Redazione- Nella prima parte di questa riflessione ho esaminato e riferito sui campi di concentramento in Abruzzo. In questa seconda parte mi occupo dei luoghi di confino ,in particolare nella provincia aquilana, a cui il regime fascista sottoponeva gli oppositori .
Si tratta qui di Navelli ,Pizzoli, Scanno, Montereale . Il regime fascista , dopo il fallito attentato a Mussolini avvenuto il 31 ottobre 1926 a Bologna con il Regio Decreto n. 1848 del 6 novembre dello stesso anno,intese dare una risposta forte istituendo il confino di polizia, misura di carattere politico-amministrativo.
Il confino si applicava a chiunque fosse ritenuto pericoloso s’intende per il regime e consisteva nell’allontanare il reo dalla sua abitazione e destinarlo ad una località sperdute dell’Italia centro meridionale. Subivano il confino anche ebrei, pregiudicati per reati comuni, individui sospettati di spionaggio e di attività antinazionale, omosessuali, Testimoni di Geova.
Dal 1926 al 1943 i confinati politici furono circa 10 mila; quelli ritenuti più pericolosi venivano inviati prevalentemente nelle colonie di confino delle Isole di Lampedusa, Favignana, Ustica, Lipari, Ponza, Tremiti e Ventotene.
In queste ultime tre colonie a partire dal 1930 fu inviata la maggior parte degli antifascisti recidivi da sottoporre a speciale sorveglianza ,ulteriore restrizione istituita in seguito all’evasione dei fratelli Rosselli, di Lussu e Nitti da Lipari.
Furono luoghi di soggiorno anche altre località della Calabria, della Basilicata e dell’Abruzzo che ospitarono il maggior numero di quelli ritenuti meno pericolosi .
Nel 1939 fu istituita la prima colonia di lavoro in terra ferma a Pisticci, in provincia di Matera, dove il regime impose il recupero dei confinati antifascisti attraverso il lavoro.
L’assegnazione al confino veniva decisa da apposite Commissioni provinciali che, secondo la legge, potevano infliggere una pena che andava da 1 a 5 anni; ma le autorità fasciste raramente rispettarono questi termini, e in molti casi ai condannati veniva automaticamente rinnovata la pena.
Confinati illustri come Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Luigi Longo, Pietro Secchia, Mauro Scoccimarro (comunisti); Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Ferruccio Parri (azionisti);Sandro Pertini i (socialista), Cencio Baldazzi (repubblicano); Tullio Benedetti (liberale); Spartaco Stagnetti, Giovanni Battista Domaschi (anarchici). E località storiche come Ventotene dove fu ideato il manifesto per la istituzione dell’Europa unita.
Il confino dunque per rafforzare la dittatura e colpire lo Stato di diritto comminato senza una vera imputazione e un giusto processo
Ma non fu una misura ideata e scoperta dal regime fascista . Fu per contrastere il brigantaggio che nel 1863 fu introdotta per la prima volta la misura del confino con la “legge Pica” – dal nome del suo ideatore – una legge speciale che introduceva, insieme ad altre misure drastiche, l’obbligo di domicilio coatto in una determinata località per soggetti sospettati di pericolosità per l’ordine pubblico.
Le misure più arbitrarie della legge Pica furono attenuate con il codice Zanardelli che pur confermando lapena del domicilio coatto dava maggiori garanzie legali a quanti venivano colpiti da questo provvedimento potendo essere giudicati da una serie di organi giudiziari e non soltanto in base al semplice sospetto di pericolosità per l’ordine pubblico.
Con le “Leggi fascistissime” del 1926, oltre alla chiusura dei partiti e della stampa ostili al regime, viene creato il “Tribunale speciale per la difesa dello Stato”, un organo straordinario incaricato di imputare e condannare quanti ritenuti pericolosi per la propria attività politica contraria alla dittatura. Viene come ricordavo viene varato una nuova legge sulla pubblica sicurezza, che modificava in maniera sostanziale l’istituto del confinamento.Il nuovo testo a opera del Ministro dell’interno Federzoni, modificando le leggi del periodo liberale, introduce il “confino di polizia”: il nuovo strumento era esplicitamente pensato per colpire preventivamente quanti ritenuti predisposti o sospetti di attività politica contraria alla dittatura.
Complessivamente, gli inviati al confino tra 1926 e 1943 sono 12.330; 177 confinati politici antifascisti moriranno durante il periodo di isolamento. ( 1)
Era severamente vietato possedere un mazzo di carte, andare al cinema o a teatro, frequentare bar e ristoranti, entrare in chiesa senza autorizzazione, cercare di comunicare di nascosto per via epistolare, parlare una lingua straniera, spedire più di una lettera a settimana, avere in tasca più di £100 e parlare o commentare eventi politici e fatti d’attualità.
Nicola Ianuale scrive su vanilla magazine .it “ll confinato non era un prigioniero sottoposto a regime carcerario, ma veniva costantemente sorvegliato. Non tutti i luoghi gli erano accessibili e gli spostamenti erano permessi solo sotto scorta e a determinati orari. Per il loro sostentamento, lo stato gli riconosceva una piccola somma di denaro, “la mazzetta”. Ovviamente, era una cifra irrisoria, che non bastava a un dignitoso tenore di vita e, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu addirittura dimezzata. Sandro Pertini, partigiano e futuro presidente della Repubblica, detenuto prima a Ponza e poi a Ventotene, raccontò che i confinati erano soliti far fronte comune e unire le loro finanze per garantirsi pasti collettivi migliori di quelli che avrebbero ottenuto individualmente.
Tra i luoghi di confino più famosi si annoverano Ponza, in provincia di Latina, dove giungevano solo gli elementi ritenuti più pericolosi, Pisticci, in provincia di Matera, e Ventotene, sempre in provincia di Latina. In particolare, quest’ultimi due esempi rappresentavano un caso isolato nella storia della repressione fascista. La colonia di Pisticci era unica nel suo genere perché, a differenza delle altre, il regime scelse di rieducare i detenuti attraverso il lavoro. La zona aveva grandi paludi malariche e dal 1938 le autorità costrinsero i confinati a eseguire dei lavori di bonifica che portarono alla sanificazione di circa 750 ettari di terreno. L’attività di confino sull’isola di Ventotene, invece, ebbe inizio nel 1930. Il regime la scelse per le sue dimensioni ridotte e per la scarsa accessibilità delle coste. A seguito della fuga di tre prigionieri nel 1929, le alte sfere fasciste avevano chiuso Lipari per motivi di sicurezza e necessitavano di un nuovo luogo in grado di ospitare alcuni dei soggetti più invisi al Duce. Ventotene assunse un ruolo di rilievo soltanto nel 1939, quando Arturo Bocchini, il capo della polizia dell’isola, ideò una colonia di confino a tutti gli effetti e ordinò la costruzione di una cittadella confinaria, munita di una caserma autonoma e di dodici padiglioni per i prigionieri. Ogni padiglione era a sua volta ripartito in due camerate con venticinque brande allineate in due file opposte e bagni in comune. La struttura aveva a disposizione numerose mense, la cui suddivisione andava per appartenenza politica. Ad esempio, c’era quella adibita ai socialisti, due erano per gli anarchici e sette per i comunisti, il gruppo più numeroso. A differenza degli altri luoghi di confino, l’isola prevedeva un sistema più vincolante per quello che concerneva la libertà dei prigionieri. Dalle 21 alle 6 in estate e dalle 18 alle 7 in inverno, le guardie sprangavano tutte le porte e staccavano l’elettricità. Il confinato poteva passeggiare per l’isola, ma solo in un determinato percorso del centro delineato da cartelli e filo spinato. Inoltre, era severamente vietato relazionarsi con gli isolani, entrare in locali pubblici, se non per un brevissimo lasso di tempo, parlare di politica, ascoltare la radio e scrivere. In quest’ultimo caso, l’unica concessione era una sola lettera a settimana di massimo ventiquattro righe. (2 )
“I contadini qui sono meravigliosi. Sebbene nessuno abbia detto nulla, cominciano a portare forme di formaggio o pezzi di pane o uova, e presentano tutto con un fare imbarazzato, come se si vergognassero”. Così – come ricorda Mario Setta in occasione di una recente edizione della Giornata della Memoria – scriveva nel suo diario Luigi Fleischmann, un ragazzo ebreo nelle retrovie, raccontando il confino a Navelli, insieme alla famiglia. Un diario che poi sarebbe diventato un libro della Giuntina
Il regime fascista, evidentemente, considerava le montagne abruzzesi una sorta di galera a cielo aperto, nel quale l’isolamento era naturale e inevitabile per coloro che venivano mandati al confino o nei campi di internamento “diffusi”. Paradossalmente, però, proprio nei luoghi più duri e impervi, gli stessi trovavano un’accoglienza e un calore insperati. “Navelli – scriveva Fleischmann – si può trovare facilmente su una buona carta dell’Abruzzo. È un paese di più o meno duemila abitanti e nella forma non è molto differente dagli altri villaggi di montagna dell’Appennino centrale: si arrampica su di una collina e finisce in cima con il solito castello. […] la nostra colonia di internati è variamente composta: siamo tre famiglie di ebrei: Fleischmann, Degen e Billig, una famiglia di inglesi, Osmo-Morris, altre due signore inglesi, e un paio di confinati politici, come Giordano Bruno, un toscano ex-combattente di Spagna, e uno slavo, Dussan. Sono già più di tre anni, da quel 19 giugno 1940 quando, alle quattro di mattina, vennero i neri con le baionette inastate, a portarlo via. E da allora papà è passato da un campo di concentramento all’altro: dalla reclusione a Fiume, portato via con altri trecento ebrei come un delinquente”.
A Pizzoli invece c’erano i Ginzburg, Leone e Natalia, con i figli Carlo e Andrea, una presenza fondamentale per la formazione politica del parlamentare e storico sindaco Vittorio Giorgi: “Trascorrevamo lunghe serate a discutere della guerra e delle sue terribili conseguenze. Parlavamo del fascismo e dell’antifascismo ma discutevamo anche di altro. In verità a parlare era quasi sempre lui, Leone. Io ascoltavo e cercavo di memorizzare… A volte tra me e me dicevo: ma come è possibile che persone di questo livello culturale e politico si attardano a parlare con uno come me che ha fatto appena la quinta elementare? Nei confronti dei Ginzburg scattò un sentimento di grande simpatia […] Il rapporto con lui e con Natalia fu sempre intenso”. I Ginzburg rimasero legati al piccolo centro dell’Alto Aterno, Natalia – dopo la morte di Leone – tornò in più di un’occasione a Pizzoli, che ha una ricca biblioteca intitolata proprio alla illustre famiglia ebrea confinata dal regime fascista.
“Giunsi in questo paese, dopo l’8 settembre 1943 quasi per caso, e il caso si impersonò nell’amico Nino Quaglione. Vi giunsi dopo aver provato, come tanti giovani militari, l’amarezza della dissoluzione dell’esercito, l’umiliazione della disfatta, la rabbia perché non ci era stato dato modo di reagire”. Così invece, sempre dalla ricerca di Setta, Carlo Anzeglio Ciampi, che diventerà Presidente della Repubblica, parlando di Scanno. “Nel silenzio di queste montagne, si avviò un dialogo, una riflessione in primo luogo all’interno di noi stessi, con le nostre coscienze. Ci ponevamo la domanda sul come ritrovare il fondamento del vivere civile. Riconquistammo la serenità nei nostri animi a mano a mano che acquisimmo la consapevolezza intima dei valori alla base della vita di una collettività: in primo luogo la libertà, interpretata e applicata nel quadro del vivere in comune, il rispetto cioè della libertà e dei diritti degli altri come condizione per rivendicare la libertà e i diritti propri. […] Una popolazione povera, provata da anni di guerra, semplice ma ricca di profonda umanità, accolse con animo fraterno ogni fuggiasco, italiano o straniero; vide in loro gli oppressi, i bisognosi, spartì con loro ‘il pane che non c’era’; visse quei mesi duri, di retrovia del fronte di guerra con vero spirito di resistenza, la resistenza alla barbarie“.
A Montereale e poi a L’Aquila fu invece costretta all’internamento la famiglia di Mario Pirani.( 3) “Il padre, – racconta Mario Setta – seguito dalla famiglia, nel mese di giugno 1940, viene obbligato all’internamento a Montereale, in provincia di L’Aquila. Nel mese di ottobre la famiglia viene trasferita all’Aquila (prima in via Paganica e poi in via Majella). Nel 1943 la famiglia si trova da qualche anno a Pescara, dove Mario ha rapporti d’amicizia con Leopoldo Ferrara, Tommaso Taddonio, Glauco Torlontano. Il bombardamento del 31 agosto 1943 li costringe ad allontanarsi dalla città. Si trasferiscono a Penne, prendendo in affitto alcune stanze delle sorelle del parroco. Un giorno, per sfuggire al rastrellamento, Mario trova rifugio nella canonica, aiutato dal parroco, che lo nasconde in un armadio a muro. ‘Quel giorno – racconta Mario Pirani – sarei potuto finire ad Auschwitz. Eravamo piombati in una delle più immani tragedie della Storia. Ormai era in gioco la vita di ogni ebreo e di chiunque avesse una traccia di sangue ebraico’”.
In generale e “indubbiamente, le condizioni di internamento variavano in riferimento ad una serie di fattori, spesso di natura topografica, che includevano lecondizioni strutturali dei campi stessi, il grado di applicazione delle norme da parte deisingoli commissari preposti alla guida dei campi, lo sfondo sociale su cui questi venneroistituiti, le categorie stesse di persone che venivano internate. Fuori da un retoricaaltrimenti fuorviante, è possibile asserire che in generale i campi di concentramento che l‟Abruzzo vide aprire a partire dal 1940 sorgevano in un contesto sociale
tradizionalmente estraneo a forme di pensiero antisemite, che anzi dimostrò in più
occasioni atteggiamenti di vicinanza o solidarietà verso gli internati, spesso motivati da
semplice curiosità nei confronti di stranieri che da un giorno all‟altro si trovavano
inseriti – non per decisione volontaria – all‟interno del tessuto urbano locale. Ma dalla
constatazione di un‟assenza pressoché generale di radicati sentimenti antisemiti o
razzisti e di un atteggiamento sostanzialmente benevolo o quantomeno di rispetto da
parte della società civile non può derivare nessuna tesi che descriva la realtà
concentrazionista abruzzese in termini leggeri, che faccia di questa leggerezza la chiave
di comprensione del fenomeno e nello stesso tempo il paradigma su cui declinare tutti i
successivi giudizi – storici o di valore “ (4)
( 1)(Informazioni e dati tratti da G. De Luna, Tribunale speciale per la difesa dello stato, e M. Franzinelli, Confino di polizia, in Dizionario del fascismo, a cura di V. de Grazia-S. Luzzatto, Torino, Einaudi, 2003).
(2 )https://www.vanillamagazine.it/il-confino-politico-ai-tempi-del-fascismo/
(3)Nato in una famiglia borghese di origine ebraiche, Mario Pirani ha vissuto sulla sua pelle le terribili leggi razziali promulgate dal regime fascista. Nel dopoguerra è diventato prima funzionario del Partito Comunista Italiano, poi dirigente dell’ENI di Enrico Mattei e infine s’è dedicato al giornalismo, diventando uno dei protagonisti della grande avventura della fondazione del quotidiano la Repubblica
( 4 )file:///C:/Users/valte/Downloads/Dialnet-LAltroInternato-3653442.pdf
In totale furono 15 i siti scelti come campi di concentramento nella regione e 59 le zone
individuate a partire dal 1940 come zone di internamento. Per una panoramica specifica sul
sistema concentrazionista abruzzese cfr. i lavori di: FELICE, Costantino, PEPE, Adolfo,
PONZIANI, Luigi, Storia dell’Abruzzo. Il Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 50-53; cfr.
spec. DI SANTE, Costantino, «I campi di concentramento in Abruzzo», in ID. (a cura di), I campi
di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940 – 1945), Milano, Franco
Angeli, 2001, pp. 177 – 206; COOPERATIVA ARKÈ, I campi di concentramento in Abruzzo: 1940 –1944, Acquaviva Picena, Fast Edit, 2004; PERRI, G., «Il campo di concentramento di Città
Sant’Angelo nella documentazione dell’Archivio centrale dello Stato (1940 – 1944)», Abruzzo
contemporaneo. Rivista di storia e scienze sociali, nn. 32 / 33, 2008, pp. 93 – 134;
GAMBACORTA, C., «Anche l’Abruzzo ha avuto i suoi “Lager ”», in Quadrilatero , I, 1990, pp. 50 –53; sul campo di concentramento di Civitella del Tronto cfr. IACOPONI, Italia, «Civitella del
Tronto», Rivista abruzzese di studi storici dal fascismo alla resistenza, n. 2, 1984, pp. 213 – 225;
D’ASCANIO, Francesco, «Civitella del Tronto e il campo degli internati», La Voce Pretuziana, VI,
fasc. 1, 1977, pp. 45 – 47; sul campo di Nereto cfr. IACOPONI I., «Nereto», Rivista abruzzese di
studi storici dal fascismo alla resistenza, nn. 2 – 3, 1983, pp. 325 – 336; per il campo di
Notaresco rinvio a IACOPONI, Italia, «Notaresco», Rivista abruzzese di studi storici dal fascismo
alla resistenza, n. 1, 1984, pp. 131 – 135; DI CESARE, Gabriele, Notaresco. Appunti di storia
moderna e contemporanea, Comune di Notaresco, 1989; sui campi di Tortoreto,
geograficamente distanti sette chilometri l’uno dall’altro ma diretti da un’unica
amministrazione, cfr. DI SANTE, Costantino, «Il campo di concentramento di Tortoreto
Stazione (Alba Adriatica) e Tortoreto Alto 1940 – 1943», L’orizzonte, n. 2, 2000, pp. 1 – 2; per
Tossicia rinvio a IACOPONI, Italia, «Tossicia», Rivista abruzzese di studi storici dal fascismo alla
resistenza, n. 1, 1985, pp. 199 – 210; sul campo di Corropoli cfr. IACOPONI, Italia, «Badia di
Corropoli», in Rivista abruzzese di studi storici dal fascismo alla resistenza, nn. 2 – 3, 1985, pp.
351 – 356; su Lama dei Peligni cfr. SPADARO D., La repressione del dissenso politico nel regime fascista. Lama dei Peligni, dal confino al campo di concentramento, Chieti, Tinari, 2009.