Redazione- Mercoledì 18 gennaio 2023 presso il Palazzo della Provincia di Chieti è stata inaugurata una mostra che rimarrà aperta fino al 31 gennaio nell’ambito della XXIII edizione del progetto “Il Calendario della Repubblica-Il Dovere della Memoria e al culmine proprio del Giorno della Memoria 2023 . La mostra racconta la storia dei 15 campi fascisti di concentramento in Abruzzo su un totale di 48 nell’intera penisola e 63 località di internamento libero, una sorta di domicilio coatto in una regione lager, L’Abruzzo ,riservato a quei deportati che erano ritenuti meno pericolosi, nelle contingenze belliche.
La notizia dell’esposizione della mostra mi dà l’occasione di riflettere su alcuni temi che voglio condividere con il lettore. I campi fascisti di concentramento in Abruzzo, i luoghi di confine per gli oppositori del regime , la persecuzione razziale contro ebrei ed altre minoranze fino appunto all olocausto che appunto viene ricordato nel giorno della memoria.
Per una migliore lettura terrò separati i temi dividendo questa trattazione in tre parti . La prima parte dunque si occupa dei campi di concentramento fascisti .
Su questo tema accennavo ad una mostra .Ad organizzare la mostra ‘I campi di concentramento fascisti in Abruzzo dal 1940 al 1943’ è lo storico Giuseppe Lorentini (Unimol, autore del libro L’ozio coatto. Storia sociale del campo di concentramento fascista di Casoli (1940-1944), Ombre corte, giugno 2019) con Kiara F. Abad Bruzzo, Gianni Orecchioni, Nicola Palombaro, realizzata con il patrocinio e il contributo del Comune di Casoli. I quattordici pannelli di cui è costituita la mostra “vogliono avvicinare un pubblico sempre più ampio alla riscoperta dell’internamento civile fascista che per anni è rimasto nell’oblio”, documentando “il sistema concentrazionario italiano durante la Seconda guerra mondiale e, nello specifico, negli anni 1940-1943, evidenziando come l’Abruzzo sia stata la regione prescelta dal regime fascista” per attuarlo, perché, “collocata al centro dell’Italia e lontana dai luoghi di frontiera, difficile da raggiungere perché isolata dalle montagne e dal mare, poco politicizzata e priva di grandi centri urbani” . (ANSA).
Dal 1939 furono costruiti in Abruzzo campi di internamento o prigionia fascisti . E poi dal 1940 furono operativi oltre una decina di campi, dove venivano rinchiusi prigionieri politici, dissidenti ed ebrei. I campi in Abruzzo furono 15, alcuni dei quali ancora esistenti.
I prigionieri politici di guerra e dissidenti erano alloggiati in palazzi e abitazioni.Residenze a volte per singoli individui a differenza dei luoghi di reclusione per prigionieri di guerra ed ebrei che erano veri e propri carceri. Anche perchè provviste di casermetta e sistema di controllo, di cui si ricordano il Campo di prigionia 21 di Chieti Scalo (che nel dopoguerra verrà intitolata alla M.O.V.M. Enrico Rebeggiani ) e il campo di Fonte d’Amore a Sulmona. Per quest’ultimo venne realizzata un’intera area de reclusione per prigionieri di guerra, nella località, mentre l’ex Badia Morronese dei Celestini divenne un carcere per dissidenti politici, essendo già una prigione dall’unità d’Italia.
In tutto i campi sono: Campo di prigionia 21 di Chieti (Chieti Scalo), attuale Caserma Rebeggiani, in viale Abruzzo Campo di concentramento di Avezzano , oggi distrutto, era nella piana fucense vicino alla città Campo di internamento nell’asilo “Principessa di Piemonte” – Chieti, scuola elementare in via Principessa di Piemonte Campo di internamento Villa Marchesani – Vasto Marina, allora chiamata “Istonio” dall’antica Histonium, nella frazione della Marina, lungo la strada statale Adriatica,Campo di internamento di Lama dei Peligni , palazzo attualmente scomparso, lungo il Corso Frentano , Campo di internamento di Casoli – Palazzo De Vincentiis-Tilli, via Roma Campo di prigionia femminile Villa Sorge – Lanciano, villa Sorge oggi De Amicis, alla fine del viale Marconi Campo di prigionia per i comunisti Jugoslavi – Tollo, distrutto, stava in un palazzo del centro Carcere di massima sicurezza della Badia Morronese – Sulmona, chiuso dopo la guerra, oggi ospita la sede del Parco Nazionale della Majella Campo di internamento di Sulmona in località Fonte d’Amore, chiuso dopo la guerra, oggi è usato per visite guidate. Campo di prigionia della fortezza Civitella del Tronto , smantellato dopo la guerra Campo della Badia Celestina “Santa Maria di Mejulano” – Corropoli, smantellato dopo la guerra Campo di internamento dei cinesi nell’ex monastero di San Gabriele dell’Addolorata – Isola del Gran Sasso, era situato dentro il convento dei Francescabi, poi smantellato Campo di internamento dell’ospedale psichiatrico Sant’Antonio – Teramo, smantellato dopo la guerra, l’ex ospedale è stato chiuso nel 1997 Campo di Notaresco, smantellato Campo di internamento di Tortoreto Stazione – oggi comune di Alba Adriatica, smantellato Campo di concentramento degli zingari – Tossicia, presso il palazzo baronale, smantellato Campo di internamento dell’Hotel Campo Imperatore, Assergi , il 25 luglio 1943 vi fu rinchiuso Mussolini; oggi è usato per scopi turistici.
Il 3 marzo 1941 il campo dell’ex abbazia di Corropoli contava 18 internati, nel corso dei mesi successivi ci furono nuovi arrivi, nell’agosto 1941 il campo aveva 64 presenze, nella maggior parte irredentisti slavi e comunisti, tra cui anche donne, successivamente trasferite. Nel 1942-43 la situazione si inasprì sia a Corropoli sia negli altri campi, per evitare che i soggetti ritenuti più sovversivi fomentassero rivolte o tentativi di fuga, e il regime si fece più aspro nelle vessazioni fisiche, nel razionamento di cibo e di acqua.
Più diffusamente voglio qui parlare del Campo di concentramento 78 di Fonte d’Amore .
Si trova nella località omonima di Sulmona, e rappresenta uno dei campi di prigionia di guerra più grandi dell’Abruzzo, nonché uno dei meglio conservati. Durante l’occupazione tedesca, Sulmona assunse un ruolo importante per la mobilità delle truppe e dei materiali bellici, per via dello snodo ferroviario delle quattro linee dirette a Roma (via Avezzano), Pescara, Napoli (via Castel di Sangro), e Terni (via L’Aquila). A poca distanza a Pratola Peligna sorgeva uno stabilimento adibito a polveriera per la fabbricazione di munizioni, e ciò risultò un buon centro di acquartieramento delle truppe, e successivamente per la cattura di prigionieri politici, e di combattenti nemici da internare in campi di lavoro, data l’asprezza del territorio del Morrone. Sulmona si trovava inoltre nei pressi della “linea Gustav” fortificata dai tedeschi da Ortona fino a Cassino, e ciò comportava il rischio di incursioni aeree degli alleati, incursione che ci fu il 30 agosto 1943 presso la stazione ferroviaria. Il campo numero 78 di Fonte d’Amore venne costruito per imprigionare i militi anglosassoni, provenienti soprattutto dalle operazioni belliche in Africa, e venne realizzato ampliando un campo di guerra già esistente per le operazioni belliche del 1915-18. Il campo di prigionia fu inaugurato nel 1940 e continuò la sua attività fino al settembre 1943, quando dopo la notizia dell’armistizio, le guardia e i gerarchi nazifascisti abbandonarono il controllo della città, permettendo l’evasione di massa dei prigionieri, che furono aiutati dai pastori e dai cittadini locali a scalare la montagna, per raggiungere le città di collina e di pianura, nonché il gruppo ribelle della “Brigata Maiella”, che preparava l’attacco contro i nazisti.Tuttavia da parte dei tedeschi che avevano il comando in città ci furono vari rastrellamenti di dissidenti politici e cospiratori contro il governo nazifascista, che favorivano la fuga dei prigionieri. Il campo oggi è in abbandono, benché sia ancora conservato, ed è costituito da una grande muraglia perimetrale che cinge il campo vero e proprio con le baracche dei prigionieri molto semplice, dal tetto a spioventi, e la baracca maggiore dove c’era la sede delle massime autorità.
Mario Setta lo descrive così : “ Il Campo di Concentramento fu costruito per i prigionieri della prima guerra mondiale (1915-1918). Vi furono sistemati i prigionieri di nazionalità austro-ungarica, adibiti ad operazioni di rimboschimento, lavori agricoli e artigianali. L’epidemia, la “spagnola”, provocò la morte di oltre 400 persone, sepolte in seguito al sacrario di guerra austro-ungarico nel cimitero comunale di Sulmona. Durante la seconda guerra mondiale (1940-1945), al Campo fu assegnato il n. 78 e divenne luogo di detenzione dei prigionieri alleati anglo-americani, catturati prevalentemente nella campagna d’Africa. Secondo una mappa del settembre 1943 pubblicata da The Red Cross and St. John War Organization i prigionieri di guerra (POW, Prisoner Of War), detenuti nei campi di concentramento italiani erano più di centomila. Lo storico inglese Roger Absalom, il maggiore esperto sui prigionieri di guerra alleati in Italia, parla di circa 80.000 prigionieri alleati in Italia. Al Campo 78 ve n’erano oltre tremila.(1)
E poi sempre nello stesso articolo passa la mano a JOHN ESMOND FOX, che scrive :
«Come arrivammo intravidi il campo che stava ai piedi della montagna, in aspro contrasto con la ricca campagna della valle. Non avevo mai visto un campo, in precedenza, e avevo trovato difficile anche immaginarlo… La facciata del campo era quella tipica di ogni caserma, con posti di guardia e uffici. […] Ora eravamo veramente chiusi da alte mura e da alte montagne, controllati da guardie armate sulle torri di controllo. Avvertivamo una sensazione di ineluttabilità e la maggior parte di noi sembrava rassegnata al fatto di dover restare lì per tutta la durata della guerra. Il luogo appariva uggioso, senza colore, senza il canto degli uccelli e il cinguettio monotono dei passeri; mi chiedevo quanto si potesse durare con una esistenza così opprimente. della baracca era un labirinto di letti a due piani, alti circa due metri, disposti così vicini che andare da una parte all’altra richiedeva una grande destrezza… […] E’ strano rilevare come uomini di varia estrazione sociale, diversi per lingua e costumi, credo e razza, imprigionati insieme per qualche crudele capriccio del fato, dominati con la forza, privati e spogliati della propria individualità e ridotti al solo comune denominatore di esseri umani, siano capaci di gettar via l’orgoglio e il pregiudizio per un legame di amicizia, trovando uno scopo di vita e lottando contro un comune nemico. Penso che questo sia uno degli aspetti della vita che può essere soltanto sperimentato, sfortunatamente, in circostanze infelici come queste. Che miracolo sarebbe se un simile cameratismo o spirito di corpo, chiamatelo come volete, prevalesse nella vita di tutti i giorni. Il mondo allora davvero sarebbe ad un passo dall’estrema utopia dei nostri sogni più cari».(J. E. Fox, Spaghetti and Barbed Wire tradotto in italiano con il titolo Spaghetti e filo spinato, a cura del Liceo Scientifico Statale Fermi di Sulmona, ed Qualevita, Torre dei Nolfi, 2002).
A DONALD I. JONES che sembra quasi aggrapparsi ad Ovidio per farne un modello ed un maestro di vita:«Ovidio scrisse nelle “Metamorfosi”: Tempus edax rerum = il tempo tutto divora; egli nacque a Sulmona nel 43 a.C., eppure le sue parole risuonavano vere nel 1943 nel campo dei prigionieri di guerra di Sulmona… Il campo di prigionia, o per dare la sua denominazione precisa, Campo dei prigionieri di guerra n.78, era situato a circa 5 miglia da Sulmona, in un piccolo villaggio chiamato Fonte d’Amore. Che nome per un campo di prigionia! […] Lo stesso campo era di forma rettangolare, circondato da un alto muro di pietra e, come se questo non fosse stato sufficiente, le autorità italiane avevano cementato cocci di vetro rotto in cima al muro e avevano aggiunto due alti recinti di filo spinato lungo il perimetro… Il campo era diviso in cinque reparti: uno per gli ufficiali, uno per i sergenti… gli altri tre per gli altri ranghi… Grazie al regolare invio dei pacchi della Croce Rossa, che si aggiungevano alle insufficienti razioni italiane, sopravvivemmo nel periodo tra l’ottobre del 1942 e il settembre 1943 a Sulmona ed eravamo in buona salute».(D. Jones, Escape from Sulmona, tradotto in italiano con il titolo Fuga da Sulmona a cura del Liceo Scientifico Statale Fermi di Sulmona, ed. Qualevita, Torre dei Nolfi 2002).
Come pure a JOHN FURMAN, trasferito a Sulmona dal Campo n. 21 di Chieti, che scrive:«Partii con un convoglio il pomeriggio del 23 settembre; e circa due ore dopo arrivai in un campo, cinque miglia a nord di Sulmona. Lì ci ritrovammo con gli amici partiti coi convogli precedenti, e ci affrettammo a farci descrivere tutti i particolari delle fortificazioni del campo, che erano riusciti a osservare. Un certo numero di ufficiali – compreso all’incirca fra dieci e cinquanta – aveva messo in atto un piano di fuga la notte precedente. Alcuni erano stati catturati mentre tentavano di evadere. Di conseguenza, i tedeschi avevano passato la giornata a rafforzare difese e fortificazioni. E avevano aumentato le sentinelle, piazzate le mitragliatrici, messi a fuoco i riflettori. […] Dopo un’ispezione generale, ci rendemmo conto che andarcene stava diventando un affare tutt’altro che semplice. Tutto quanto il territorio entro il quale eravamo tenuti prigionieri era circondato da un doppio recinto di filo spinato. Le sentinelle vi facevano la guardia, armate di torce e di altri mezzi anche più offensivi. Al di là del recinto esterno, erano piazzate le mitragliatrici con un buon campo di tiro» (John Furman, Be not fearful, in italiano Non aver paura, Garzanti, Milano 1962).
E anche a WILLIAM SIMPSON che non metterà piede nel campo di Fonte d’Amore, perché poco prima di arrivare, salta dal camion e si dà alla fuga. Racconta: «Quando svoltammo dalla strada principale… afferrai una barra sopra la testa, saltai sul sedile, poggiai il piede sinistro sulla coscia del londinese e mi accucciai. Da quel lato c’era una siepe alta. Il cuore mi batteva. Le marce grattavano. Il camion incominciò ad accelerare. Gelai. Era un suicidio. Il londinese, sforzandosi di tenere ferma la sua coscia, mi vide barcollare. “Vai, salta!” urlò. Mi lanciai fuori, oltre la siepe. Il pensiero del mitra della guardia attutì il mio impatto con il suolo. Rotolando, mi ricordai delle guardie sulle motociclette. C’era un fossato poco profondo oltre la siepe. Vi scivolai dentro, con la faccia a terra. I sidecar stridettero, abbordando la curva e rimbombarono mentre mi passavano accanto a distanza di pochi piedi. Il rumore svanì. Piegai un braccio, una gamba; si muovevano. Alzandomi, tolsi la terra e la paglia dalla mia uniforme inglese e dai pantaloncini color kaki, più adatti per il deserto. In quel piccolo campo il fieno era stato appena tagliato». (William Simpson, A Vatican Lifeline ’44, tradotto in italiano col titolo La guerra in casa 1943-1944. La resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano, a cura del Liceo Scientifico Statale Fermi di Sulmona, presentazione di Roger Absalom, ed. Qualevita Torre dei Nolfi, 2004)
La destinazione carceraria della regione fu sfruttata anche dai Borboni, che la utilizzarono come luogo di confino o di carcere militare, vedi il Bagno Fortezza di Pescara. Ma è nel ‘900 che il fenomeno esplode: i campi di concentramento per i prigionieri di guerra di Avezzano e Sulmona utilizzati nelle due guerre mondiali, la Chieti ‘Città camomilla’ del processo Matteotti, i battaglioni di slavi italiani demilitarizzati e utilizzati per lavori del Genio, l’albergo prigione di Mussolini a Campo Imperatore nel 1943, i 16 campi di prigionia e gli oltre 50 luoghi di internamento coatto per gli oppositori durante il Fascismo.
Così l’Abruzzo divenne tra il 1940 e il 1943 una regione con il più alto numero di deportati in campi di concentramento avendo una disponibilità di luoghi con strutture concentrazionarie per tutte le diverse tipologie di internati.
La mostra di cui parlavo all’inizio , articolata in 12 pannelli di grandi dimensioni (120 x 200 cm), dedica una prima parte alla definizione del concetto di campo di concentramento, facendo riferimento, in particolare, a quanto scrivono in merito Kotek e Rigoulot ne Il secolo dei campi.
Essi distinguono tre tipologie di campi: i campi di internamento, realizzati per l’isolamento temporaneo di individui sospetti o pericolosi; i campi di concentramento propriamente detti, come i Lager nazisti o i Gulag sovietici, nati nei regimi totalitari per durare nel tempo e finalizzati al lavoro forzato, all’abbrutimento e all’annientamento dei reclusi; i campi di sterminio, creati dalle SS naziste nei territori occupati della Polonia per mettere in atto l’eliminazione fisica degli ebrei mediante l’uso di camere a gas. In tal senso appare chiaro come i campi di concentramento fascisti, ben diversi dai Lager e dai Gulag, assumano una tipologia tutta particolare che la mostra intende chiarire al di là di ogni possibile confusione. L’istituto dell’internamento civile monarchico-fascista fu introdotto nel 1938 dalla legge di guerra (r. d. 8 luglio 1938, n. 1415) per le persone di nazionalità nemica, ma fu utilizzato durante la Seconda guerra mondiale, ben altrimenti dalla consolidata pratica amministrativa in caso di conflitto bellico, come strumento politico di repressione del dissenso e di persecuzione razziale. Infatti nei campi di concentramento fascista finirono anche gli ebrei stranieri di stati alleati dell’Italia, Rom e Sinti, che nel linguaggio burocratico-amministrativo di allora erano chiamati con il termine spregiativo di “zingari”, gli oppositori politici. Le “Prescrizioni per i campi di concentramento e per i luoghi di internamento” furono emanate attraverso la circolare 442/12267 dell’8 giugno 1940, inviata ai prefetti. Nei confronti dei provvedimenti di internamento non era possibile fare ricorso, anche perché l’internamento, nelle sue varie forme, non era conseguente ad alcun tipo di reato, ma soltanto dell’appartenenza etnica, politica e razziale. I campi di concentramento erano di tipo monogenere, ossia maschili o femminili. Dovevano essere collocati nelle periferie dei comuni (anche se non sempre fu così) e, anche in caso di uscita dal campo, era previsto che gli internati non oltrepassassero il perimetro entro il quale era consentito loro di muoversi. Nei campi di concentramento vigeva un sistema di controllo molto più rigido rispetto a quello previsto dal regime dell’internamento libero, che consentiva agli internati di vivere all’interno di case private e di essere raggiunti dalle famiglie. Tuttavia agli “internati liberi” era comunque vietato uscire prima dell’alba e dopo il tramonto, frequentare la gente del posto, possedere o ascoltare la radio, leggere i giornali stranieri, frequentare le sale cinematografiche. Dovevano recarsi ogni giorno a firmare la presenza e dovevano subire il controllo della posta. (2)
Casoli, cittadina abruzzese in provincia di Chieti, si erge arroccata su una collina alla destra del fiume Aventino ai piedi del massiccio della Maiella. Nell’aprile del 1940 fu scelta dal ministero dell’Interno come luogo idoneo all’internamento di “ebrei stranieri”. Furono individuati due edifici principali per allestirvi il campo di concentramento per internati civili stranieri: le cantine di Palazzo Tilli, di proprietà dell’avvocato Vincenzo Tilli (capienza 100 posti successivamente ridotti a 50, data l’inagibilità del seminterrato) e alcune aule funzionanti nei locali dell’ex Municipio (a quel tempo sede della scuola di avviamento professionale con 30 posti). Le cantine di Palazzo Tilli si rivelarono umide e malsane cosicché il ministero dell’Interno decise di trasferire gli internati nella dépendance del palazzo, sempre di proprietà dell’avvocato Tilli, allora utilizzata come sala per spettacoli teatrali, cinema e feste della capienza di 50 posti. Queste strutture, nel loro insieme, costituirono il sistema del campo di concentramento fascista di Casoli, attivo dal 9 luglio 1940 fino all’8 settembre del 1943. La direzione del campo era sottoposta al podestà ed ai commissari prefettizi di turno. Il servizio di sorveglianza veniva eseguito, sotto la giurisdizione della Legione carabinieri reali di Ancona, da un sottufficiale e sei carabinieri che risiedevano vicino al campo in un locale di “posto fisso” di fronte al fabbricato Tilli. Nei primi giorni di maggio del 1942, gli internati ebrei vennero trasferiti nel campo di Campagna (Salerno) e a Casoli arrivarono gli “internati politici”, per la maggior parte civili “ex jugoslavi” originari delle terre di occupazione italiana in Jugoslavia trasferiti dal campo di Corropoli (Teramo). Dopo l’8 settembre 1943, sotto l’occupazione tedesca dell’Italia, nove degli ebrei internati a Casoli furono deportati e sterminati ad Auschwitz; un altro invece fu assassinato alla Risiera di San Sabba (Trieste). (3)
Giuseppe Lorentini (4) in L’ozio coatto Storia sociale del campo di concentramento fascista di Casoli (1940 -1944) ricorda che furono 15 i campi fascisti di concentramento in Abruzzo su un totale di 48 nell’intera penisola e 63 “località di internamento libero, una sorta di domicilio coatto riservato a quei deportati che erano ritenuti meno pericolosi, nelle contingenze belliche”.
“Io sempre vissi dal lavoro e non posso più sopportare l’ozio coatto dell’internamento”. Casoli, 22 settembre 1942.
Casoli, cittadina abruzzese in provincia di Chieti, si erge arroccata su una collina alla destra del fiume Aventino ai piedi del massiccio della Maiella. Nell’aprile del 1940 fu scelta dal ministero dell’Interno per allestirvi una struttura per internare “ebrei stranieri”; questa divenne un campo fascista attivo dal 9 luglio 1940. Nei primi giorni di maggio del 1942, gli internati ebrei vennero trasferiti nel campo di Campagna (Salerno) e a Casoli arrivarono gli “internati politici”, per la maggior parte civili “ex jugoslavi” originari delle terre di occupazione italiana in Jugoslavia.
Analizzando i fascicoli personali di quasi tutti gli internati, conservati presso l’Archivio storico comunale di Casoli, e confrontandosi con la storiografia e le fonti relative al periodo, Lorentini ripercorre la storia del campo facendo emergere il profilo dei prigionieri, le loro biografie, la vita quotidiana, le pratiche della comunicazione, il rapporto con la comunità cittadina, ma anche i problemi amministrativi e organizzativi riguardanti la sua gestione. La ricerca storica del campo di Casoli ci restituisce, come in un’istantanea, una pagina finora oscura dell’internamento civile fascista come spazio delle pratiche della politica razziale e di repressione operata dal regime, come laboratorio del razzismo fascista a livello locale.
( 1 )https://www.verbumpress.it/2021/12/17/il-campo-78-dei-prigionieri-di-guerra-a-sulmona/
( 4 ) Giuseppe Lorentini è ideatore e responsabile curatore del Centro di documentazione on line sul campo di concentramento fascista di Casoli (1940-1944), www.campocasoli.org. Ha ottenuto il doppio titolo di Laurea Magistrale/Master of Arts in Scienze storiche nell’ambito del corso integrato italo-tedesco tra l’Università di Bielefeld e quella di Bologna (BiBoG). Nel dicembre 2018 ha ricevuto il DAAD Preis, il prestigioso premio del “Servizio Tedesco per lo Scambio Accademico”.
Bibliografia di riferimento
C. S. Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torino, Einaudi, 2004.
C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), Milano, Franco Angeli, 2001.
F. Mikuletič, Internatitis, Gorica, Goriška Mohorjeva družba, 1974.
G. Orecchioni, I sassi e le ombre. Storie di internamento e di confino nell’Italia fascista. Lanciano 1940-1943, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006.
G. Antoniani Persichilli, Disposizioni normative e fonti archivistiche per lo studio dell’internamento in Italia (giugno 1940-luglio 1943), in “Rassegna degli Archivi di Stato”, Roma 1978.
G. Lorentini, L’ozio coatto. Storia sociale del campo di concentramento fascista di Casoli (1940-1944), Verona, Ombre corte, 2019.
J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio: la tragedia del Novecento, Milano, Mondadori, 2001.
K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Vol. 2, Firenze, La Nuova Italia, 1996.
L. Sirovich, «Non era un donna, era un bandito». Rita Rosani una ragazza in guerra, Verona, Cierre Edizioni, 2014.
M. Eisenstein, L’internata numero 6, Roma, De Luigi Editore, 1944.
S. Carolini (a cura di), “Pericolosi nelle contingenze belliche”. Gli internati dal 1940 al 1943, Roma, ANPPIA, 1987.