il ritorno delle messi e l’alternanza della morte del chicco e della sua resurrezione in altri chicchi» (Chevalier, Gheerbrant, 1986) viene incarnata dalla figura di Demetra che trova la sua corrispondente romana in Cerere. Anche il mondo cristiano, rifacendosi alla tradizione pagana, si avvale del grano come metafora simbolica attraverso cui riferirsi alla morte e resurrezione di Cristo: infatti, così come il chicco di grano ogni anno sembra perire in inverno per poi germogliare in primavera, così il corpo di Gesù muore per poi risorgere in quella che si potrebbe definire una primavera simbolica e mistica che ha vinto l’inverno spirituale al quale era precedentemente costretta l’umanità (Chevalier, Gheerbrant, 1986). Il pane è stato ed è tuttora riconosciuto in molti casi non solo come una risorsa indispensabile, ma anche come simbolo della vita stessa e per questo «donare e/o ricevere un pane rituale non è un gesto banale, è un atto cosmico» (Di Meo, 2009:9). All’interno della sua opera Il ramo d’oro Frazer analizza in dettaglio le manifestazioni folkloriche legate al grano spesso associate al culto della dea madre. Lo studioso inglese sottolinea come in molte comunità si riteneva che lo spirito del grano si incarnasse in alcuni animali quali il cavallo, il maiale, la volpe, il gatto, la vacca, la capra, l’oca, il gallo.
Quanto appena detto appare particolarmente interessante se si considera che la maggior parte dei pani devozionali che si realizzano ancora oggi all’interno di contesti festivi cristiani nell’area mediterranea e in particolar modo nel territorio italiano raffigurano tali animali (e in particolare il cavallo e il gallo) e la bambolina (dea madre, appunto). Queste figure sono pregne di significati simbolici che sembrano rimandare al principio maschile e a quello femminile e quindi allo spirito del grano nel primo caso e alla dea madre nel secondo. Sono entrambi accomunati dal fatto di essere portatori di un messaggio di fertilità e abbondanza reso evidente dall’idea di virilità accostata al cavallo e dal seno sporgente e ventre rigonfio della bambola (o pupa) che è allo stesso tempo madre (fecondità) e bambina (frutto della fertilità). La briglia e il morso del cavallo e la veste pudica della bambola suggeriscono però anche la volontà da parte della comunità di creare un apparato simbolico e comportamentale in grado di propiziare e contenere le forze creatrici del gruppo che, se non controllate, porterebbero ad un disordine sociale dannoso che si vuole evitare. Infatti tali forze generative, considerate allo stesso tempo importanti per la riproduzione sociale della comunità e fonte probabile di pericolose sregolatezze, vengono propiziate da ogni membro del gruppo con azioni rituali e quotidiane rigorosamente dettate da un codice morale appositamente elaborato e riconosciuto dalla collettività stessa.
Bambole e cavalli sono dolci che ritroviamo poi anche in Abruzzo dove in passato assumevano una duplice finalità: i fidanzati usavano scambiarsi tali dolci durante una sontuosa cerimonia che aveva luogo sotto la festività di Pasqua come segno di fertilità; i bambini, invece, nella stessa occasione consumavano tali biscotti che venivano loro regalati con intenti propiziatori. Si potrebbe ipotizzare un collegamento tra l’uovo sodo sorretto da due strisce di pasta incrociata posto al centro del biscotto e la Resurrezione del Cristo. L’uovo, infatti, ha indicato in varie culture del passato (Celti, Greci, Egiziani, Fenici, Cananei, Tibetani, Indù, Vietnamiti, Cinesi, Giapponesi, popolazioni siberiane, indonesiane e molte altre) e continua ad indicare tuttora in alcune realtà di interesse etnologico (i Dogon e i Bambara del Mali, solo per dirne alcuni) la genesi del mondo e dell’uomo che la cristianità associa alla figura di Gesù, ma anche la rinascita cosmica che si ripete ciclicamente (rinnovamento periodico della natura) (Chevalier, Gheerbrant, 1986). Non è quindi un caso che tali dolci biscottati vengano panificati proprio nel periodo pasquale in cui si concentrano maggiormente le forze ri-generatrici dell’universo. Biscotti simili vengono panificati nella stessa occasione liturgica della Pasqua in Calabria (dove prendono il nome di mustaccioli), in Sicilia e Basilicata. Anche il Lazio può vantare una certa concentrazione di comuni in cui ancora oggi vi è la consuetudine di confezionare pupe e cavalli. È quanto accade a Frascati e a Tivoli; nel primo caso ci troviamo ad osservare la ‘’pupazza frascatana’’ la cui peculiarità risiede nella presenza di tre seni. A Tivoli e in vari paesi sparsi in tutta l’area della valle dell’Aniene invece vi era o vi è ancora la consuetudine di panificare in occasione della Pasqua dolci devozionali da regalare ai bambini in segno di buon auspicio.
Eccezione a tale ‘regola’ temporale che vede la Pasqua come principale momento di panificazione devozionale di pupe e cavalli è il piccolo paese altoviterbese di Onano dove tali biscotti vengono realizzati il 14 Agosto in occasione della vigilia della Vergine Assunta che coincide con l’inizio del nuovo anno agricolo. In questo caso risulta assai difficile resistere alla tentazione di assimilare la figura della Madonna, la cui statua viene portata in processione accompagnata dai bambini che sfilano con pupe e cavalli, alla Dea Madre protettrice dei campi e del raccolto (Mancini, 2006).
Particolarmente interessante risulta la panificazione devozionale nell’area sarda, a lungo studiata da Alberto Mario Cirese che la definì «arte effimera» (Cirese, 1977). Si servì del termine ‘’arte’’ in quanto in molti casi i pani rituali sono assai elaborati ed esteticamente apprezzabili, e dell’aggettivo ‘’effimera’’ poiché le sculture di pasta vengono realizzate con materiali deperibili. Lo stesso Cirese afferma che «I pani prima d’essere materia plastica sono innanzitutto e soprattutto materia alimentare […] modellandola dunque le si aggiunge qualcosa di diverso […] il valore di “segno”, per cui il pane che di norma deve essere soltanto “buono da mangiare” diventa anche “buono a comunicare” » (Cirese, 1977:91).
Il pane diventa quindi bifunzionale in quanto è un alimento che appartiene alla quotidianità ma che è anche un segno legato alla dimensione festiva. Essenziale per distinguere il pane festivo (pane-segno) dal pane quotidiano (pane-cibo) sembra essere la forma con cui viene modellata la pasta. Il primo infatti a differenza del secondo presenta un canone simbolico e figurativo fisso al quale si aggiunge, entro alcuni limiti, una certa libertà creativa.
L’alimento che potrebbe sembrare il più semplice, il pane, cela quindi in realtà una complessa simbologia in quanto «rappresenta un elemento interessante di congiunzione fra terra, acqua e fuoco […] intorno al quale, non a caso […] si concentravano leggende, tradizioni, riti e cultualità» (Niccolai, 2006:224). Il pane è infatti il risultato di un dono celeste (grano) e dell’impegno dell’uomo che, come un moderno demiurgo, plasma e trasforma la grezza e non commestibile materia prima in un prodotto culturale “buono da mangiare” che racchiude millenni di storia.