Redazione- Gabriele d’Annunzio fu uno dei pochi artisti ad aver ispirato Grazia Deledda e ad aver stretto una profonda amicizia con Sardi di notevole ingegno, come Gavino Gabriel, Lao Silesu, Enrico Costa. Ebbe grande ammirazione per il musicista e musicofilo Gavino Gabriel, autore di quei canti popolari dell’isola che d’Annunzio ascoltò al Vittoriale. In merito il poeta scrisse: “Da più giorni vivo nel cerchio magico di quelle melodie. Non è possibile ascoltare un canto della Planargia e dell’Anglona senza restare imprigionato da un fascino misterioso con un indicibile aumento di vita interiore”.
Nel 1882 d’Annunzio soggiornò in Sardegna assieme a Cesare Pascarella e Edoardo Scarfoglio, tutti collaboratori della rivista romana “Capitan Fracassa”. Sbarcarono a Olbia. Poi visitarono Alghero, Nuoro e Oliena. Arrivarono sino al Campidano e si fermarono a Cagliari. La spettacolare cascata di Sa Spendula a Villacidro lo avvinse e ispirò a tal punto che il Vate compose un sonetto scolpito sulla parete rocciosa.
L’atmosfera magica della Sardegna e la natura potente, a tratti ancestrale e misteriosa, spinsero il poeta abruzzese a scrivere “Sale”, una poesia ambientata a Cagliari.
Fu inebriato dal Nepente di Oliena. E ad un amico così scrisse:
“Non conoscete il Nepente di Oliena neppure per fama? Ahi lasso! Io son certo che, se ne beveste un sorso, non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi, e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate nel macigno che i sardi chiamano Domos de janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi…”
Il Vate d’Annunzio ebbe il merito di introdurre il mito del sardo intrepido combattente nell’immaginario nazionale.
Nel 1911 compose per il soldato Pietro Aru di Cuglieri la poesia “Ari”: “Non guarda il cielo Pietro Ari. Guarda/ tra sacco e sacco. Pelle non scarseggia/ Sceglie, tira, non falla…”.
Scrisse anche versi in onore di Alberto Riva di Villa Santa, uno degli eroi sardi della Prima Guerra Mondiale. Alberto Riva Villa Santa era figlio di un’importante famiglia di tradizione militare. Morì a Paradiso (Udine), sul campo di battaglia, pochi momenti prima della cessazione delle ostilità, il 4 novembre 1918, contestualmente all’armistizio di Villa Giusti che pose fine alla Grande Guerra.
«Ecco un giovine italiano, ecco un adolescente, Alberto Riva, della casata di Villa Santa, un Italiano di Sardegna, diciottenne. Suo padre era caduto nella battaglia il 7 giugno 1916. Quattro de’ suoi consanguinei erano caduti nella battaglia. Al suo fianco un suo fratello era stato ferito. E non gli bastava. Stirpe più che ferrea, silenziosa sublimità sarda, eroismo delle labbra serrate, sacrifizio senza parola. L’isola non s’è rinsaldata al continente? C’è tuttavia il Tirreno tra noi e quel masso d’amore? Al passaggio del Piave, al passaggio della Livenza, questo fanciullo aveva operato prodigi, conducendo il reparto d’assalto dell’ottavo reggimento di bersaglieri. Il 4 novembre, all’ora precisa dell’armistizio, cadde anch’egli alla testa dei suoi arditi, colpito nell’atto del balzo, per spingere la vittoria più lontano, per più accostarsi a quelli che ci aspettavano, a quelli che ci aspettano”.
Il Vate celebrò anche le imprese eroiche dei quattrocento archibugieri sardi, rievocando la battaglia di Lepanto del 7 ottobre1571: “Don Giovanni nella battaglia aveva sul ponte quattrocento soldati del Terzo di Sardegna, che fecero miracoli contro i trecento giannizzeri e i cento arcieri di Alì… Anche la recondita Teulada ha il suo eroe nel cannoniere Michele Meloni di Francesco, ferito nella giornata del 23 ottobre a Homs”.
Nel 1893, scrivendo allo scrittore e giornalista Stanis Manca, rivelò: “Io spero di potere a ciascuno (Sebastiano Satta, Pompeo Calvia e Luigi Falchi, nda) stringere le mani, possibilmente, e di videni a Sassari luntanu. […] Ho la nostalgia della Sardegna, da dodici anni, come d’una patria già amata in una vita anteriore”.
Il Vate non tornò mai più in Sardegna, né riuscì a scrivere sull’isola quel libro tante volte procastinato. Agli inizi del nuovo secolo d’Annunzio fu costretto a riparare in Francia per sfuggire ai creditori. Frattanto in tutta Europa si avvertiva quel malessere profondo che preluse alla Grande Guerra nella quale il Vate si distinse per le imprese eroiche, dapprima come “il poeta-soldato”, poi come “il Comandante” con la presa di Fiume.
A guerre mondiali concluse, vi fu qualche critico che accusò il poeta di superficialità e frivolezze per non avere saputo “cogliere” e rappresentare la dura vita dei contadini e dei minatori sardi. Mentre va ricordato che il poeta così descrisse la triste vita dei minatori di Masua: “All’alba fra quei coni di frasche e di fango, c’è un brulicame umano: escono quasi carponi dalle strette aperture, come esquimesi di sotto il ghiaccio. Sono uomini pieni di cenci e di sudiciume, dal viso terreo, con gli occhi arrossati nel tormento della polvere, con i capelli incolti; sono donne macilenti, flosce, quasi istupidite dall’incubo di quella oscurità domestica pregna di miasmi, dalla caldura soffocante di tutta una notte; sono bimbi rachitici, col viso per lo più chiazzato di croste, con gli stinchi fiacchi, senza un lampo ilare nella pupilla, senza uno strillo di gioia in bocca… gente per cui il senso della vita è angoscioso, costretta a estenuarsi i polmoni nell’aria attossicata delle gallerie, frangersi le braccia contro la pietra, dormire poi sulla terra umida, senza strame, sotto le travi nere di fumo. Per quegli uomini la famiglia non ha gioie; dentro quelle tane ogni affetto intristisce; la mano levata ad accarezzare ricade stanca…”.
Dal 1920 al 1922, esattamente fra la fine dell’impresa di Fiume e la marcia su Roma, diverse furono le vicende che videro il ‘politico’ d’Annunzio incontrarsi dapprima con i combattenti sardi e poi con i sardisti. Nel 1975 Paolo Pili, dapprima leader del combattentismo, poi del sardismo e infine federale nonché deputato fascista, così scrisse: “…In quello stesso periodo… era avvenuta l’avventura di Fiume; d’Annunzio vi era andato… in quell’epoca noi eravamo favorevoli a simili movimenti. Un simile atteggiamento… ci serviva anche per controbattere efficacemente all’accusa che di tanto in tanto ci lanciavano dall’altra sponda, dall’Italia, quella di separatismo; schierandoci in quel modo potevamo infatti dimostrare di essere collegati con l’unico movimento patriottico, nazionalista, che ci fosse allora vivo in Italia, il fiumenesimo; sicché sin dal congresso del 1920 a Macomer avevamo mandato una copia del nostro documento a d’Annunzio il quale subito fece scrivere da Alceste De Ambris una lettera a Emilio Lussu con cui esaltava il documento definendolo un monumento di organizzazione sociale… Nel 1922 si profilava la possibilità che d’Annunzio facesse, assieme ai legionari che erano stati con lui a Fiume, una marcia su Roma prima di Mussolini… si trattava di andare al governo prima del fascismo con la collaborazione del Duca D’Aosta… Noi eravamo assolutamente favorevoli, perciò mandammo a d’Annunzio un proclama del partito, dichiarandoci a sua disposizione”.
Fu proprio Pili, assieme ad Antonio Putzolu, a recarsi a Milano per concordare la collaborazione dei sardisti con lo stato maggiore dannunziano. Il leader del combattentismo sardo avrebbe messo a disposizione 5.000 uomini, chiedendo in cambio armi e mezzi di trasporto.
Di quegli accordi non se ne fece nulla. In quelle stesse ore i fascisti occuparono Palazzo Marino a Milano.
Il progetto sardista saltò. Paolo Pili scrisse: “Noi volevamo fare la marcia su Roma prima dei fascisti, per bloccarli e fare un’amministrazione con lo Statuto fiumano che consentiva le autonomie regionali. Anzi d’Annunzio nella Carta del Carnaro parla di comuni autonomi…”.
Lorenzo Del Piano, storico dell’autonomia della Sardegna, ritenne che il rapporto sardismo-dannunzianesimo… contribuì a togliere al movimento dei combattenti sardi e poi al Partito Sardo d’Azione del primo dopoguerra… ogni carattere provinciale, localistico e ad inserirlo nel flusso politico e culturale nazionale.
La fine dell’impresa fiumana e la Marcia su Roma segnarono per la storia d’Italia l’inizio di una tragedia. Di quei giorni drammatici Emilio Lussu ricorda un particolare retroscena che avrebbe dovuto vedere il Vate protagonista di un’iniziativa organizzata dal Governo per cercare di ostacolare le intenzioni dei fascisti ma che non vide mai la luce.
Emilio Lussu, fondatore del Partito Sardo d’Azione, fu un ufficiale pluridecorato nella Grande Guerra, eroe della Resistenza, membro della Costituente e Ministro della Repubblica. Le sue imprese hanno fatto di lui un vero e proprio “passe-partout” nella Storia d’Italia. Il “Cavaliere dei Rossomori” dedicò la propria esistenza per la giustizia e la libertà. Fu un uomo integerrimo, che visse le due guerre mondiali con ardimento, da tutti salutato come il “Capitano”.
Il giovane Emilio Lussu, che ebbe il “battesimo del fuoco” sul Carso con la Brigata “Sassari” e che pure era stato un acceso interventista negli ultimi anni dell’Università, sul Carso comprese quale fosse il vero volto della guerra, rischiando più volte la morte.
Come d’Annunzio e Lussu, anche Ungaretti, Gadda, Marinetti, Slataper e tanti altri hanno scritto e descritto la loro guerra, i loro paesaggi durante le battaglie. Al di là del credo politico e/o religioso, se interventisti oppure neutralisti, tutti si trovarono a vivere un’esperienza tragicamente totalizzante, che avrebbe lacerato l‘anima e avrebbe lasciato tracce indelebili nella loro memoria.
Lo scrittore austriaco Fritz Weber scrisse: “Le nostre anime sono ben più desolate e devastate del mucchio di rovine che dobbiamo difendere”
Emilio Lussu, che combatté sull’altopiano di Asiago, in “Un anno sull’altipiano”, suo capolavoro letterario nonché manifesto politico, vergò: “La popolazione dei Sette Comuni si riversava sulla pianura, alla rinfusa, trascinando sui carri a buoi e sui muli, vecchi, donne e bambini, e quel poco di masserizie che avevano potuto salvare dalle case affrettatamente abbandonate al nemico. I contadini allontanati dalla loro terra, erano come dei naufraghi. Nessuno piangeva, ma i loro occhi guardavano assenti. Era il convoglio del dolore. I carri, lenti, sembravano un accompagnamento funebre”.
Mentre Carlo Emilio Gadda: “Io vedo la divina città esposta alla bassezza del furore nemico come Ruggero vide Angelica bianca e nuda esposta alla fame dell’Orca, mentre il flutto dell’oceano artico le lambiva i piedi marmorei”.
F.to Gabriella Toritto
FONTI:
Studi e Documenti Istituto Nazionale Ferruccio Parri
https://www.memoriaestoria.it/il-capitan
https://iris.unica.it/bitstream/11584/352644/3/Articolo%20storia%20e%20politica.pdf
http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/13131/860615-1214199.pdf?sequence=2
https://www.vistanet.it/cagliari/tag/prima-guerra-mondiale/
https://www.umbertocantone.it/un-anno-sullaltipiano-di-emilio-lussu-prima-edizione/
“La Sibilla – Vita di Joyce Lussu” di Silvia Ballestra – GLF Editori Laterza 2022